Ogni tanto ripenso a quando non si poteva andare a teatro. Quando la pandemia ci aveva confinati entro le quattro mura di casa e il pensiero pareva essere bloccato lì, dentro al corpo, senza alcuna possibilità di fuga. Momenti in cui si avvertiva forte l’esigenza di vita, di respiro, insomma di teatro. Perché per quanto uno voglia cimentarsi e trovare una definizione adatta, il teatro è il momento in cui l’anima si innalza, in cui respira.
A teatro si è strettamente a contatto con quanto ci circonda; si entra in rapporto intimo con tutto ciò che si trova intorno a noi. E non lo dico io, ma Albert Camus, uno dei più grandi pensatori della storia dell’umanità. E molto prima di lui, nella notte dei tempi, l’avevano ben inteso quei popoli che si univano in danze e momenti ricchi di afflato, tentando di connettersi ad una dea madre-terra e alla parte più profonda di loro stessi.
Assistendo alla pièce Il castello del Teatro delle bambole – che, ormai, ha raggiunto i suoi vent’anni – mi è sembrato di respirare. Non capita tutti i giorni di assistere ad uno spettacolo così bello, così ispirato, con talmente tanta profondità. Ricco di allegoria, messaggi nascosti e, soprattutto, del genio di Italo Calvino. Quando si parla di questo scrittore, si cade facilmente vittima di fraintendimenti. O si complicano fino all’inverosimile i suoi messaggi o si finisce col semplificare eccessivamente il suo pensiero. Il regista Andrea Cramarossa e gli attori (Giovanni Di Lonardo, Rossella Giugliano, Federico Gobbi, Pierpaolo Vitale) sono invece riusciti non solo a capire Calvino ma a trasmettere perfettamente il suo messaggio al pubblico.
Per assistere ad uno spettacolo così, che non manca di difficoltà, è necessario seguire il consiglio che mi diede il regista stesso, un sabato pomeriggio, quando abbiamo parlato al telefono per una buona mezz’ora del suo modo di fare teatro: bisogna lasciarsi guidare, andare a teatro senza preconcetti o aspettative. Godersi l’esperienza particolare. Non è certamente facile abbandonare i pregiudizi, ma è sana abitudine da adottare nella vita, specie quando si parla di arte. Il pubblico non è certamente un recipiente vuoto da riempire, ma una congrega di anime da ispirare. Sono certa che chi si sia trovato ad vedere allo spettacolo, abbia poi cercato in libreria un titolo di Calvino e si sia messo a sfogliarlo. Magari le avventure raccontate sul palco, le quattro bellissime storie – che gli attori narravano al microfono e che, intanto, altri riproducevano con travestimenti, spade, maschere – sono risuonate nella mente degli spettatori, spingendoli ad interrogarsi sulla loro vita.
Sui loro desideri, sulle loro paure, sull’amore, sulle trappole del destino. Avranno ripensato a quando hanno letto di Orlando e della passione per Angelica, storia che Calvino amava particolarmente. Avranno ripensato a quando erano ragazzi, a quante volte si inseguono delle chimere, a quanti viaggi ci riserva ancora la vita che, per quanto dolorosa, resta il viaggio più bello.
Non è neppure un caso che il titolo sia proprio Il castello, un simbolo sempre ricorrente nell’opera di questo scrittore. Tra l’altro, nel titolo di una delle sue opere più belle: Il castello dei destini incrociati. Un luogo che ritorna costantemente e fa da sfondo a tante storie diverse. Da cui si snodano infinite vite, vicende ricche di umanità e di sentimenti umanissimi.
Osservavo il regista dal quarto ordine, mentre sedeva al piano luci e girava il copione fitto fitto. Immaginavo il lavoro che è stato fatto sul testo, la cura dei dettagli sulla scena, e pensavo a quanta superficialità, invece, riservino tante compagnie ai loro spettacoli.
Il pubblico ha bisogno di questo tipo di performance. Ha bisogno di essere messo in difficoltà, di impegnarsi, di non sentire per un attimo la terra sotto i piedi. Di guardare gli attori e, intanto, perdersi nella potenza delle loro parole. Ho trovato interessante anche la scenografia, tutto sommato spartana. Quattro sedie, strabordanti di oggetti di scena, le quattro casette che hanno anche portato in proscenio in un momento clou della pièce.
E ho trovato anche molto interessante la cornice entro cui si svolge l’azione: i quattro attori, infatti, erano lì per un esperimento. O, almeno, così è stato per i primi due. Poi sono giunti, infatti, gli altri due che hanno parlato di provino. E forti del fatto che fosse una prova, che si trattasse di una finzione, ognuno ha raccontato la fiaba che si portava dentro, il proprio straordinario vissuto, squisitamente letterario. In fondo, diceva un autore cristiano, la stessa vita è un esperimento; un provino, se vogliamo. Un insieme di prove prima della fatica ultima. Lo stesso Shakespeare diceva che non siamo altro che attori, noi tutti, chiamati sul palcoscenico a recitare una parte.
Ognuno recita come può e attende che qualcuno, intorno a lui, gli dica che è finita. Ma, intanto, noi tutti ci agitiamo e pavoneggiamo sul palco della vita, certi che quasi nessuno si ricorderà di noi. Ogni vita, diceva Macbeth, altro non è che un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e furore, senza alcun significato. Sarà pure così, ma magari ognuno di noi avesse la metà del talento degli attori del Teatro delle bambole. Sono certissima che in questo caso anche le nostre storie avrebbero più significato.