Quello che mi è sempre piaciuto dell’opera di Anton Pavlovic Cechov è che possa essere portata ovunque. Non necessita di palchi smisurati né di scenografie particolarmente elaborate, perché la forza della sua drammaturgia risiede nei personaggi.
Non è un caso, quindi, che questo regista e scrittore russo, vissuto tra fine Ottocento e inizi Novecento, abbia ancora oggi tanto da dirci. Quello che, infatti, gli interessa avviene all’interno dei personaggi non fuori. È affascinato dall’incomunicabilità, dalla fallacia della parola, dall’incapacità di portare fuori quello che serbiamo dentro di noi. Parla di una serie di emozioni e di stati d’animo universali e immutabili. Cambiano le epoche, passano le stagioni, la tecnologia si evolve, mutano gli abiti, ma l’essere umano pare essere sempre lo stesso, in un implacabile eterno ritorno.
Cechov si concentra sulle luci e sulle ombre dell’uomo. Su componenti che sono vividissime, attualissime, che non scadono, non vengono meno con il tempo. Nel suo teatro parla della solitudine, del tramonto dei valori antichi e della nascita di nuovi; parla di classi sociali – soprattutto di quella borghese – e dello scontro di classe. Racconta in modo potentissimo il senso dell’attesa, l’impazienza che sopraggiunge quando desideriamo disperatamente qualcosa, e il vuoto che ci avvolge quando l’abbiamo ottenuta. Un riflesso del pendolo di Schopenhauer, in perenne oscillazione tra il dolore e la noia.
Poiché, dunque, è l’io dei personaggi ad essere centrale sulla scena, le opere di Cechov possono essere rappresentate anche in un salotto, su un palco di modeste dimensioni, in un giardino, in un atrio con poche sedie. È un teatro intimo e avere un piccolo pubblico è l’ideale. Fa sì che le emozioni circolino da una persona all’altra, generando una bellissima atmosfera condivisa. Anzi, avere una ricca scenografia può rivelarsi perfino controproducente. Quello che conta sono gli attori e i dialoghi, nient’altro. E questo il regista Carlo D’Ursi – grazie alla sua lunga esperienza in un mondo difficile come quello del teatro – lo sa bene.
Nel Palazzo Pesce di Mola di Bari, a pochi passi dal celebre teatro Van Westerhout, il laboratorio permanente Nephèlai ha portato in scena Domanda di matrimonio (o Proposta di matrimonio, dipende dalla traduzione che prediligete) e L’anniversario. Si tratta di due atti unici, che vertono sui diversi ostacoli nei quali ci imbattiamo. Parla di imprevisti. Tutto sembra andare liscio, a gonfie vele, ma la sfortuna si mette di mezzo e intralcia il nostro cammino. Complica tutto e in ogni modo. Ci costringe a fare capriole, adoperare trucchi di magia per rimettere le cose in ordine. Ma quanto è difficile alle volte!
Mettiamo che un caro ragazzo, non molto in salute, giunga presso la sua vicina di casa per chiederle la mano. Veniamo a conoscenza che anche lei vuole sposare il giovane. Tutto potrebbe concludersi felicemente, senza intoppi, senza problemi. Ma se anche fosse possibile, dove sarebbe il divertimento? Allora, Cechov in Domanda di matrimonio mette in mezzo terreni che non si capisce a chi appartengano, un cane da caccia, tanti ridicoli problemi che, però, messi in fila, potrebbero far saltare le nozze. Il rapporto tra i personaggi si basa su delicati equilibri, come accade ancora adesso. E una banale proposta di matrimonio – sicura e, perché no, anche un po’ noiosa – diviene un momento di grande ironia. Certo, se ci fossimo trovati noi a viverla, sarebbe stato un autentico incubo.
Perfino ne L’anniversario pare procedere tutto splendidamente, finché non giunge la moglie del direttore di banca a rovinare tutto e, così, un’anziana signora che vuole convincere il pover’uomo, una persona distinta e accomodante, a dare al maritino una certa pensione, un condono, che non meriterebbe. E tutto avviene proprio il giorno decisivo, in cui l’uomo si gioca il destino della banca. Che sfortuna! Eppure, noi ridiamo, perché sappiamo bene che va esattamente così, che proprio quando desidereremmo che tutto andasse liscio, subentrano una serie di problemi, variabili che non abbiamo minimamente previsto o considerato.
È un teatro umanissimo quello di Cechov ed è sempre un piacere assistervi, specie se si tratta di giovani attori, che stanno mettendo i loro primi passi in un mondo in cui è facile sbagliare il tono, la battuta, in cui devi improvvisare, essere tempestivo. Poi, può sembrare assurdo, ma è nelle commedie che si vede la bravura di un attore. La tragedia è per i solisti. È gremita di monologhi (a voler rispettarne le caratteristiche principali, ma vi sono molte eccezioni) lì dove la commedia abbonda di dialoghi. Battute veloci, entrate e uscite degli attori. Ha un ritmo e dei tempi serrati. È facile rovinare tutto. Gli attori devono lavorare in sinergia, badare a sé ma soprattutto agli altri.
Specie in Cechov è importante, perché non vi è un protagonista. Ogni personaggio ha una sua importanza e risalta proprio grazie al suo rapporto con l’altro, all’interno di scene che sono quasi sempre corali. In questo senso, il drammaturgo inaugura il dramma moderno, che consiste nello stare sempre insieme e mai con se stessi. Eppure, nonostante si sia sempre in compagnia, è un teatro che parla di solitudine e dell’incapacità di metterci nei panni dell’altro, di capire cosa voglia, cosa senta. Vi è una mancanza di empatia, che ci impedisce di entrare davvero in connessione con il nostro vicino, che resta un mistero insoluto. Circostanze che oggi si verificano ancora e, forse, anche più di allora.
Davvero un bello spettacolo, grazie a bravissimi interpreti come Margherita Buonsante, Nicholas Treviso, Valentina Giannini, Enrico Parato e Adriana D’Ursi. Non è stata una prova facile, ma l’hanno superata alla grande e questo ci fa ben sperare per il futuro. Abbiamo grande bisogno di bravi attori e di opere che rischiarino il presente.
Nelle foto, immagini tratte dai due atti unici “Domanda di matrimonio” e “L’anniversario”