Qualche mese fa, è uscito in libreria un volume di Isaac Bashevis Singer, giornalista e scrittore polacco-statunitense, vincitore nel 1978 del premio Nobel per la letteratura, che si intitola A che cosa serve la letteratura?. Si tratta di un insieme di saggi e articoli che ha pubblicato su diverse riviste letterarie. In questi brevi capitoli del suo libro ha voluto trattare “la questione delle questioni”: in piena era tecnologica, in quest’epoca in cui tutto pare essere in procinto di finire, in cui la nostra stessa concezione della realtà potrebbe cambiare da un momento all’altro, a cosa serve la letteratura? E a questa domanda si riserva di rispondere in un capitolo in particolare, che dà il nome all’intero saggio.

A che serve, dunque? A niente, ci dice. A niente. Non ci servirà a ricostruire un evento storico o a intuirne uno futuro, non ci servirà a essere immortali, ma ci aiuterà ad affrontare i tempi, a rendere significativa la nostra vita, a dotarla di bellezza. “Lo scrittore – scrive – è un intrattenitore” e l’arte “intrattiene, e intanto continua a cercare, a modo suo, le verità eterne”. Consola ma, allo stesso tempo, delude e ci fornisce gli anticorpi per sopportare questa delusione. Un po’ quello che dice Woody Allen in quasi ogni suo film.
E a proposito di questo regista di Manhattan, molto spesso mi sono ritrovata a pensare se Bari gli piacerebbe. Parla sempre di New York, di Parigi, di Londra, Roma al limite o Venezia, ma se fosse capitato a Bari, che cosa ne avrebbe pensato? Ci avrebbe girato un film? Forse sì, e avrebbe intessuto una storia d’amore tra un giovane aspirante scrittore e una donna sfuggente, oppure ci avrebbe ambientato un omicidio. Chissà, e me lo sono chiesto proprio mentre qualche giorno fa mi dirigevo a Bari per il festival Lungomare di libri.

Cosa avrebbe pensato Allen vedendo tutta quella gente? Tutta quella confusione? Persone con un libro sotto il braccio, con le borse in tela strabordanti di libri? Ragazzi, bambini, adulti e anziani, in piedi a cercare il libro perfetto per loro. Oppure, cosa avrebbe detto vedendo una ragazza e due sue amiche, tutte e tre appoggiate al muretto della Muraglia barese, mentre si rallegravano dei loro acquisti? E cosa avrebbe detto osservando una coppia di vecchietti, che si fermavano a ogni casettina di legno, ognuna con tantissimi libri diversi, e sceglievano quale comprare, forse, alla nipotina? Parlano con i proprietari delle librerie, con i passanti, sono felicissimi di vedere tutta questa gente.
Vedendomi interessata a loro mi confessano che non uscivano di casa da qualche giorno a causa del caldo, “ma il Lungomare di libri non ce lo potevamo proprio perdere”, dicono. E il marito di questa gentile signora, che si muoveva lentamente con il bastone, mi raccontava di tutti i libri che avevano a casa, di quanto leggessero.

“Tre anni fa – dice, mentre camminiamo verso il Fortino – avevamo un televisore di ultimissima generazione. E, dato che entrambi siamo in pensione, ci passavamo le ore. Alcuni programmi erano belli, per carità, ma dopo un po’ ci scocciavamo. Andavamo in giro, ma siamo anziani. Non possiamo camminare troppo e, quindi, accendevamo il televisore e via. Un giorno, vedi la vita, il televisore si è rotto, e in attesa di comprarne un altro, ci siamo messi a leggere i libri di nostra figlia, che ora lavora a Milano. E non ti dico quanti libri belli che abbiamo letto. Ma quanto siamo stati bene. Ora accendiamo il ventilatore e leggiamo. Del televisore non ci è importato più niente. Se lo tenesse la ditta” mi dice, ridendo. Sembrava un ragazzino. La sua risata gli toglieva almeno vent’anni. Gli spianava le rughe.
Con questi simpatici “giovanottoni” ho assistito alla presentazione del nuovo libro di Mario Desiati, Malbianco (Einaudi), e mi hanno confidato che Spatriati era troppo difficile in alcuni punti. “Non l’abbiamo capito tutto, ma è scritto bene” aggiunge la signora. Poi, abbiamo assistito alla presentazione di un libro che avevo presentato io stessa solo il giorno prima alla Libreria del Teatro di Bitonto, Lumen di Antonella Maddalena. Un libro che non è semplicemente incentrato sulla protagonista, che dà il nome al romanzo, ma è la sua emanazione. Lumen irradia la sua luce in ogni pagina. E quel romanzo, con il suo stile frammentato, ha incuriosito a tal punto quei due signori, che ne hanno comprato una copia a testa.

Mi dicono – era domenica, l’ultimo giorno della quinta edizione di Lungomare di libri – che hanno due modi diversi di trattare i libri. “Mi spiego – inizia il signore – mia moglie non li sottolinea, che mi pare una cosa assurda. Non so te, ma io li spiegazzo, li commento, li evidenzio se serve. Ci studio sopra, lei no. Lei li tratta come fossero tutti figli suoi. Usa il segnalibro. Nessuna pieghetta, nessuno segno, neppure un tratto di matita sui suoi libri. E, quindi, spesso dei libri abbiamo la doppia copia” mi racconta, con un grande sorriso.
Bari è ancora più bella durante queste tre giornate. Tutti i suoi luoghi più iconici, più centrali, è come se si vestissero a festa. Da Piazza del Ferrarese al Fortino Sant’Antonio, fino a Largo Vito Maurogiovanni, dall’ex Mercato del Pesce allo Spazio Murat, il Museo Civico, il Museo Archeologico di Santa Scolastica e lo Spazio Giovani dell’Assessorato alle Culture, tutto sembra un tripudio di luci, di colori. E insieme alle tante librerie pugliesi, venticinque in tutto, che riempiono le casette posizionate lungo la muraglia, ci sono anche trentaquattro editori, tra cui Terrarossa Edizioni, che ha portato la Puglia nella cinquina del premio Strega con il libro Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol.

“Speriamo vinca – dice la signora – è diverso dai libri proposti. Sempre così ingessati, sempre incentrati su famiglie disastrate, sul patriarcato, il padre-padrone basta. Non trovate che siano sempre le stesse cose? Io dico, una volta tanto, facciamo vincere un libro diverso. Anche quel Paolo Nori mi sta simpatico. Certo, anche lui dice sempre le stesse cose, ma le dice in un modo accessibile. Le capiamo sempre. E ci fa riflettere. Ci fa venire voglia di comprare i libri, e dimmi tu non è forse quello che dovrebbe fare la lettura?”. Mi racconta che una volta stavano sentendo un discorso di Nori al Circolo dei lettori a Torino, e che lo scittore aveva parlato di Anna Karenina in un modo così bello che moglie e marito si erano decisi a leggerlo.
Avevano un vecchio tomo della figlia. L’hanno aperto, e hanno letto il suo iconico inizio. “Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. Che bell’inizio” commenta, e mi racconta che l’avevano letto anni prima, forse quando lei insegnava al liceo matematica (il marito era ingegnere) e si sono stupiti di una scena in particolare. Di quando Anna scende dal treno, dopo aver conosciuto Vronskij, e guarda per la prima volta suo marito. Si rende conto che ha delle orecchie enormi, e questa cosa la disturba. Si chiede come abbia fatto a non rendersene conto prima.

E mentre mi raccontano quell’episodio, sulla via di ritorno verso la stazione, lì dove mi avrebbe atteso un treno che chissà quanto tempo ci avrebbe messo a portarmi a casa, mi sono resa conto che è proprio questo che fanno i libri. Ci aprono gli occhi, ci fanno vedere quello che prima non eravamo in grado di vedere. Ci aprono la mente. Ci svelano la realtà. E, sulla scia di questo pensiero, ho salutato i miei nuovi amici, mi sono seduta nell’ultimo vagone, ho aperto Viaggio sentimentale di Sterne, e ho cominciato il mio viaggio.
Le foto sono di Michele Piscitelli





