Il pittore bitontino Francesco Speranza ha manifestato, come pochi, attraverso tante sue opere, un particolare affetto per il proprio paese. Affetto dal quale trae origine l’afflato poetico che caratterizza tutta la sua ricca e variegata produzione. In realtà, i luoghi raffigurati della sua amata Bitonto sono scelti dal maestro non solo per affezione, ma soprattutto per quell’estetica da lui perseguita con ferma determinazione: sono “luoghi dell’anima” (leggi qui) per l’artista, e quindi “Luoghi di Speranza“.
Si è detto più volte, ma è opportuno ribadirlo, che della produzione artistica realizzata da Speranza su Bitonto è estremamente interessante leggere il ciclo di dipinti tenendo conto non tanto dell’aspetto cronologico, quanto seguendo una logica correlata a temi o ambiti. Rintracciando, così, anche il pretesto per conoscere la storia della città mediante questi luoghi. Il pittore per la sua madre terra ha dipinto sia paesaggi urbani che naturali: tra i primi vi sono le piazze, le piazzette, le strade, i cortili o i vicoli, mentre per gli altri ci sono soprattutto le campagne.
Abbiamo già visto l’insieme di opere che ha come motivo conduttore Lama Balice (leggi qui), in cui i paesaggi raffigurati si muovono tra una dimensione urbana ed una più naturale. A seguire alcuni paesaggi più propriamente urbani, desunti dal tessuto della “scesciola” (leggi qui) – la forma labirintica assunta dalla città antica in epoca medievale – che costituiscono il corpus principale della produzione del pittore. In particolare, poi, ci siamo soffermati sui dipinti che hanno come filo rosso il circuito dei camminamenti: il sistema addossato all’antica cinta muraria (leggi qui), che collegava tra loro le varie torri di fortificazione.
Il ciclo di opere sul quale focalizzeremo ora la nostra attenzione riguarda il tema dei vicoli o delle corti della città vecchia, per i quali il pittore predilige un taglio decisamente verticale, innanzitutto per mettere meglio in risalto la quinta di fondo, quasi sempre dallo sviluppo stretto e alto, che fra l’altro, assume una grande importanza scenica nella scelta del luogo da rappresentare, e poi per enfatizzare ancor più il senso prospettico della via senza uscita. È bene ricordare che il termine “còrte” come si rileva dalla corrispondente voce, nel dizionario del Lessico dialettale bitontino di Giacomo Saracino, o nell’edizione ampliata da Nicola Pice, sta ad indicare una via stretta e corta, che il più delle volte è senza via d’uscita (vòje ca nan èsse): ovvero il classico vico cieco che contraddistingue la ramificata della “scesciola”.
Alcuni dipinti relativi alle corti, in realtà, li abbiamo già esaminati in occasione della trattazione del circuito dei camminamenti (leggi qui), come La scala a Bitonto, un’opera del 1946, nella quale l’elemento architettonico protagonista caratterizza lo spazio da cui ha origine Muro Macello, l’odierna Corte Giovanna di Aragona. L’odonimo identifica sicuramente la seconda moglie di re Ferrante, Ferdinando I d’Aragona – rimasto vedovo dopo la morte della prima consorte Isabella da Chiaramonte – più che la loro figlia, anch’ella chiamata Giovanna, ma conosciuta più come Giovannella.
Un altro dipinto, molto suggestivo, eseguito nel 1957, il cui titolo, è stato rilevato dal libro Francesco Speranza Pittore del Novecento di Emanuele Cazzolla, è Paesaggio con vicolo. L’ambiente messo in scena sulla tela raffigura una parte di Muro Santa Maria del Monte Carmelo, il luogo adiacente a Piazza La Maja, che si trova subito a sinistra di chi entra dall’omonima Porta. Infine, vi è l’opera Civilizio, del 1977, il cui nome deriva dal quartiere al quale lo spazio appartiene, sviluppato nella parte bassa dell’abitato antico, più comunemente noto come Cicciovizzo. Il vicolo in questione, peraltro molto stretto, che si chiude con una scenografica scalinata, riproduce Corte Labini: una viuzza prossima a Porta Pendile, che prende il nome dall’adiacente fabbrica rinascimentale della nobile famiglia Labini.
Tutte le opere viste fin qui, assieme a quelle che di seguito analizzeremo, di cui purtroppo non sempre si conosce titolo e datazione, ma che fanno parte quasi certamente della produzione artistica degli anni Sessanta e Settanta, appaiono vuote, prive di anime. Il pittore, quindi, affida interamente all’architettura la narrazione dello spazio, restituita mediante un preciso quadro prospettico e una quinta scenica essenziale, scelta come fondale, contraddistinta pressoché sempre da una scalinata. Inoltre fatta eccezione per il primo dipinto già descritto, dove il cielo è caratterizzato da nuvole, negli altri questo appare sempre di colore blu, uniforme, e connotato dall’artista con la costante presenza della luna: elemento distintivo che accomuna queste tele, alcune volte piena, altre a mezzaluna calante.
Vediamo adesso le altre opere sul tema dei vicoli, iniziando con un dipinto del quale non è dato conoscere il titolo e l’anno, mentre il luogo è facilmente riconoscibile poiché riguarda una veduta di Corte Amsa: il vicoletto che si trova percorrendo Via Maggiore, a partire da Via Porta Robustina, all’innesto con Vico San Silvestro, ossia la stradina che conduce all’omonima chiesetta. Questa corte è localizzata in un’area dal quale il nostro caro pittore è rimasto alquanto affascinato giacché ne ha raffigurato diversi spazi.
Ci sembra opportuno segnalare questi dipinti, che per il vero sono da annoverare al tema delle piazzette, un caposaldo della produzione artistica di Speranza, che merita necessariamente una trattazione a parte. Egli inizia a lavorare a questo ciclo di dipinti nei primi anni Quaranta e sarà impegnato non solo nel corso di quegli anni, ma anche per i decenni successivi. Prima però chiariamo l’origine dell’odonimo Via Maggiore, che ancora oggi si conserva nella città antica di Bitonto. Questo nome, difatti, nell’Alto Medioevo, indicava la strada più importante di quel nucleo urbano, che si era sviluppato da Porta Pendile fino a Porta Robustina, segnandolo in maniera quasi baricentrica. In prossimità del suo inizio, dove si presuppone fosse ubicata l’originaria Porta Robustina, si apre uno slargo in cui si trova il palazzo appartenuto alla nobile famiglia Albuquerque, caratterizzato da due fronti disposti ad angolo retto, realizzati in tempi differenti e trattati in maniera diversa, dal punto di vista architettonico, caratteristiche colte e riprodotte da Speranza nella tela del 1943, intitolata appunto Gli Stili.
Sempre su via Maggiore, nel 1937, il pittore aveva già ripreso la piazza intestata alla regina di Napoli, Margherita di Durazzo, in un’opera molto suggestiva chiamata semplicemente Piazza Maggiore: luogo meglio identificato e conosciuto con l’espressione dialettale la Vemasciòule. Si tratta di una veduta ripresa da Via Francesco Paolo Catucci che guarda in maniera frontale Casa Grottola e l’edificio che da essa si discosta attraverso Via Arco di Cristo, solo in parte visibile. Infine nel 1942, esegue una straordinaria opera sulla Piazzetta di San Silvestro, che in realtà è solamente uno slargo di Via Filippo Massarenghi. Sempre dal citato libro di Cazzolla veniamo a sapere che di quest’opera esistono due versioni, una delle quali è stata pubblicata sulla rivista mensile del Touring Club Italiano Le Vie d’Italia nell’ottobre del 1949.
Ritornando a Corte Amsa, viene spontaneo chiedersi quale sia l’origine dell’odonimo. La risposta ci è offerta dal libro Onomastica stradale di Bitonto (volume I – lettera a) di Donato Antonio De Capua, il quale alla dodicesima voce del volume, dopo aver richiamato come fonte gli Annali dello storico della città Frater Angelus, precisa che il nome deriva da uno dei 31 villaggi abitati dal Populos Bituntinenses prima della formazione della città (polis). L’autore, inoltre, specifica che il villaggio Amsa era situato presso l’antica strada che conduceva a Bari (Amsa iuxta viam Barensem), città, quest’ultima, che aveva inizio laddove finiva il territorio di Bitonto, in località Cammerata.
Tuttavia, nell’odonomastica della città vecchia, tra i vicoli che prendono i nomi dagli antichi villaggi, Corte Amsa non è un caso isolato, ve ne sono altri, come ad esempio Corte Ripella sempre su Via Maggiore, Corte Auricarecta (Arricarrecta) su Via Arco Murgolo, e Corte Ciciliana (Cicilianum) su Via Arco Pinto. È curioso osservare come su ognuna di queste tre strade, da cui si ramificano le corti indicate, Speranza abbia ricavato un dipinto. Abbiamo anzidetto quelli inerenti alla prima, cioè Via Maggiore. Per quanto riguarda la seconda va ricordata un’opera del 1973 intitolata proprio Via Arco Murgolo, nella quale l’artista riproduce l’imbocco della strada da Via Castelfidardo. Infine, relativamente alla terza via è il dipinto Paesaggio con serenata, del 1950, tratto dalla parte iniziale di Via Arco Pinto, però dalla parte opposta dove si trova l’omonimo arco e la succitata corte.
Nella rappresentazione dello spazio di Corte Amsa l’artista sceglie un punto di osservazione che cela la scalinata presente, pur mantenendo il salto di quota che effettivamente esiste tra la strada e la corte. Il dislivello è segnato con una semplice linea che marca la differenza del disegno della pavimentazione, esplicitato con un quadrettato, a simulare le chianche per la strada e con un colore uniforme per la corte. Tra i vari piani prospettici che definiscono la corte, sulla quinta in primo piano a destra, s’impone uno slanciato portone d’ingresso, che presenta sul concio di chiave dello stipite un decoro, con in cima il cristogramma “IHS”. Un gioco di bucature più minute, invece, articola poi le altre pareti. Al centro della corte sono posti un tavolino e una sedia rivolta verso la quinta di fondo: elementi iconici della poetica di Speranza.
Un altro vicolo illustrato da Speranza è quello di Corte dei Pau’ su Via Sant’Andrea, intitolata alla nobile, potente e ricca famiglia di origine catalana. Anche di questo dipinto non si conosce nome e anno di esecuzione. Rappresenta comunque l’unico su questo tema con il formato orizzontale: una scelta quasi obbligata, dettata dalla particolare conformazione dello spazio urbano, che ha uno spiccato sviluppo in larghezza. Il luogo, tuttavia, è in parte reinventato da Speranza: manca la fontana che tuttora vediamo, e per certi versi anche la scalinata, appena accennata con delle rigature di colore che simulano i cordoni terminali dei gradini in pietra. La scalinata, ovviamente, è stata creata in occasione della costruzione della condotta fognaria cittadina, quando il livello delle strade si è alzato e per raccordare le corti, su cui si affacciano le abitazioni, si è resa necessaria la realizzazione delle rampe.
Nonostante la mancanza di questi elementi, di cui lo spazio urbano si compone, il dipinto è arricchito da pergole di viti, effettivamente presenti all’epoca della sua esecuzione, che si inerpicano sulle pareti sia a destra che a sinistra. La pergola, nei quadri di Speranza, costituisce una componente naturale vitale, che disegna le superfici delle facciate delle case. A tal proposito, proprio su Corte dei Pau’, è legato un aneddoto personale. Nei fatti, tempo addietro non sapendo dell’esistenza di quest’opera mi era capitato di fotografare la parte più stretta della corte, quella di destra, dove tuttora vi è una pergola altissima, che sbuca dalle chianche del pavimento e raggiunge la sommità del terrazzo. In quella occasione ebbi modo di chiedermi come mai Speranza non avesse dipinto quello spazio. La smentita è arrivata in seguito quando, tramite il già menzionato Emanuele Cazzolla, sono venuto a conoscenza del quadro, riconoscendo prontamente il luogo. È questo un piccolo dettaglio che ci fa comprendere il criterio in base al quale il Maestro sceglieva gli spazi da rappresentare nelle sue opere
Altro dipinto appartenente al tema dei vicoli è quello che raffigura Corte Nicolaus Magister, luogo che si trova all’inizio di Via San Rocco, la strada che si diparte dell’adiacente Largo Antonio Gramsci. È una veduta ricavata da Speranza dall’angolo opposto rispetto a quello dal quale ha ripreso l’opera intitolata Piazzetta Gramsci, del 1977, ancora un’altra piazzetta per l’appunto. Il dipinto sulla corte lo conosciamo attraverso un’immagine a colori che rappresenta la copertina di un piccolo catalogo, stampato in occasione di una mostra personale sull’artista, tenutasi a Bitonto a Palazzo di Città, nel gennaio del 1983. Tuttavia, all’interno, sul retro della cover vi è una didascalia fuorviante, che riporta erroneamente come luogo Piazza San Domenico, lo spazio intitolato proprio al pittore nel 2002, quindi è assai probabile che potrebbe essere stata confusa con un’altra opera. In coda alla piccola pubblicazione, poi, sono elencate le 10 opere esposte nella mostra. La corte, peraltro poco profonda, è rappresentata proprio per questo in tutta la sua interezza, segnata all’inizio con un cantonale a destra, che si affaccia su Via San Rocco, e conclusa, poi, sul fondo con una quinta sulla quale spicca ancora una volta una scalinata. Il profilo continuo che segna la sommità dei piani prospettici attualmente non è più così, è cambiato. Lo spazio è animato dalla presenza scenica di un tavolino, posto a sinistra, su di un pavimento in tinta unica, che evidenzia la mancanza di un lastricato in pietra. Tale arredo all’aperto ci lascia immaginare come venivano vissuti un tempo questi luoghi della città vecchia dagli abitanti, i quali vedevano nello spazio esterno una sorta di pertinenza di quello interno.
La corte in questione prende il nome dallo scultore e architetto attivo in Puglia durante la prima metà del XIII secolo, autore dell’ambone della cattedrale. Di fatti il nome Nicolaus e la data di esecuzione ci sono stati tramandati in un’iscrizione, riportata al di sotto del pavimento del lettorino dell’ambone, che recita: “HOC OPUS FECIT NICOLAUS SACERDOS ET MAGISTER ANNO MILLESIMO DUCENTESIMO VICESIMO NONO I[N]DICTIONIS SECUNDE“. D’altro canto dalla stessa piazzetta Gramsci si ramifica anche un’altra corte intitolata ad un altro scultore pugliese, ovvero Gualtiero da Foggia, anch’egli attivo nel XIII secolo e autore del ciborio dell’altare maggiore della cattedrale. Di questa struttura architettonica, purtroppo smembrata nel 1651 per iniziativa del vescovo Alessandro Crescenzio, l’unico frammento superstite è il capitello conservato nel lapidario del Museo diocesano di Bitonto.
Chiudiamo questo ciclo di dipinti, sul tema dei vicoli, con un’opera del 1978 dal titolo Cortile di Bitonto che rappresenta Vico Spoto: spazio intitolato alla nobile famiglia di origine siciliana, alla quale sicuramente apparteneva pure l’affascinante struttura rurale denominata Torre Spoto. L’edificio, dislocato sul margine destro di Lama Balice e raggiungibile dalla Via di Sotto, durante la famosa Battaglia di Bitonto sarebbe stato il quartier generale delle truppe spagnole guidate dal generale Montemar. La parte del cortile raffigurata dal pittore riguarda il tratto di strada che subisce uno slargo, a formare quasi una piazzetta, sulla quale confluisce anche Vico Abaticchio. Anche qui lo spazio reale viene alterato da Speranza in maniera da farlo coincidere ai suoi canoni estetici rendendolo uno spazio ideale. Ancora una volta il disegno del suolo diventa piatto per mezzo dell’eliminazione della gradinata che si trova alla base della quinta di fondo del vicolo. La prospettiva viene allargata per dare una differente proporzione allo stesso fondale, dal quale il nostro pittore sembra essere piuttosto attratto, sia per l’articolazione delle bucature, che per il gioco di campiture di colore, create dalla linea di separazione che marca la divisione delle proprietà.
La scena dello spazio urbano è adornata da alcuni dettagli a cui l’artista è particolarmente affezionato come i fiori sui balconi, i pali sul tetto che tendono i fili per stendere i panni, e poi soprattutto una sedia, posizionata al centro del cortile, che, come già detto, è uno degli elementi iconici di Speranza, che rimanda a livello simbolico al tema del ricordo e ai suoi stati d’animo. Il pittore in questo senso compie una vera e propria citazione iconografica, quasi certamente un riferimento esplicito ad altri importanti artisti del passato. Basti pensare a Van Gogh che, per esorcizzare il senso di vuoto e di smarrimento causato dall’improvvisa partenza di Gauguin, ritrae le sedie vuote, sulle quali lui e l’amico erano soliti sedersi e conversare, per continuare a mantenere vivo il contatto con il collega ormai lontano. Probabilmente allo stesso modo, Speranza può aver colto l’occasione per ricordare il distacco da una relazione umana.
Questo ciclo di opere sul tema dei vicoli comprende tutti dipinti che illustrano ambienti tra i più dimessi dell’antico abitato urbano di Bitonto, meritevoli secondo il pittore di essere comunque narrati nella sua produzione artistica. E ciò a conferma di quanto già sostenuto, e che qui riaffermiamo: Speranza è stato veramente il cantore di un’architettura minore. È proprio nella scelta di questi brani di tessuto urbano, tratti dal dedalo di strade della “scesciola”, che il maestro manifesta un forte radicamento alle radici della sua madre terra ed è proprio nei vicoli che si estrinseca maggiormente il vincolo affettivo alla sua amata Bitonto. È qui che l’estetica di Speranza, basata sulla contemplazione di luoghi anonimi, si traduce attraverso la restituzione ideale su tela di uno spazio reale.
Nella foto in alto, il dipinto di Francesco Speranza che riproduce Corte dei Pau’ su Via Sant’Andrea a Bitonto (per gentile concessione di Emanuele Cazzolla). Tutte le foto sono di ©Domenico Fioriello.