Durante l’intero corso del ‘900, gli intellettuali europei e americani cercavano di cambiare la letteratura, ponendola sullo stesso piano della realtà. Il Novecento è stato un secolo di grandi cambiamenti, di stravolgimenti storici: tutto quello che si era costruito in precedenza era mutato per sempre. Questo in seguito alle guerre, ma anche a causa di un nuovo modo di raccontare la realtà di uno strumento che sapeva ritrarla esattamente com’era, per usare le parole di Pier Paolo Pasolini: il cinema.
Con la nascita del cinema, la letteratura non poteva continuare ad usare i mezzi adoperati sino a quel momento; doveva evolversi, cambiare le sue modalità narratologiche nonché narrative e, per farlo, aveva bisogno di rinnovarsi. Con il teatro accade la stessa cosa.
Dopo la rottura della quarta parete con Pirandello, l’assenza di un vero e proprio spazio teatrale grazie al Living Theater, la mancanza di scenografia con Grotowskij e il suo Teatro povero oppure la rinuncia ad ogni criterio logico e cronologico nei dialoghi e nella trama con Beckett e Ionesco e il loro Teatro dell’assurdo, anche il genere drammatico era cambiato per sempre, diventando qualcosa di completamente diverso da ciò a cui il pubblico era abituato. E, perciò, un po’ come i Preraffaeliti nella pittura, Pasolini cercò di riportare il teatro al passato, all’antichità, a prima che vi fossero tutte queste trasformazioni.
Il suo intento era ripristinare il teatro di parola di matrice greca, e precisamente ateniese, proprio durante gli anni ‘60 quando erano in pieno corso delle vere e proprie rivoluzioni nell’ambito teatrale. Nel Manifesto per un nuovo teatro Pasolini afferma che il suo teatro non si sarebbe rivolto alla classe borghese ma all’alta borghesia, insomma a chi deteneva il potere ed era in grado di capire i riferimenti presenti nei suoi spettacoli. Lo scopo restava, inoltre, quello di sconvolgere l’uditorio, di parlare del lato più basso dello spettatore, della sua ipocrisia ma, allo stesso tempo, anche di politica, di poesia, di arte e, insomma, del presente e di quello che lo caratterizzava.
Ogni volta che vedo uno spettacolo del Teatro delle Bambole, compagnia fondata nel 2003 da Andrea Cramarossa, mi stupisco di quanto sia profondo il lavoro che il regista e l’intero cast fanno sul testo e sulla performance. Non sono solamente spettacoli colti, ponderati e lungamente preparati, ma opere a sé, caratterizzate da una personale visione del teatro. Visione che emerge chiaramente dal manifesto (clicca qui) disponibile sul sito della compagnia: “Il Teatro delle Bambole si ispira al lavoro sul suono di Gisela Rhomert (Metodo del Lichtenberger® Institut für angewandte Stimmphysiologie) e al Teatro delle Orge e dei Misteri (Orgien-Mysterien-Theater) dell’artista austriaco Hermann Nitsch, massimo esponente del Wiener Aktionismus”, dando vita ad un “Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica”.
Quando sentii a telefono Andrea Cramarossa, un anno fa, per un articolo sullo spettacolo che avrebbe portato al Teatro Traetta su Italo Calvino, intitolato Il castello, un omaggio al talento combinatorio dello scrittore e alla sua visione della vita e della letteratura, il regista mi mise in un certo senso in guardia sul modo in cui l’intera compagnia intendesse il teatro.
Mi disse: “O piace al pubblico e ci apprezza, o non piace al pubblico” e a quel punto, aggiungerei, non si sforza neppure di comprendere. Eppure, quando il Teatro delle Bambole ha portato in scena al Traetta Bestia da stile, l’ultima fatica teatrale di Pasolini, il pubblico ha potuto assistere alla piena evoluzione del suo modo di fare teatro. Qualcosa di completamente diverso da quanto si vede in Puglia, per esempio; un assaggio, piuttosto, del teatro contemporaneo di Roma, di Milano, dei grandi palchi europei. Un teatro che riprende l’antico, attraverso l’uso della maschera, che comprende l’elemento musicale, che costringe l’attore a toccare e superare i propri limiti. E un lavoro del genere è possibile solo puntando su un cast eccezionale, come quello di cui ha potuto godere questo spettacolo: Emilia Brescia, Giovanni Di Lonardo, Rossella Giugliano, Federico Tdb Gobbi, Iula A Marzulli, Domenico D. Piscopo, Ilaria Ricci, Maurizio Sarni.
Non è facile portare in scena Pasolini, un autore sovversivo, con cui anche noi contemporanei abbiamo un rapporto complicato. Lo consideriamo un profeta, alle volte, ma dimentichiamo che, comunque, era un uomo del suo tempo, con le proprie idiosincrasie e con una visione della vita, delle donne, dell’aborto, per fare qualche esempio più specifico, non sempre condivisibile oggi, a distanza di decenni. Eppure, allo stesso tempo, è spaventoso che un intellettuale e un artista tanto profondo e coraggioso, abbia intuito così bene degli aspetti anche sinistri del nostro tempo e abbia saputo inserirli nel teatro, che non è un genere (se decidiamo di ascriverlo all’interno della letteratura) che lo appassionava molto. Non quanto il romanzo o la poesia, suo primissimo amore, o il cinema. E, infatti, si dedicherà al teatro in momenti diversi della sua vita, in maniera saltuaria e sporadica, finché un’ulcera non lo costringerà a letto per mesi, forzandolo a scrivere sei opere teatrali, di cui l’ultima è proprio Bestia da stile, che poi riprenderà più volte e che rimaneggerà fino alla fine dei suoi giorni.
Bestia da stile, come ha ben intuito Cramarossa, che ha fatto sul testo pasoliniano un lavoro di revisione e di adattamento incredibile, è una riflessione sul suo presente. Sul marxismo, sul comunismo, sul ’68, sulla liberazione sessuale degli anni ’70, sull’uso delle droghe, sempre più diffuse tra i giovani, su come tutto sia manipolato e controllato dai potenti, dai membri dell’alta borghesia che tirano i fili di tutti questi eventi e che hanno reso migliaia di persone innocenti delle marionette consenzienti, incapaci di notare i fili che sbucano dalle loro schiene. Ma non solo: è anche una riflessione sulla poesia, sul ruolo dell’intellettuale, su quello che dovrebbe fare, su chi dovrebbe essere. Su come spesso i premi non siano altro che un’ulteriore forma di controllo da parte del potere. Una medaglia all’intellettuale che meglio soddisfa le aspettative dei potenti.
Jan, il protagonista della tragedia e alter ego di Pasolini, è il simbolo dell’intellettuale che adopera i mezzi dei potenti per mandare un messaggio contro di loro e contro il loro potere demoniaco. Dietro questa figura si nasconde il ragazzo simbolo della lotta contro la repressione della Primavera di Praga, Jan Palach, che deciderà di darsi fuoco proprio in segno di protesta contro il regime comunista, in seguito all’irruzione dei carri armati sovietici il 20 gennaio 1968 nella città di Boemia, messa a ferro e fuoco dall’esercito tedesco durante gli anni Trenta. Pasolini si chiede cosa debba fare un intellettuale. Deve restare in disparte, come Calvino, osservare il mondo dall’alto e descriverlo, oppure prendervi parte, usare quelli strumenti, adoperati per controllare la popolazione, per stimolare il dibattito e far risvegliare le coscienze? Portare in scena quello che il pubblico vuole oppure scandalizzarlo, costringerlo a vedere i lati meno lusinghieri di sé?
Non è molto diverso da quello che il Teatro delle Bambole cerca di fare con il suo pubblico. Quello che si apprezza in particolare di questo spettacolo e che ci fa ammirare ancor più questa incredibile compagnia è il tentativo di far giungere il loro modo di intendere il teatro anche a ragazzi del liceo che, purtroppo, non hanno modo di studiare e analizzare il pensiero di Pasolini e che, nella maggior parte dei casi, non conosceranno mai bene il suo teatro. Così come quello di tanti intellettuali del ‘900, come Dacia Maraini e Alberto Moravia. Invece, la compagnia ha coinvolto le scuole. Il regista, aiutato e affiancato da docenti universitari ed esperti, ha parlato di quest’opera alle classi che avrebbero visto lo spettacolo, ma senza fornire loro facili soluzioni e senza parlare troppo di quello che avrebbero visto in scena. Piuttosto, parlando loro di Pasolini, del suo teatro e pensiero, lasciando che i giovani del liceo classico di Bitonto e Gioia del Colle, nonché lo scientifico sempre di Bitonto, venissero sorpresi e ammaliati dalla loro pièce e da questo omaggio ad uno dei più grandi intellettuali del Novecento.
E l’impegno della compagnia non si ferma al teatro, ma comprende tante altre attività, come la produzione di cortometraggi, primo tra tutti Borges, un affresco struggente sull’immigrazione, vincitore di numerosi premi, mostre fotografiche, pittoriche, scultoree, corsi di recitazione e tante altre attività, svolte presso la Casa delle Culture di Bari, centro polifunzionale di promozione all’inclusione e all’accoglienza che il comune del capoluogo pugliese ha attivato a favore delle persone immigrate, presenti sul territorio cittadino.
Il Teatro delle Bambole è molto più di una compagnia: è una mano gentile che conduce lo spettatore ad una maggior consapevolezza di sé e di quello che gli accade intorno, adoperando il teatro come potente mezzo di rinascita e di risveglio. Qualcosa di nettamente diverso da quello cui siamo abituati. Qualcosa da cui bisognerebbe prendere esempio.
Le foto sono tratte dalla pagina fb del Teatro delle Bambole