Secondo una preziosa raccomandazione di Gilles Deleuze, quando si scrive su un autore, occorrerebbe “riuscire a non dire nulla che possa rattristarlo, o, se è morto, che possa farlo piangere nella tomba […] Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto […] Evitare la doppia ignominia dell’erudizione e della familiarità. Restituirgli un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare”.
Mi auguro, dunque, che questo ricordo di Lino Cavallo, che ha dedicato la sua vita al teatro, non tradisca più di tanto il proposito del grande pensatore francese.

Di Lino Cavallo, nato a Modugno, nell’entroterra barese, scenografo, costumista, regista e autore teatrale, quest’anno ricorre il decennale della scomparsa e, per l’occasione, è in corso, fino ad oggi, domenica 5 febbraio, nella sala multimediale a lui dedicata, a Palazzo Santa Croce, nel paese natale, una mostra di parte dei bozzetti, locandine, costumi, dipinti che costituiscono le tracce mnemoniche della sua inquieta e multiforme attività.
Da questo lascito amorevolmente conservato, fornito e disposto per la mostra dai familiari di Lino, costituito per lo più da testimonianze iconografiche (bozzetti, locandine, olii su tela, costumi) risalta la dominante visiva della sua concezione e pratica teatrale; vi vedi scorrere, fluido, un elemento, sintetizzato in una battuta di un personaggio, Il Mago, presente in un testo teatrale di Lino, Favole: “Era il teatro… era l’unica maniera di dirti parole che si vedono con gli occhi… parole che non vanno scritte, parole che non vanno dette… parole che si vedono… e che poi come le favole… volano via…”. E la celebre nota nel Mio cuore messo a nudo di Baudelaire, “ho trovato sempre che quel che c’è di più bello in un teatro è il lampadario – un bell’oggetto luminoso, cristallino, complicato, circolare e simmetrico”, sembra essere una specie di timbro che echeggia in ciascuna di queste scritture per immagini di Lino, e che accompagna la nota bassa di chi lavora nel “ventre del teatro”.

Non soltanto perché Lino è stato fondamentalmente uno scenografo e costumista, che si esprimeva quindi con un linguaggio prevalentemente visivo. Lino sapeva di certo che il gesto attoriale è essenzialmente “saper impugnare una rosa” (Ceronetti), che il palcoscenico rende la parola visibile, che, come osserva magistralmente Carlo Sini, il teatro è un’arte ancestrale che, più di ogni altra, rappresenta la vittoria del vitale sull’inerte. Con il teatro, mi dice Gabriella Pellegrino, sua moglie, ex danzatrice classica e ora maestra di danza, Lino ha sempre cercato, e in ogni modo, di comporre il rapporto aspro della sua gente con l’espressività visiva libera, con la libertà di mostrare e mostrarsi, che il teatro riesce a mettere in scena con la massima potenza. Per questo i suoi dipinti si ispirano a Michelangelo, alla sua tensione espressiva estrema, alla pienezza della visione, che spesso la stereotipia impedisce, strappa (ricorrente nei dipinti, di dimensioni notevoli, aperti, ariosi, è l’elemento figurativo di una cerniera, probabilmente riparatrice allegorica dello strappo).
“L’attore e l’oratore – scriveva Marc Fumaroli in Eroi e oratori – pur facendo ricorso, per interpretare il loro ruolo, a un testo d’autore scritto e memorizzato, forniscono nondimeno a tale testo, nel fuoco dell’azione, l’energia del loro fiato, dei loro gesti, del loro corpo e della loro anima: iniziano un dialogo col pubblico che, pur se sostenuto da un testo che li regge, non è affatto vinto in anticipo, la cui riuscita è irripetibile, quindi non è affatto iscritta nel solo testo”.

Dopo l’accademia delle Belle Arti a Bari (dove ha avuto per docente la costumista Rita Faure che mi ha parlato di Lino come di uno tra gli studenti più appassionati e talentuosi) si perfeziona a Barga, al Festival Lirico Internazionale “Opera Barga”, con docenti di levatura come Gillian Harmitage Hunt, Antonio Taglioni, Emanuele Luzzati, Vinicio Cheli. In Toscana, al colmo dell’entusiasmo, matura l’idea di portare la brillantezza e l’apertura dell’esperienza di Barga a Modugno, dove riesce a mettere su due teatri (che registrano per anni il tutto esaurito) e fonda la compagnia Ditirambo. Esperienze in cui coinvolge cittadini di ogni appartenenza, ragazzi, artigiani, aspiranti attori, gente del popolo: il suo principio generatore è dar voce e luce alla “differenza”.
Probabilmente, sarebbe stato più calzante intitolare col suo nome l’attuale Teatro Fava, se è vero, come mi dice sua moglie Gabriella, che l’idea progettuale di ricavare un teatro dall’ex mattatoio di Modugno, è stata di Lino.

Tanti i cortei storici a Modugno, Acquaviva delle Fonti, Castellaneta, Barletta, di cui cura con meticolosità filologica regia e costumi. Inaugura a Bitonto il Teatro Traetta con Michele Mirabella, che firmerà la prefazione a Il Teatro di Lino Cavallo, raccolta della drammaturgia di Lino: “Lino Cavallo – scriveva in quella prefazione Mirabella – è un mago svagato e pensieroso capace di allestire i suoi e i tuoi castelli in aria perché s’incanta a sentire i tuoi racconti e le tue chimere: si misura con loro, si confronta, si stupisce e viaggia con te sulla scopa. E si bea, si delizia anche se nulla traspare dal suo grugno dolce e vagamente malinconico”. Con Massimo Ranieri collaborerà, anche per le regie liriche, fino all’exitus volontario dalla vita.
Dopo avergli chiesto un suo ricordo di Lino, Michele Mirabella mi ha scritto queste parole venate di delicata philia: “Mi scrive Franco Taldone esordendo “mi chiamo” e fa seguire le generalità. Ho pensato a un creditore, ma, poi, mi ha rinfrancato la frase: “Nella mia libreria, in quel di Bitetto, ho avuto il piacere, qualche anno fa, di ospitarLa. Le scrivo per chiederLe un Suo pensiero, un Suo ricordo di Lino Cavallo, del quale ricorre il decennale della scomparsa.”

E prosegue: “Il sorriso iniziale nell’approccio allo scritto di Franco Taldone si è mutato in una smorfia dolce e commossa. Dopo dieci anni ancora la mia incredulità è messa alla prova dei fatti tragici e malinconici. Ancora una volta mi trovo a balbettare che “Dunque, Lino non c’è più!”. E sono passati dieci anni. Lino, l’artista Lino Cavallo, il “cavallo di razza” come, con scontato gioco di parole, amavo elogiarlo e prenderlo in giro, non è più con noi. Sfoglio i ricordi e leggo il suo nome sulle locandine e i manifesti. “scene e costumi” leggo, “di Lino Cavallo”. Era il 2005 e, a Bitonto, inauguravamo, in magnifica combutta con il sindaco Nicola Pice e l’amministrazione comunale, il Teatro Traetta”.
“Con il “Cavallo di razza” – scrive Mirabella – avevamo trasformato il nuovissimo palcoscenico in un laboratorio di idee, fantasie, bizzarrie e quel poco che potevamo spendere per trasformare il palcoscenico meravigliosamente piccolo in un sogno settecentesco per la musica di Traetta. Era “Il Cavaliere errante”, piccolo sogno teatrale e musicale – affidato al talento del maestro Vito Clemente – del grande musicista bitontino, che noi si faceva rivivere con l’arte della pazienza e la pazienza dell’arte, che, come diceva Eduardo, si faceva “tavola tavola, chiodo chiodo”. Era il teatro! Magnifico compagno di lavoro, Lino, affettuoso amico, era taciturno artista nel senso che non dilagava di presunzione, ma lavorava con silenziosa fantasia per propormi, a volte, la semplicità disarmante di una soluzione scenica, altre la genialità inventiva di uno svolazzo, un’acrobazia lignea, un fondale fantastico, uno strofinaccio che diventava foulard. Se tentennavo, taceva e mi lasciava borbottare, poi, come se l’avesse messo nel conto, io mi convincevo e lui sorrideva. E se ne andava per raggiungere i suoi meandri tra retropalco e camerini dove aveva il suo antro delle idee, della fantasia, dell’estro taciturno.
E conclude: “Fantasticava e meditava. Poi era gioia sommessa e ammiccante quella con cui mi proponeva ‘facciamo quattro passi’. Erano proprio quattro: dalla ribalta alla platea. Per fantasticare insieme. A tarda sera, finite le prove in palcoscenico, i quattro passi diventavano molti di più: quelli necessari a conversare e fantasticare. Di altre imprese dell’arte nostra. Mi manca Lino Cavallo. Artista di razza.”
Nella foto in alto, alcune opere di Lino Cavallo in mostra a Palazzo Santa Croce a Modugno – Le immagini sono tratte dalla pagina fb di Gabriella Pellegrino