Il film di Piva grazie a cui gli “alberi” ritrovano le radici

Nell'intervista al regista barese la genesi e le finalità di "Fratelli di culla", il film dedicato ai bambini del brefotrofio di Bari, con cui prosegue l'inedito racconto sull'Italia del secolo scorso

Fratelli di Culla è il nuovo tassello cinematografico che Alessandro Piva aggiunge alla sua preziosa e stratificata indagine sull’Italia del secolo scorso. Questa volta nell’obiettivo del regista barese c’è l’ex brefotrofio di Bari che, dal dopoguerra agli anni ’90, ha ospitato tantissimi neonati. Figli abbandonati da madri, spesso giovanissime, in qualche modo spinte dalla famiglia e dal contesto sociale a questo gesto doloroso. Abbandoni causati principalmente dalla morale comune, dalla pubblica opinione che si faceva intollerante rispetto alla maternità fuori dal matrimonio. Un racconto che è anche testimonianza dei profondi cambiamenti della concezione del femminile nella società italiana dagli anni Sessanta in avanti, e dei segni di un passato che vive ancora nel quotidiano di molti ex ospiti dell’istituto barese, impegnati nell’incessante ricerca delle proprie radici biologiche e affettive.

Alessandro Piva con Titti, ex operatrice del brefotrofio

Il documentario, in concorso all’ultima edizione del Bif&st nella sezione Cinema Italiano, adesso comincia il suo percorso nelle sale. Le prime proiezioni hanno dimostrato la capacità di Fratelli di Culla di sollevare domande a lungo taciute, toccando emotivamente gli spettatori, che stanno rispondendo con entusiasmo alla visione del film. Abbiamo incontrato Alessandro Piva per capire la genesi e conoscere le fasi di lavorazione di questo suo nuovo progetto.

Ancora una volta utilizzi storie apparentemente locali, private, per raccontare in realtà il paese e la sua società, i cambiamenti avvenuti dal dopoguerra a oggi. In che modo Fratelli di Culla si inserisce in questa tua indagine?

I bambini che nascevano fuori dal matrimonio o fuori da un disegno preordinato di fidanzamento e di sistemazione familiare, tra gli anni ’50 e la fine degli anni ’80, nascevano sotto una cappa, vittime di un ostracismo di matrice cattolica e perbenista, che portava poi all’allontanamento dalle famiglie delle ragazze madri. La conseguenza naturale di questa incapacità di accettare anche gli “incidenti di percorso”, nonché l’avvicinamento all’altro sesso nella crescita e nella coscienza di sé delle donne, ha provocato una serie numerosissima di abbandoni di bambini appena nati. Questa rinuncia alla maternità da parte di decine di migliaia di donne in quegli anni, condusse lo stato a porsi un problema serio. Il tema fino a quel momento era stato prerogativa degli istituti religiosi, ma i numeri erano talmente importanti che fu necessario aprire numerosi istituti statali, affidati alle province dell’epoca nella loro organizzazione. Istituti abbastanza simili tra di loro, tutti molto grandi nelle dimensioni e molto dispendiosi: brefotrofi, orfanotrofi, case di assistenza alle madri e così via. Nel film mi sono focalizzato sul brefotrofio di Bari, che funzionava in maniera del tutto simile alle strutture dello stesso genere sparse nel Paese.

Francesca ex ospite dell’istituto barese

Un’esigenza dicevi, quella dell’intervento dello Stato, giustificata dai numeri del fenomeno…

Numeri impressionanti: parliamo di un milione di bambini che sono stati accolti in meno di cinquant’anni in questi istituti. Un milione di bambini non riconosciuti alla nascita. Un numero veramente imponente, un pezzo importante d’Italia che viene poco raccontato dagli storici ma anche nei film e nei documentari. A favorire il progetto del film è stata anche la coincidenza fortuita che io la mia casa di famiglia ce l’ho a pochi passi dal brefotrofio barese. Ho capito di essere in una di quelle situazioni del tipo: “Ora o mai più”. Moltissimi testimoni hanno un’età tale da essere ancora lucidissimi: penso alle operatrici che hanno lavorato nella struttura, capaci di riportarci indietro a quegli anni grazie alla loro memoria orale. Quando saranno poco lucide o non ci saranno più, ci resteranno solo i documenti ufficiali, ma non ci sarà più quell’impalpabile ricostruzione che può essere fornita solo dai testimoni oculari e diretti di un’epoca, di un’organizzazione come quella di questi istituti. Ho quindi creduto fortemente che questo documentario avesse il compito, il dovere, di fermare e di raccontare quelle testimonianze. È un pezzo della nostra storia che non può restare affidato semplicemente a una serie di archivi e di numeri che certamente ben documentano l’imponenza sociale del fenomeno, ma allo stesso tempo sono asettici, sono freddi.

Dopo Pasta Nera del 2011 torni a far parlare le persone anziane, che davanti alla camera ricordano le epoche passate e cercano di restituire un ritratto della loro visione delle cose quando erano più giovani. Ritrovando nei loro gesti, nei loro sguardi, l’energia che avevano tanti anni fa. Da cosa nasce il tuo interesse verso questa stagione della vita?

Innanzitutto sono molto interessato a quel periodo, precisamente a quello della ricostruzione post-bellica dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sono molto affascinato da quel periodo perché si sono giocate le sorti del Paese: penso alle lotte agrarie, alle migrazioni dal sud, alle grandi politiche industriali del nord. Insomma, l’Italia per come la vediamo oggi è frutto di scelte strategiche fatte in pochi anni, in cui qualcosa ci è andata bene, ad esempio il referendum sulla forma dello Stato, e qualcos’altro meno bene, se penso ai cambiamenti un po’ gattopardeschi del ceto politico e all’avvento della lunga stagione della democrazia cristiana. Un periodo, soprattutto, del quale ci sono ancora testimoni viventi, lucidissimi, che sono l’equivalente di quello che sono stati i miei nonni, che non ho avuto la fortuna di frequentare a lungo perché li ho persi presto e che probabilmente non avevano neanche la coscienza civile e la consapevolezza necessarie per potermi raccontare qualcosa di specifico su quel periodo. Forse è proprio per questo che ho una grande attrazione per i racconti degli anziani. Se quindi da un lato il periodo storico mi affascina, dall’altro mi affascina moltissimo ascoltare queste persone che si ricordano di quando erano ragazzi. È come se fossero delle macchine del tempo che mi portano indietro ad epoche che io ho praticamente solo sfiorato, essendo nato negli anni Sessanta. Pasta Nera è nato proprio da queste suggestioni. Un documentario che racconta di un’iniziativa di aiuto all’infanzia proprio negli anni immediatamente successivi alla guerra. Sia in Pasta Nera che in Fratelli di Culla ci sono persone anziane che raccontano del loro essere giovanissimi e del loro interesse per l’infanzia in difficoltà. In un caso un’infanzia caratterizzata da situazioni di indigenza: quell’infanzia meridionale sostenuta dalle famiglie comuniste del centro-nord raccontata in Pasta Nera. Nel caso di Fratelli di Culla mi ha interessato l’aiuto, il sostegno di Stato, e non più volontaristico da parte delle famiglie, all’infanzia abbandonata, non più per ragioni di indigenza ma a causa della morale del tempo.

Grazia, altra operatrice del brefotrofio

Qual è secondo te la domanda più pressante che spinge queste persone a risalire alle proprie origini, sapendo che sarà comunque un percorso doloroso?

La domanda che io ho avvertito come più pressante, e che in qualche modo è stata il trait d’union di queste storie, era sapere se fossero nati, se fossero venuti al mondo come conseguenza di un atto d’amore. Molti di loro temono di essere il frutto di maternità non desiderate fin dall’inizio. Quello che loro vogliono sapere è di essere su questo pianeta non per caso. È una cosa che mi ha molto colpito e mi ha guidato nell’ascolto delle persone intervistate. Quindi l’atto d’amore, sicuramente, è ciò che cercano queste persone, questi alberi senza radici. Per fortuna per molti di loro il fatto di essere venuti al mondo è proprio la conseguenza di un atto d’amore. Molto spesso le donne che hanno dato alla luce dei bambini che hanno dovuto poi abbandonare, sono state ingannate o illuse nelle loro aspettative. Quindi le persone che sono state poi adottate e che hanno avuto una vita lontano dalle famiglie naturali, sono nella maggior parte dei casi bambini desiderati, nati come coronamento di un sogno d’amore. Un sogno d’amore che però spesso si è incrinato o infranto per via del particolare contesto sociale, di una mentalità un po’ bigotta che all’epoca era quella dominante nella società. Un Paese che sembra aver vissuto cinquant’anni alla velocità della luce e che per fortuna si è allontanato da quelle convinzioni e da quel bigottismo che ha procurato danni a tante persone e a tante famiglie.

In che modo la condivisione delle loro storie ha potuto aiutare questi testimoni?

La dimostrazione che questa idea, che questa sorta di missione del documentario fosse giusta e indovinata, l’ho avuta il giorno della prima del film, poche settimane fa, quando quasi all’unisono molti tra gli ex bambini, ora adulti, ospiti del brefotrofio che ho rintracciato per farmi raccontare la loro storia, hanno dichiarato di aver colmato un vuoto attraverso questo racconto. Una parte di quel buco nero che riguarda la loro vita, la loro primissima infanzia, in cui sono stati assistiti da personale specializzato e non dalle loro madri o dai loro padri. Hanno scoperto dai racconti di queste operatrici di essere stati accuditi con amore, con attenzione, con cura. E questo li ha consolati moltissimo, perché hanno capito di non aver perso, come temevano, quell’affetto, quell’amore genitoriale. Lo stato è stato capace, grazie anche alla sensibilità di tantissime donne che hanno lavorato in questi istituti, di colmare almeno una parte del vuoto che queste persone hanno vissuto. Il resto è stato invece colmato dalle famiglie adottive, che hanno saputo dispensare il loro amore a bambini che ne avevano tanto bisogno.

 

Ambretta Minunni Martinelli (moglie del direttore Martinelli, che introduce le prime incubatrici a Bari) con la figlia Manuela

Immagino che la scelta di quanti hai deciso di intervistare abbia posto degli interrogativi, perché magari c’era il rischio, da parte loro, di fraintendere le finalità del film…

Non ho inteso questo film come un megafono e, quindi, c’è stata una selezione naturale nella platea di persone da intervistare. Io ho un grandissimo rispetto per questa gente perché poteva tenersi stretto il proprio segreto, le proprie angosce, le incertezze esistenziali. E invece ha voluto condividerle nella convinzione di doversi dare assistenza l’un l’altro. Da qui anche il titolo, Fratelli di Culla, è emblematico: racconta di un legame impalpabile ma molto forte tra persone che hanno tutte attraversato la stessa esperienza emotiva e fattuale di vita. Nonostante molti di loro abbiano avuto delle vite felici, fortunate, probabilmente anche migliori, dal punto di vista materiale, di quelle che avrebbero vissuto con le famiglie d’origine, restano comunque esseri umani più fragili per certi versi. L’espressione usata da uno di loro che più mi ha colpito è stata: “Noi ci sentiamo come alberi senza radici”. Questa immagine mi ha accompagnato nella lavorazione del film, al punto di rinunciare a delle belle interviste che avevo registrato quando le persone interessate mi hanno detto di aver cambiato idea e che avrebbero preferito tenersi per sé il loro vissuto.

Quanto il racconto dei testimoni si è intrecciato con la costruzione narrativa del film e con la scelta dei materiali d’archivio?

Sono convinto che i documentari si scrivono mentre si fanno e non prima. È abbastanza ridicolo che per meccanismi ministeriali, procedure burocratiche, si pensi che un documentario venga scritto prima. Io ne ho girati diversi presentati in tanti festival ma non ce n’è uno che sia uscito uguale a come era stato pensato all’inizio. I documentari non sono scritti, sono ideati. Poi c’è una parte importante che è legata alla ricerca. Ma la scrittura di un film del genere avviene sul set e al montaggio. Tant’è che il montaggio è firmato da me perché, pur cercando ogni volta di tirarmene fuori, alla fine chi rimane in moviola fino all’ultimo giorno sono sempre io. Sono grato a queste persone per avermi raccontato la loro storia e per continuare a farlo. Tanti mi stanno scrivendo o incontrando alle proiezioni in sala per raccontarmi la loro storia, quando in qualche modo è legata a quelle che vedono e ascoltano nel film. Una cosa che mi fa piacere perché mi dà l’idea che Fratelli di Culla sia una sorta di progetto aperto, che potrebbe continuare ad accogliere e a raccontare storie tra le tantissime che sono legate a questo tema così profondo, forte, intimo ed emozionante: l’infanzia non riconosciuta e l’adozione.

Maddalena Casadio, ex ospite del brefotrofio barese

Queste persone hanno trovato sui social uno spazio per condurre la propria ricerca personale e per esprimere anche la propria frustrazione rispetto a certe dinamiche…

Quando lo Stato si mette di traverso, impedendo l’accesso a informazioni così sensibili e preziose per quanti sono alla ricerca delle loro vere radici, ci pensano i social a compensare. E quindi è bastato fare una semplice ricerca degli appelli e dei gruppi, soprattutto Facebook, attivi sul tema per capire, cogliere la vastità di questo fenomeno e anche l’ostinazione, così come la disperazione, di molte di queste persone. Soprattutto di quelle a cui i figli sono stati tolti dai servizi sociali e che non li hanno consegnati spontaneamente agli istituti. Per questo ho voluto inserire nel documentario una sequenza in cui ho dato voce ai vari appelli che ho trovato sul web.

Credi sia auspicabile un cambiamento nell’impianto legislativo che regola l’accesso ai dati sensibili da parte dei figli adottivi?

Si tratta di una materia molto complessa e non ho gli strumenti per rispondere. Io ho lavorato molto sull’emozionalità delle storie, sull’intimità, sul vissuto, più che sulla realtà giuridica della questione. Sarei contento di presentare il film con degli specialisti del settore. Penso per esempio all’ordine degli avvocati, agli specialisti in diritto di famiglia. In questo momento non ho preso una posizione precisa, ma sono conscio che sia una materia che vada normata meglio, vada gestita e attualizzata ai tempi di oggi, se è vero come è vero che la Corte Europea ha sanzionato l’Italia per l’eccessiva rigidità in tema di accesso alle informazioni sensibili da parte delle persone adottate.

Nella foto in alto, Michele, ex ospite del brefotrofio barese, con la moglie Rina