Non è mai troppo tardi per celebrare il 25 aprile

La Resistenza e la Liberazione del paese sono eventi che attegono al "sacro" e che non possono essere confinati nel grande calderone di una cultura consumistica e "secolarizzata"

Cosa sta succedendo? Il 25 aprile è arrivato e di corsa è tornato tra le pagine dei manuali di storia, insieme a tanti altri piccoli e grandi avvenimenti. È pur vero che c’è stata di mezzo la morte di Papa Francesco: non è certo notizia di tutti i giorni che scompaia il capo della più grande compagine di esseri umani al mondo. Tuttavia, quella sensazione rimane, di un arrivo frettoloso e di un’altrettanto frettolosa fuga, come se, un poco tutti, avessimo avuto, quel giorno, qualcosa di meglio da ricordare. E dunque, cosa sta succedendo? La mia idea è semplice: si sta perdendo il senso di sacralità che determinati accadimenti meritano.

Liberazione 25 aprile a Torino – (ANSA/Tino Romano)

Viviamo in un’epoca senza Dio – non è una novità – e, da laici moderni, non dovremmo per questo strapparci i capelli, se non fosse che non ci siamo allontanati soltanto da Dio, ma anche dal sentimento di sacralità e da ogni forma di ritualità. Questo, credo, è davvero troppo. Ma intendiamoci. La religiosità è il sentimento individuale e collettivo che lega gli esseri umani al divino o al trascendente, ma non coincide automaticamente con l’appartenenza a una religione; implica – nulla più – il riconoscimento che esiste un oltre, qualcosa di superiore, un’apertura al mistero. La sacralità è una categoria simbolica e si concretizza in tutto ciò che viene percepito come degno di particolare attenzione e venerazione, che si ammanta del candore dell’inviolabilità, e non riguarda necessariamente qualcosa che attiene alle forme e alle manifestazioni di una religione.

Una bandiera, la carta costituzionale, un luogo della memoria sono (possono essere considerati) sacri. La ritualità si compone delle parole, dei gesti e delle azioni – più o meno ratificate – che rendono visibile e condivisibile il sacro. I riti esprimono il sacro, lo rendono manifesto, gettano luce su un oggetto o un evento codificato come sacro. I riti, evidentemente, possono essere religiosi: una messa, una preghiera; ma anche laici o sociali: una cerimonia civile, una commemorazione. Ebbene – è questo il punto – va ribadito che i riti sono assolutamente fondamentali per creare e consolidare senso di appartenza e identità. Questo è il punto.

Il corteo dell’ANPI a Roma
(Cecilia Fabiano/LaPresse)

Noi moderni stiamo, come si dice, gettando via tutto: il bambino con l’acqua santa. Émile Durkheim – uno dei padri della sociologia – ci ricorda che ogni società crea simboli e riti collettivi per rappresentare sé stessa; il rito non rientra d’ufficio nelle pratiche religiose, ma è un momento nel quale un gruppo si rigenera, si rinsalda e riafferma i propri valori di riferimento (d’altro canto, per Durkheim la stessa religione – a stretto giro – non è altro che una forma di coscienza collettiva, una forza sociale e simbolica). Senza ritualità una società tende a disgregarsi, a polverizzarsi. Ci siamo allontanati da Dio e dalla religione, ma stiamo sempre più rifuggendo anche – come s’è detto – dal senso del sacro e da ogni manifestazione di ritualità condivisa. Una perdita i cui risvolti sono, credo, sotto gli occhi di tutti: disorientamento, isolamento, crisi identitarie. I giovani, ma non solo, i più colpiti.

Una perdita che – tirando un poco il verbo di Durkheim – porta inevitabilmente a una condizione di anomia, a una situazione di assenza o debolezza delle norme sociali che regolano i nostri comportamenti. O, per dirla in termini più recenti, una perdita che ha come emblematico corollario l’affermazione di quella che Baumann ha descritto come società liquida: una società dove gli elementi fondanti – istituzioni, relazioni, valori – non hanno più una forma solida, stabile e duratura come accadeva nelle epoche precedenti. Nella società liquida i legami si fanno deboli e temporanei e la ricerca di senso diviene individuale e frammentaria. Non si tratta allora di tornare indietro, ma di vivere il presente in modo (più) consapevole e di dare alla storia e alla memoria il posto che meritano.

Manifestanti filo palestinesi a Porta San Paolo, a Roma
(ANSA/Federico Perruolo)

E allora festeggiamo – seppure in ritardo (il mitico maestro Manzi direbbe che non è mai troppo tardi) – questo 25 aprile 2025, ottant’anni esatti dalla fine della seconda guerra mondiale. Tanto più che il conflitto non finì proprio in quella data. I combattimenti continuarono ancora per qualche giorno, ma il 25 aprile rappresenta il momento decisivo in cui le principali città del Nord iniziarono a liberarsi senza attendere l’arrivo degli Alleati. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) proclamò l’insurrezione generale contro le forze tedesche e fasciste e diede l’ordine a tutte le formazioni partigiane di scendere in campo apertamente per liberare, appunto, le città prima dell’arrivo degli Alleati. La resa delle truppe tedesche in Italia avvenne poi, formalmente, il 2 maggio, dopo l’accordo siglato il 29 aprile nella Reggia di Caserta – sede del Comando Supremo Alleato per il Mediterraneo – tra gli ufficiali del Comando Supremo e i comandanti delle forze tedesche e delle SS in Italia. La resa incondizionata del 2 maggio precedette di poco la resa generale della Germania, che avvenne l’8, giorno della vittoria in Europa.

Tuttavia, anche se la guerra terminò qualche giorno dopo, il 25 aprile è diventato il simbolo della rinascita democratica del nostro Paese; una festa nazionale che ricorda il coraggio, il sacrificio e la speranza di chi ha combattuto per la libertà. Non si trattava – naturalmente – soltanto di un conflitto militare, ma anche, se non soprattutto, di una lotta politica per un’Italia libera, popolare e giusta, lontana dai misfatti e dalle coercizioni dei regimi nazifascisti. Da quel giorno del ’45, il 25 aprile si è impresso ed è rimasto nella memoria collettiva come il giorno della vittoria del popolo italiano, della fine dell’occupazione e dell’inizio della democrazia. Dopo anni di dittatura, guerra, censure e repressioni, gli italiani riscoprivano il valore della libertà, della giustizia e della partecipazione democratica. Un passaggio storico e culturale assolutamente fondamentale.

Il corteo dell’ANPI partito da Largo Bompiani a Roma
(ANSA/Fabio Cimaglia)

In questo quadro, la Resistenza fu una sofferta, ma straordinaria esperienza collettiva, che coinvolse uomini e donne d’ogni età e classe sociale, uniti dalla volontà di costruire un Paese nuovo. Da quella lotta nacquero i valori che sarebbero poi stati alla base della nostra Costituzione repubblicana del 1948: l’antifascismo, il rispetto dei diritti umani, i principi di uguaglianza e solidarietà. La Liberazione, quindi, fu l’inizio di una nuova Italia, fondata sul rifiuto della dittatura e sull’impegno per una società più libera e più equa.

Un passaggio storico e culturale – s’è detto – assolutamente fondamentale, che tuttavia molti di noi, specialmente tra i più giovani, abituati a vivere in un clima sociale completamente diverso, fanno fatica a percepirne tutta la singolare importanza. Ed è anche per questo che non dobbiamo, invece, dimenticare. Ricordare il 25 aprile significa onorare il coraggio e la determinazione di chi ha lottato per un grande ideale, più grande della propria persona: la libertà di un popolo intero. Quei partigiani, quei cittadini, in condizioni estreme, perlopiù senza armi adeguate, hanno scelto di rischiare tutto per un futuro diverso, un futuro che loro stessi forse non avrebbero mai visto, ma nella convinzione che dopo di loro qualcuno ne avrebbe di sicuro fatto tesoro. Anche questo non va dimenticato.

Partenza del corteo del 25 Aprile (ANSA/Matteo Corner)

Oggi, che viviamo in un mondo dove molte conquiste del passato vengono date spesso per scontate, il 25 aprile ci ricorda che la libertà non è un dono, ma una conquista da difendere ogni giorno con i denti. Sandro Pertini disse che la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale solo quando comincia a mancare. La Resistenza e la Liberazione non fanno parte soltanto dei libri di storia: sono fenomeni che hanno segnato nel profondo intere generazioni e sono lì, ancora intatti, di fronte a noi, come monito, esempio, assunzione di responsabilità. Luminose le parole di Piero Calamandrei, quando affermò che se si voleva andare in pellegrinaggio nei luoghi dove era nata la nostra Costituzione, allora bisognava recarsi nelle montagne dove combatterono e caddero tanti partigiani.

Sì, non dobbiamo dimenticare. Dobbiamo sforzarci tutti di non rimuovere. Viviamo un tempo fatto di velocità, di rumore, di relazioni e connessioni digitali, di primato dell’io rispetto al noi, e diventa sempre più difficile riuscire a ritagliarsi spazi e momenti dove riscoprire la forza e la bellezza del silenzio, dove sia possibile riconoscere che c’è qualcosa oltre e di più grande di noi. Ci muoviamo nel nostro mondo senza fermarci, senza ascoltare, senza prestare alcuna attenzione a ciò che ci circonda, a ciò che è venuto prima di noi, a ciò che ci ha permesso di essere ciò che siamo. Ci perdiamo sempre più spesso dietro gesti e parole senza peso, inconcludenti. Immersi, come siamo, nel quotidiano, nel terreno, nel frammentario, ci stiamo dimenticando che esistono dei valori imprescindibili, ci stiamo allontanando da molto, se non da tutto ciò che un tempo veniva concepito come sacro e irrinunciabile.

ANSA/Cesare Abbate

Nietzsche annunciando la morte di Dio ha previsto un’epoca in cui gli esseri umani – improvvisamente soli, senza più riferimenti assoluti – dovranno affrontare un grande vuoto. Max Weber parla del disincantamento del mondo moderno, dove la progressiva iperazionalizzazione del vissuto ha eliminato il mistero. Heidegger lamenta che abbiamo sostituito Dio con la Tecnica, passaggio foriero di gravi quanto imprevedibili sventure. Eliot nella sua Terra desolata ha dato voce a una civiltà spiritualmente arida. Pasolini nei suoi scritti e nei film ha denunciato la perdita del sacro dentro il grande calderone di una cultura consumistica e secolarizzata. Di recente, il filosofo Byung-Chul Han ha gridato alla scomparsa dei riti, ammonendo che senza riti la vita si appiattisce in una serie di atti meramente funzionali, ripetitivi, spogliati di echi simbolici: una perdita che rischia di privarci di forme stabili di comunità e identità.

Insomma: passi vivere senza Dio – il che, evidentemente, è tutto da vedere – ma vogliamo, e soprattutto possiamo sul serio vivere senza legami, senza riti, senza memoria?

La foto in alto è di Stefano Porta