L’assetto urbanistico dell’abitato antico della città di Bitonto, che abbiamo ereditato, è il risultato di profonde e complesse trasformazioni subite nel corso dei secoli.
La struttura della città è stata rimodellata secondo un processo continuo di modifiche, che ha prodotto, di volta in volta, in ogni periodo storico, con più o meno incisività, la sostituzione o la cancellazione delle tracce di quella precedente.
Questa situazione ha una sua precisa motivazione, se si considera che fino a tutto il Seicento e per gran parte del Settecento il reperimento delle aree edificatorie è avvenuto solo ed esclusivamente all’interno della cinta muraria e ha interessato, pertanto, il patrimonio edilizio preesistente, fino alla saturazione delle aree rimaste libere. Solo verso la fine del Settecento e, soprattutto, nell’Ottocento si comincerà a costruire sistematicamente fuori le mura.
Risulta perciò difficile ricostruire la primitiva forma urbana della città e la sua più prossima evoluzione. Al limite, si possono avanzare ipotesi, peraltro incomplete, frammentarie.
In questi casi lo studio della toponomastica ricopre un ruolo fondamentale per ricomporre o far riaffiorare passato e memoria storica oggi archiviata. L’analisi dei toponimi locali di un luogo porta ad individuare le radici, l’identità, il substrato culturale che ha connotato quel particolare ambiente.
Con il passare del tempo e con le trasformazioni operate sul territorio, si modificano anche i punti di riferimento e i toponimi tradizionali vengono spesso affiancati o sostituiti da quelli connessi alla contemporaneità; eppure, continuano a persistere luoghi caratterizzati dal legame con la tradizione.
Poiché poi il tema che stiamo trattando riguarda la genesi di nomi relativi a strade, piazze o zone legate al centro abitato, è necessario precisare che è più corretto parlare di odonomastica che di toponomastica.
Si è già detto della difficoltà a definire con certezza i limiti e i caratteri dell’insediamento primordiale, quello apulo, realizzato dagli indigeni che abitavano il territorio barese: i peuceti. Ciò nonostante il toponimo antico “de castro“, ovvero”del castello”, legato alla chiesa, nota pure come San Pietro in Vincoli, ci aiuta ad identificare quella che era la zona sulla quale sorgeva una rocca, conformata verosimilmente ad acropoli, insediatasi nella parte più alta, laddove il costone dell’alveo torrentizio era più elevato. È questa l’area che costituiva la parte più antica della città, che oggi comprende all’incirca il sedime della chiesa di San Francesco d’Assisi, il relativo convento, oltre che la già citata chiesa di San Pietro in Vincoli.
Anche dell’impianto dell’epoca romana e del relativo tracciato ortogonale, ancora riconoscibile nei nuclei antichi di tanti centri urbani, non rimane traccia, nonostante da ritrovamenti vari si è arrivati a dimostrare che Bitonto, in quel periodo, fosse un importante municipio. Sappiamo solo, attraverso alcuni documenti, dell’esistenza di un’area storicamente adibita a mercato, corrispondente alla zona su cui oggi insiste il complesso conventuale di San Domenico, ubicato con ogni probabilità all’intersezione del cardo e del decumano, le due strade perpendicolari principali che attraversavano la città nelle due direzioni.
Le due direttrici corrispondevano pressappoco ai collegamenti ideali tra le quattro porte urbane. Porta Baresana e Porta Pendile, orientate secondo una direzione che si discosta di poco da quella Nord-Sud, rappresentavano il cardo, mentre Porta La Maja e Porta Robustina, con un orientamento Est-Ovest segnavano il decumano. In realtà, la mancata ortogonalità tra le due direzioni, lascia presupporre che la posizione della porta urbana che rimarcava l’ingresso a chi giungeva da Ruvo, da cui Rubi, Robustina, non corrisponda all’attuale ubicazione.
Pure dell’Alto Medioevo si conosce ben poco, forse, sia per la scarsità di documenti, sia per il periodo di declino che la città avrà attraversato. Sarà solo dopo, dall’XI secolo in poi, soprattutto con la costruzione della cattedrale, e per tutto il Basso Medioevo, che la città ritornerà ad essere un centro fiorente e si svilupperà, completando la fase di urbanizzazione dentro la cinta muraria.
È allora che la città prende a svilupparsi in modo spontaneo, senza un disegno preordinato, probabilmente anche per la mancanza di una figura autoritaria come un feudatario. Il governo della città, infatti, era affidato all’Università, un organismo composto da nobili e borghesi. Un’organizzazione pluralistica connotata da un’alternanza di persone elette, che non poteva di certo garantire il controllo dello sviluppo urbano secondo un preciso schema urbanistico sotto una forte spinta demografica.
Nell’Alto Medioevo, comunque, la città si espande essenzialmente nella parte più bassa, rispetto all’attuale abitato antico, secondo una direzione Est-Ovest, che congiunge idealmente Porta La Maja con Porta Robustina. Lo sviluppo urbano avviene in continuità con la rocca, spingendosi dapprima verso giù, con la definizione del quartiere Civilizio o Cicciovizzo, fino ad arrivare a Porta Pendile, per poi estendersi dall’altra parte, verso Via Robustina. Quest’ultimo nucleo è segnato dal passaggio, in modo baricentrico, da quella che era la strada più importante e di cui abbiamo ereditato il toponimo, ossia Via Maggiore. Non è escluso, quindi, che Porta Robustina fosse ubicata proprio all’inizio di tale strada.

Risale a quest’epoca la formazione di un impianto urbano organizzato su un sistema di pubbliche vie e spazi semiprivati, le corti, e anche gli spazi di pertinenza delle parrocchie, i “cortili”, che, in quel periodo, avranno un ruolo determinante nel disegno urbano.
La città si configura essenzialmente come un labirinto, secondo una struttura ramificata di strade tortuose e molto strette, tale da rendere il centro abitato difficile da espugnare, quindi un luogo urbano che si identifica come un agglomerato sia abitativo che difensivo.
L’odonomastica, ancora una volta, torna utile per farci comprendere l’origine di questa conformazione. Non a caso in questa zona si trova, verso la punta di via San Luca, uno spazio piccolo, molto suggestivo, denominato Largo la Scesciola, sul quale s’impone, sul fondo, una quinta edilizia a torre, dai tratti romanici, come si evince dalla presenza di una bifora al piano superiore. Il termine Scesciola o Scescia, come precisato nel libro “La Puglia nel periodo dei saraceni”, è di etimologia araba e significa “labirinto”.

Questo toponimo, oltre che nella toponomastica di Bitonto, lo ritroviamo anche nei nuclei antichi di altri comuni come Minervino Murge, Sannicandro di Bari, Casamassima, Rutigliano e Putignano. Tutti centri in cui, con ogni probabilità, l’invasione araba ha lasciato il segno nella conformazione del tessuto edilizio dell’abitato.
La storia, del resto, ci racconta delle grandi battaglie e delle scorrerie saracene che perdurarono, prima dell’anno mille, per tanto tempo in Puglia. Sappiamo che nell’840, gli arabi conquistano Taranto, mentre nell’847, in una sortita, prendono Bari. Occupano la città riuscendo nottetempo a penetrare all’interno, attraverso una rete di cunicoli fognari, sorprendendo i baresi nel sonno. Bari diventa il maggior centro dell’Impero Romano d’Oriente. Nel 975 Bitonto è al centro di una battaglia in cui sarà ucciso un capo saraceno.
Un flusso di cultura araba, più tardi, fra l’altro, verrà portato in Puglia, anche da Federico II, con la decisione di riunire a Lucera una numerosa comunità islamica di ribelli, deportati dalla Sicilia, una parte della quale andrà, poi, a costituire la sua fedelissima guardia araba. Infine, un altro legame col mondo arabo presente sul nostro territorio è rappresentato dal culto della Madonna di Costantinopoli.
È evidente che questo influsso arabo, almeno nella città di Bitonto, abbia trovato terreno fertile più sul piano urbanistico che non in architettura, dove alcuni segni sono visibili solo sull’apparato decorativo, come dimostrano i decori del palinsesto della Cattedrale: i motivi sull’archivolto del portale, sui trafori delle finestrelle degli arconi o sui capitelli a stampella dell’esaforato.
La conformazione labirintica del nostro nucleo più antico nasce, quindi, con il riferimento alla trama della città araba che, probabilmente, appartiene ad una koiné culturale urbana che è propria dell’intero Mediterraneo, in cui i quartieri appaiono, nell’insieme, abbastanza simili gli uni agli altri, con una gerarchia di strade, in cui i tracciati risultano assai spezzettati, tortuosi nell’andamento, sempre più stretti e spesso a gomito, talvolta in diagonale o, anche se meno frequentemente, curvilinei, intersecanti viuzze e vicoli, spesso ad albero, o a “cul de sac”, passando dal pubblico al privato mediante una fitta trama di cortili, intorno ai quali si dispongono le case.
Il LABIRINTO
L’etimologia del termine labirinto è di origine incerta, ma di certo la parola rappresenta uno dei punti di contatto più suggestivi fra storia e mito. Quando si parla di labirinto, non si può fare a meno di citare l’esempio più noto, il primo tra quelli dell’antichità, quello di Creta, legato al suo leggendario costruttore Dedalo: figura mitica il cui nome è divenuto, per metonimia, sinonimo stesso di labirinto.
Oggi il significato di tale termine sta ad indicare una qualunque struttura particolarmente complessa e intricata, nella quale è facile entrare ma in cui è estremamente difficile orientarsi. Esiste, comunque, tutta una letteratura che spiega il nesso esistente e universalmente riconosciuto tra la città e il labirinto. Persino Umberto Eco ha approfondito in uno studio questo tema, identificando tre modelli fondamentali, riassumibili nelle definizioni di classico, manierista e contemporaneo.
Il primo, quello classico, detto unicursale, per il suo groviglio, il gioco delle spire e delle giravolte, apparentemente complesso, in verità è molto semplice poiché sempre percorribile in un’unica direzione e privo di biforcazioni. Il secondo, il labirinto manieristico o ad albero è la variante più articolata, che prende origine da una struttura arborescente dalle infinite ramificazioni. In questo caso sono possibili scelte alternative: tutti i percorsi portano ad un punto morto, tranne uno, che conduce all’uscita. Il terzo tipo, quello contemporaneo, definito rizoma o rete infinita, è una struttura ancor più complicata, in cui ogni punto può allacciarsi trasversalmente con qualsiasi altro e la successione delle connessioni è illimitata, quindi non presuppone l’unicità del percorso, ma una molteplicità. Il rizoma è estensibile all’infinito ed è alla base della strutturazione della città contemporanea.
La tipologia di labirinto ad albero, ossia la seconda di quelle individuate da Eco, ha contraddistinto, in epoca medioevale, il disegno dell’abitato antico della città di Bitonto. Questo tipo di forma, sviluppatasi attraverso un sistema di ramificazioni, permane in diversi brani urbani. In alcuni risulta facilmente riconoscibile come, ad esempio, nei tratti di Via Sant’Antuono o di Corte della Lucertola. In altri, meno leggibile, ma comunque evidente per le lievi alterazioni che sono state apportate, come Via Arco Pinto e Via Termite. Appena decifrabile, infine, in certi punti, dove sono state più consistenti le modifiche prodotte, soprattutto nel Cinquecento e nel Seicento, in cui l’addensamento edilizio ha compattato il tessuto urbano, con la costruzione di strutture voltate, che hanno ridisegnato il passaggio, dagli spazi pubblici a quelli privati delle corti, dove magari una volta erano a cielo aperto, o con la realizzazione di fabbriche che hanno addirittura ostruito alcune articolazioni, snaturando così la forma ramificata.

Il senso di appartenenza e la conoscenza che abbiamo di questo ambiente, che percepiamo e sentiamo come familiare e domestico, ci permettono un sicuro orientamento, ma l’insufficiente capacità di rivolgere uno sguardo più razionale sul reale aspetto di questi luoghi genera al contempo anche uno spaesamento.
Se da una parte possiamo perderci nella bellezza dei meandri di questo patrimonio che abbiamo ereditato – questa struttura urbana ricca di monumenti e di un tessuto edilizio altrettanto pregevole –, dall’altra non riusciamo a cogliere le alterazioni che sono in atto anche nel nostro tempo, come la cattiva abitudine di scrostare le pareti dagli intonaci, portare a vista la pietra, pur rimanendo in un ambito epidermico, di superficie. La mancanza di risposte a problemi, più o meno evidenti, ma puntualmente ignorati, che si vanno stratificando, di ordine soprattutto sociale, invece, denuncia più un segno di smarrimento che viviamo, rilevabile con la tendenza a chiudere le corti con i cancelli.
Il disegno del labirinto, intricato e multiforme, ha sempre celato una valenza simbolica, portatrice, anch’essa, di varie e significative trasformazioni nel tempo, riflesso dell’evoluzione del pensiero umano. Tantissime sono le metafore ad esso associate: la ricerca, il viaggio, la vita. Eppure resta pur sempre un “luogo architettonico”. Jorge Luis Borges, scrittore argentino, che nelle sue opere lo ha spesso evocato, così lo definisce in un racconto: “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine”.