Suoni e luci oltre i versi: ecco il “paradiso terrestre”

E' un viaggio nel contemporaneo, quello suggerito da Elio Germano, che rilegge al Mercadante di Altamura la Divina Commedia sulle note di Teardo

Catturato dalla complessità, dalla dimensione infinita di Dante, dalle sue ansie e dalle sue inesauribili rivelazioni, Elio Germano è recentemente tornato sui luminosissimi versi del XXXIII canto del Paradiso: quello che a settembre 2020 aveva magistralmente letto a Ravenna per l’apertura delle celebrazioni del VII centenario della morte del Sommo Poeta, in presenza del presidente Mattarella.

Adesso, con la complicità di un musicista-esploratore come Teho Teardo, sul terreno delle terzine dantesche germoglia la musica imprevedibile di un compositore d’avanguardia senza etichette, che agita e ricodifica continuamente non solo i versi del poeta – riletti da Germano – ma anche le immagini visionarie di ingannatori dello sguardo come Simone Ferrari e Lulu Helbæk, capaci di muoversi tra cerimonie olimpiche, show televisivi e teatrali.

Germano, come Dante Alighieri nel trentatreesimo canto del Paradiso, si trova nuovamente nell’impaccio dell’essere umano che prova a descrivere l’immenso, a raccontare l’irraccontabile. Uno scarto rispetto alla “somma meraviglia” portato in scena nei teatri pugliesi in queste ultime settimane, da Lecce ad Altamura, creando ogni volta in sala un’esperienza unica, quasi fisica per lo spettatore catapultato al cospetto dell’immensità.

Un progetto commissionato per essere divulgativo, con l’obiettivo di “aprire” il testo, renderlo accessibile e usufruibile al grande pubblico, ma che in realtà, anziché spiegare Dante, tenta un più complicato “dispiegamento”, provando a eliminare quelle pieghe che rendono difficile entrare fino in fondo nel canto. Aprendo un percorso letterario-musicale all’interno delle terzine, dilatate con i suoni e le luci e rese finalmente attraversabili (con l’aiuto di Laura Bisceglia al violoncello e Ambra Chiara Michelangeli alla viola).

La luce nello spettacolo – come nel canto – è determinante ed è la vera ragione che ha avvicinato Teardo e Germano a questa operazione, spingendoli ad approfondire un’impressione molto più ampia e complicata rispetto alla prima che tutti possiamo aver avuto incontrando Dante da ragazzini a scuola. Ci si accosta oggi a un patrimonio poetico che ha formato e indirizzato la pittura, la musica e la letteratura per secoli, dove ogni verso ci fa tornare in mente immagini e suggestioni che colleghiamo a qualcosa che abbiamo già visto e conosciuto.

Dante, quindi, lo si può guardare anche dalla nostra epoca, attingendo ad un bagaglio, ad un archivio emozionale di settecento anni. Perciò, quando si vuole parlare di Divina Commedia, non ci si limita a dialogare con il suo autore originario, ma anche con tutto quel lascito storico che abbiamo a disposizione. Così, il Paradiso XXXIII di Germano e Teardo si configura piuttosto come un’indagine sul mistero, la risposta finale a una ricerca: non si tratta di raccontare il Paradiso ultraterreno, religiosamente inteso, ma di ricondurre il tutto a un’esperienza contemporanea.

Già Guido Ceronetti, d’altronde, affermava che la parola poetica ingaggia una “guerra sincretistica” all’unicismo religioso. Prima di entrare nel paradiso cristiano, Dante invoca non il buon Gesù, che come Lògos dovrebbe essere il naturale tutore di un divino parlante, ma – con risoluta adesione alla tradizione poetica – il buon Apollo. Quella richiesta altissima di soccorso apollineo, quel parlare splendido e abbassato – Sì rade volte, padre – non sono da Apollo stesso? Nessun santo dei due Testamenti avrebbe potuto essere il fondamento della più difficile parola dantesca ed è Apollo il soccorso e il padre nella solitudine del poeta lasciato solo da Virgilio. La poesia oscura, la parola, la via poetante, viene scagliata contro la solida muraglia del monoteismo per ottenere l’accesso al “paradiso” dantesco e compiere una rivoluzione, insieme concettuale e religiosa, di un assottigliamento della linea di separazione fra poesia e parola semitica.

Nell’introdurre lo spettacolo, Germano specifica: “La materia è arricchita con aspetti visivi e sonori che non sono solo la parafrasi del testo, ma accentuano i contenuti in modo appariscente, condivisibile e circolare. Il trentatreesimo Canto del Paradiso rappresenta un viaggio in sé stessi, è simbolico dell’esistenza, racconta l’arte in generale e i suoi limiti”. Teardo aggiunge: “Non vogliamo spiegare nulla: se non ha saputo farlo Dante per primo, esposto alla divinità, perché dovremmo farlo noi? Come spiega Germano, quello che vorremmo fare è consentire diverse vie d’accesso”. Il canto XXXIII in questa nuova “messa in scena” non avviene solo davanti a noi ma è tutt’attorno, al di sopra della nostra fisicità di spettatori sprofondati nella sedia del teatro, dentro una bolla (uno “sphere”, diremmo oggi) in cui l’immaginario visivo non smette di sviluppare e suggerire nuove reminiscenze.

Elio Germano (a sin.) con Teho Teardo

Se è vero che il segreto dell’eterna leggibilità della Commedia risiede proprio nel suo fondamento primario, che è la persona umana, allora Germano è perfetto, con il suo struggimento, a “tenere vicino” Dante,  senza renderlo altro da noi, ma permettendoci invece di empatizzare con quella voce che parla di stelle al centro della scena.

Quell’amore che “move il sole e l’altre stelle” è infatti un amore divinoumano e amore umanodivino, indisgiungibilmente connessi. Proprio come ci suggerisce Dante, che ricava dall’incastro di amore in amore il movimento di tutte le stelle. Perché l’amore umano – ancorché pieno di difetti, di errori di espressione, di tempistiche sbagliate per via della diversità dell’altro, delle distinte percezioni e sensibilità – è già amore divino. E l’amore divino è fatto per essere umano ed incarnato. Perché non si arriva veramente a Dio se non si passa per l’umano e non si arriva a trovare il cuore dell’umano se non si passa per il divino.

Le foto dello spettacolo sono di Zani Casadio