Quel bisbiglio alle orecchie tra il centrodestra e una certa opposizione

Il muro a Roma contro il tentativo delle forze di governo di modificare la legge per l'elezione dei consigli comunali è crollato alla Regione Puglia per impedire la sforbiciata di consiglieri

Il colpo di spugna proposto dal centrodestra per le prossime elezioni comunali è sventato. O perlomeno rinviato. Non è passato, infatti, nei giorni scorsi l’emendamento al Decreto legge Elezioni, in discussione alla commissione Affari Costituzionali, relativo alla tornata di consultazioni del 25 e 26 maggio, quando si rinnoveranno i consigli comunali di circa 400 comuni in tutta Italia.

La proposta della maggioranza di governo era rivolta a modificare la legge elettorale in vigore, che prevede il ballottaggio nel caso in cui nessuno dei candidati raggiunga la maggioranza assoluta dei voti. Con l’obiettivo di abolire il secondo turno e dare un bel premio di maggioranza del 60 per cento al candidato che si limiti a raggiungere il 40 per cento dei consensi. Evitando di consegnare la maggior parte dei governi cittadini al centrosinistra. 

L’emendamento è stato ritirato perché palesemente in contraddizione con la Carta Costituzionale che all’articolo 72 prevede espressamente la riserva di legge in alcune materie, tra cui quella elettorale, escludendo che il governo possa con decreto superare il parlamento in materie ritenute sensibili. Un veto che ha lo stesso amaro sapore di quello che l’esecutivo si è ritrovato a ingurgitare un anno fa, in analoghe circostanze: allora si trattava delle elezioni europee e amministrative. I giornali scrissero che il Quirinale aveva fatto presente la palese incostituzionalità della norma e così non se ne era fatto più nulla.

Come puntualmente ricostruito da Silvia Truzzi sul Fatto Quotidiano, già qualche mese dopo, Alberto Balboni, in quota Fratelli d’Italia, nonché presidente della commissione Affari Costituzionali, provò a rilanciare nuovamente la proposta, spiegando che non è giusto cambiare le regole a tre mesi dal voto, ma che in ogni caso ci si doveva riprovare nel momento in cui non ci sarebbero state scadenze elettorali all’orizzonte. L’idea era di presentare un disegno di legge, poi tramontato. Ma il lupo perde il pelo e non il vizio.

E così, a meno di due mesi dalle elezioni, è rispuntato un nuovo disegno di legge, promosso in una nota congiunta dei capigruppo al senato, Lucio Malan (FdI), Massimiliano Romeo (Lega), Maurizio Gasparri (FI) e Michaela Biancofiore (Nm). “Il ballottaggio alle amministrative sarà abolito. Il centrodestra su questa scelta è unito e determinato. Ci è indifferente lo strumento con cui raggiungere questo traguardo e siamo ben consapevoli che questa scelta non può riguardare il turno elettorale, peraltro non molto esteso, del 25 maggio”, questa la dichiarazione. Insomma, parole nette e chiare che non tengono però conto che, in democrazia, la forma è anche sostanza e che utilizzare lo strumento del decreto per modificare una legge elettorale non è una procedura propriamente democratica.

Qualche malizioso ha avanzato l’ipotesi che questa accelerazione, proprio nel giorno in cui entravano in vigore i dazi imposti da Donald Trump, serviva principalmente a far parlare d’altro, distraendo le opposizioni dalle evidenti difficoltà del governo Meloni nel gestire un momento così delicato a livello internazionale. Ma il dato politico resta: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si sentono penalizzati dal ballottaggio e sognano di eliminarlo, assegnando la vittoria già al primo turno ai sindaci con il 40% dei voti e con un ulteriore aiutino di un premio di maggioranza extralarge.

Su questo punto hanno trovato ovviamente il muro delle opposizioni, ma su altre proposte fatte trapelare dalla maggioranza non è detto che non ci sia anche il consenso “peloso” di chi sta dall’altro lato della barricata, specialmente quando si tratta di allargare le giunte regionali e garantire altre poltrone che, si sa, non bastano mai.

Sono infatti passati sotto silenzio altri emendamenti del centrodestra che, sotto sotto, non sembrano del tutto sgraditi anche a un pezzo dell’opposizione. Un esempio? La proposta presentata da Daniela Ternullo di Forza Italia che, con un colpo di penna, eliminerebbe l’incompatibilità tra la carica di parlamentare europeo e quella di assessore regionale.

Sempre Ternullo, instancabile, assieme ai colleghi azzurri Claudio Lotito e Dario Damiani, ha chiesto che sindaci, presidenti di provincia e di regione oggetto di provvedimenti giudiziari che ne sanciscano l’ineleggibilità, la decadenza o l’incompatibilità, rimangano in carica e siano candidabili “fino al “passaggio in giudicato della sentenza”. Su questo punto, e sulla più generale modifica della legge Severino, ha però frenato il ministro Nordio. Non perché non sia d’accordo con la proposta, anzi, ma perché si temono ripercussioni da parte dell’Unione Europea, che ha già chiuso un occhio – questo, in sintesi, il ragionamento del guardasigilli – sull’abolizione dell’abuso di ufficio.

C’è, infine, una proposta che coinvolgerebbe direttamente la nostra regione e che eviterebbe che, alle prossime elezioni, il consiglio regionale pugliese passi da 50 a 40 eletti. L’emendamento prevede, infatti, che “il numero dei consiglieri regionali precedentemente previsto è mantenuto qualora nel corso della legislatura regionale la popolazione si riduca entro il limite del 5 per cento rispetto alle soglie indicate nel primo periodo”. La Puglia rientra in questo parametro, dal momento che la riduzione dei residenti è di circa il 3%, poco meno. Se l’emendamento passasse, non ci sarebbe la temuta “cura dimagrante” per il Consiglio Regionale. La Puglia, infatti, è passata da poco più di 4 milioni a poco meno di 3,9 milioni, con un calo inferiore al 5%, che corrisponde a 200mila unità.

L’emendamento, presentato da Forza Italia, è stato concordato anche con parte del centrosinistra, ugualmente interessato a scongiurare che sul consiglio si abbatta la sforbiciata prevista da una legge del 2011. La conferma dei 50 consiglieri regionali è, però, soltanto un tassello del complicato puzzle che si deve tentare di comporre prima delle elezioni in Puglia. Ci sono almeno altre due questioni che riguardano il sistema elettorale regionale: Azione e i civici chiedono ad alta voce di abbassare la soglia di sbarramento delle liste dal 4 al 2,5%. Terza questione, la doppia preferenza: la riforma, approvata proprio negli scorsi giorni in Consiglio Regionale, prevede una sanzione economica per le liste elettorali che non rispettano il rapporto di genere 60%-40% tra i candidati, ma viene esclusa l’ipotesi più drastica dell’inammissibilità della lista e, quindi, della sua esclusione dalla competizione elettorale. Un compromesso che è stato ad esempio giudicato insufficiente dalla segretaria regionale della Cgil Puglia, Filomena Principale, che ha definito il voto del consiglio regionale esempio “di un certo potere maschile che non si riesce a scalzare”.

In tutto questo bailamme, tiene ancora banco la polemica contro la norma, inserita nell’ultima legge di bilancio, che impone ai sindaci che intendano candidarsi al consiglio regionale nella prossima tornata elettorale, di dimettersi sei mesi prima della fine della legislatura. L’ira dei sindaci pugliesi è esplosa nell’agorà del consiglio regionale a fine marzo, con un flashmob organizzato dal sindaco di Bari, Vito Leccese, con lo slogan: “Giù le mani dai sindaci”. I promotori dell’incontro, evidenziando il carattere antidemocratico di questa legge, hanno sottoscritto un appello congiunto da presentare al consiglio regionale affinché la norma venga cancellata o modificata, prevedendo semplicemente le incompatibilità. La partita, insomma, è ancora aperta.