La sedicesima edizione del Bif&st – Bari International Film&Tv Festival, per la prima volta sotto la direzione artistica del giornalista e critico cinematografico Oscar Iarussi, si è aperta nel segno di uno dei più grandi registi del nostro tempo, prematuramente scomparso lo scorso gennaio: David Lynch. Il festival pugliese ha voluto dedicare al genio americano la pre-apertura di questa sedicesima edizione, proiettando, in collaborazione con Lucky Red, uno dei suoi film più noti, quello che gli valse la Palma d’Oro nel 1990: Cuore Selvaggio, con due indimenticabili protagonisti, ovvero Nicolas Cage e Laura Dern.
Cuore Selvaggio è il film che ha segnato uno dei momenti più felici nella carriera di David Lynch, trionfatore a Cannes sotto la presidenza di Bernardo Bertolucci. Più chiassoso dei suoi precedenti lavori, sfrutta al meglio l’elettricità della strana coppia formata da Cage-Dern, utilizzandola per rielaborare le principali mitologie americane – rock’n’roll, road movie, film noir – in una loro versione post-moderna. Sebbene il film sia stato, commercialmente parlando, uno dei più grandi successi della carriera di Lynch, nel tempo è stato ampiamente soppiantato da altri – Lost Highway o Mulholland Drive per esempio – nel cuore degli appassionati del regista, ma resta ancora oggi uno dei più intelligenti esempi di rimaneggiamento del cinema classico americano, a cominciare dalla digestione e rielaborazione di un film apparentemente distantissimo: Il mago di Oz (1939) diretto da Victor Fleming.

Come sostenuto nel documentario del 2022 Lynch/Oz, infatti, l’influenza de Il mago di Oz si ritrova in tutta l’opera di Lynch. In Velluto blu, ad esempio, seguiamo un ragazzo di provincia, Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), che cerca di ritrovare la strada per tornare al sicuro nella sua casa fuggendo da un mondo violento, da un vero e proprio incubo di sadomasochismo (c’è anche una scena tagliata che coinvolge Isabella Rossellini nei panni della cantante di nightclub Dorothy Vallens, chiaramente un riferimento alla protagonista de Il Mago di Oz). Ma anche film successivi come Lost Highway, Mulholland Drive e Inland Empire operano all’interno della logica dei sogni più o meno allo stesso modo in cui il viaggio di Dorothy a Oz si svolge interamente nel sonno. Anche il film più “convenzionale” di Lynch, Una storia vera, presenta una visione romantica, mitica, del Midwest così come Oz idealizzava il Kansas.
È però proprio Cuore selvaggio a presentare i parallelismi più evidenti con Il mago di Oz, sia visivamente che tematicamente. Entrambi i film raccontano di personaggi in un’odissea attraverso un regno magico, con il paesaggio americano che diventa la tavolozza su cui dipingere i luoghi della fantastica Terra di Oz. Marietta Fortune appare spesso nelle vesti di quella che può essere considerata la Strega Cattiva dell’Ovest, terrorizzando Lula nel suo viaggio lungo la Strada di Mattoni Gialli (come l’autostrada viene spesso chiamata dai giovani amanti). Dopo che la ragazza viene aggredita sessualmente da Bobby Peru (Willem Dafoe), fa schioccare i suoi tacchi rossi, proprio come faceva Dorothy pronunciando la frase “Nessun posto è bello come casa mia” (lo stesso desiderio che anima la protagonista del film di Lynch). Nell’ultimo atto, infine, Sailor decide di lasciare Lula e si allontana, prima di essere aggredito da una gang locale. In un momento di apparente resa, gli appare Glenda, la strega buona interpretata da Sheryl Lee (l’iconica Laura Palmer della serie Twin Peaks), ennesima citazione da Il Mago di Oz che rappresenta la possibilità di redenzione e riconciliazione. Grazie a questa visione, Sailor trova il coraggio di tornare da Lula, dichiarandole il suo amore con un discorso appassionato sul tetto di un’auto, in una scena finale che unisce ironia e romanticismo in puro stile lynchiano.

Questi riferimenti sono più che semplici ammiccamenti e cenni a un film famoso: conferiscono a Cuore selvaggio una qualità magica che contrasta con alcuni degli elementi più squallidamente realistici della sua storia, contribuendo alla creazione di una vera e propria “fantasia americana”. Un altro colpo al cinema hollywoodiano classico e alla sua visione del mondo viene scagliato da Lynch lavorando su quel confine nettissimo tra sogno e realtà (bianco e nero vs. colore) su cui si giocava tutto il film del 1939 e che permetteva a Dorothy alla fine di riordinare tutto, dando un volto famigliare al perturbante fantasy technicolor. In Cuore selvaggio questa illusione si sfalda e si consuma, e così Lula, dopo la sadica seduzione di Bobby Peru, capisce che gli incubi, come i sogni, non stanno (più) nascosti dietro una porta e, anzi, sarebbe ingenuo pensarlo. Va da sé, quel cinema hollywoodiano che alimenta quell’illusione è destinato a scomparire.
I film di Lynch sono sempre stati divisivi (basta leggersi le famose recensioni di Velluto Blu di Gene Siskel e Roger Ebert) e per Cuore selvaggio non è stato diverso. Secondo Newsweek, quando è stato annunciato come vincitore della Palma d’Oro, “i fischi in sala hanno quasi soffocato gli applausi”, con Ebert, uno dei più grandi critici statunitensi della passata generazione, “quasi rosa di indignazione… che guidava la fazione che si opponeva a quella scelta”. È facile capire perché alcuni spettatori fossero rimasti disgustati dalla miscela di gotico sudista, violenza estrema, devianza sessuale e umorismo scatologico di Lynch, il tutto condito da irriverenti riferimenti alla cultura pop statunitense (oltre a Oz, Lynch allude anche a due altre icone americane come Elvis Presley e Marilyn Monroe).

Il consenso su David Lynch, è bene ricordarlo, non è sempre stato unanime. E anche alcuni di quelli che oggi vengono considerati classici, Velluto Blu e lo stesso Cuore Selvaggio, furono valutati troppo rapidamente alla luce del cinema neonoir degli anni ’80 e della sua violenza. Ma Lynch era già altrove: sicuramente un grande erede di Hitchcock, ma anche del surrealismo e del cinema sperimentale, di Tati, Godard o Francis Bacon. Questo è il motivo per cui la sua filmografia, come ogni suo film a ogni nuova visione, continuerà a dispiegarsi, ad amplificarsi, a brillare sempre di più. Anche adesso che non c’è più, Lynch sarà sempre avanti.

Eppure, il “regista dei sogni” non era per nulla distante dalle passioni terrene. Era un autore che come tutti gli altri registi statunitensi desiderava fare film sempre più grandi e desiderava che il suo lavoro venisse riconosciuto dal pubblico e dai colleghi. Nanni Moretti ha spesso raccontato che quando nel 2001 vinse la Palma d’oro al festival di Cannes con La stanza del figlio, in concorso c’era anche Lynch con Mulholland Drive, il quale si dovette “accontentare” del premio alla regia. Nonostante avesse già vinto una Palma d’oro nel 1990 con Cuore selvaggio, Lynch ci teneva così tanto a vincere di nuovo e riteneva così ingiusto il premio a Nanni Moretti che, nel retro del palco dopo la consegna dei premi, si avvicinò a lui e gli mise le mani alla gola come per strozzarlo, un po’ scherzando e un po’ facendo sul serio.
Ecco, questo Bif&st, che si apre omaggiando David Lynch e che a Nanni Moretti dedica una retrospettiva completa di tutti i suoi film, risolve idealmente quello “screzio” avvenuto a Cannes ventiquattro anni fa. È vero che la storia non si fa con i “se”, ma probabilmente una seconda Palma d’Oro a Lynch quell’anno, in quel momento della sua carriera, lo avrebbe aiutato nel realizzare più facilmente i suoi successivi progetti, impedendo quella brusca frenata nella sua filmografia che lo avrebbe poi condotto a realizzare un solo altro film (Inland Empire).