Viva l’Europa dei cittadini non dei capitali

Che le bandiere in Piazza del Popolo a Roma possano sventolare in nome di quei valori e di quelle finalità che danno davvero un senso all'unione dei popoli

Ieri sera, e l’attacco non sembri irriverente, mentre mi preparavo un contorno di puntarelle – punte di cicorie crude tagliate a listelle e condite con olio Evo, aceto e alici del Cantabrico, una vera delizia – ho cominciato ad appuntare alcune idee per il pezzo che ho scritto a notte fonda perchè si potesse pubblicare questa mattina, a poche ore dalla manifestazione Una piazza per l’Europa. Tante città, un’unica voce in Piazza del Popolo, a Roma. Il grande raduno a cui hanno annunciato la propria adesione cittadini, rappresentanti delle istituzioni, delle forze politiche e sindacali aderendo all’appello lanciato da Michele Serra ad incontrarsi per sventolare la bandiera dell’Europa, in nome della libertà e dell’unità dei popoli che ne fanno parte.

Un’iniziativa quanto mai opportuna, giacché le sorti dell’Europa sono tutt’altro che scontate. Non sappiamo cosa ci aspetta dal punto di vista geopolitico, soprattutto alla luce delle ultime notizie che giungono d’oltre Oceano e, dunque, mai come oggi, chi crede in un’Europa unita e forte, deve far sentire la propria voce in modo altrettanto concorde e perentorio. Al di là di ogni fede politica. Senza simboli di questo o quel partito. Semplici cittadini radunati sotto il blu della bandiera dell’Unione Europea, per ribadire con vigore il bisogno di armonia in un momento così difficile, foriero di grandi difficoltà e di possibili grandi cambiamenti nel mondo.

Al di là dei risultati sinora raggiunti e delle diverse interpretazioni che si possono dare rispetto al processo d’integrazione, non è possibile sottovalutare il significato politico e sociale dell’idea di un’Europa unita, fondata su principi e obiettivi che hanno radici storiche profonde, oltre che impatti concreti sulla vita di milioni di cittadini europei. Le ragioni che hanno portato a questo, seppur faticoso, processo d’integrazione sono molte e note. Non sembra, tuttavia, inutile ripercorrerle brevemente.

L’Unione Europea nasce come progetto per assicurare pace e stabilità tra nazioni storicamente in conflitto, che mantengono ciascuna la propria sovranità collaborando su questioni di interesse comune: economia, ambiente, difesa. Promuove principi, valori, diritti e tutele, vincolando gli stati membri al loro rispetto. Un’Europa unità può avere un peso maggiore nelle relazioni internazionali, rispetto alle grandi potenze, dall’America alla Russia. L’euro e la libera circolazione di beni, servizi e persone favoriscono, inoltre, un’economia integrata pur mantendo pressoché inalterato l’aspetto competitivo. I cittadini possono viaggiare, lavorare e studiare in altri paesi senza restrizioni, sviluppando relazioni culturali e professionali tra popoli diversi. Programmi formativi come l’Erasmus favoriscono lo scambio di idee e la costruzione di un’identità comune tra le nuove generazioni. L’Unione garantisce standard minimi in materia di lavoro, ambiente e protezione sociale, col fine di migliorare le condizioni di vita. I cittadini europei, pur mantendo le proprie tradizioni, sviluppano il senso di appartenenza a una comunità più ampia, basata su valori condivisi. L’Unione Europea, poi, può porsi all’avanguardia su questioni globali come il cambiamento climatico, la transizione digitale e i diritti civili.

Insomma, una grande speranza riposta in un’accattivante visione politica e sociale, oltre che economica, per assicurare pace, benessere e progresso, che non può essere liquidata con poche parole, ammesso che lo si voglia fare. Ma non è questo il nostro caso. Ciò che ci interessa, qui nell’immediato, è ricordare, invece, altrettanto brevemente, i molteplici fattori che remano contro la possibilità di un’Europa davvero e seriamente unita. In buona sostanza, questa grande speranza si scontra con una serie di sfide legate a evidenti differenze economiche, politiche, istituzionali e culturali, unitamente alla volontà mai sopita di mantenere un certo grado di autonomia e sovranità nazionale da parte dei singoli stati. Fattori pure per taluni versi discutibili, ma che non si possono cancellare a colpi di spugna. Non solo che non si possono cancellare facilmente, giacché fortemente radicati, ma che pongono seri dubbi sul fatto che sia opportuno cancellarli, che sia giunta oramai l’ora di entrare appieno in una post o ultra-modernità intesa come definitivo superamento di un’età moderna angusta e retrograda. Questi, in sintesi, i fattori che tuttora remano contro.

I singoli stati temono che una maggiore integrazione comporti perdere una parte della propria sovranità, soprattutto in settori rilevanti quali la politica estera, la difesa e le politiche fiscali. I paesi mantengono forti identità nazionali e la crescente integrazione europea viene vista, per taluni aspetti, come una minaccia. La Brexit, in questo senso, ha molto da dire. La stessa visione di una Europa federale, sul modello americano, non è accettata a cuor leggero da nessuno. Le situazioni economiche, poi, sono molto diverse e notevoli sono conseguentemente le disuglianze tra i paesi più e quelli meno ricchi, con visioni differenti rispetto alle politiche finanziarie da attuarsi. La governance dell’Unione Europea, inutile nasconderlo, è complessa e viene spesso vista come pesantemente burocratica. D’altro canto, le decisioni per consenso unanime nel caso di scelte importanti, rallentano di fatto il processo di integrazione. Ma come farne a meno? Con quali possibili funeste conseguenze? Non da ultimo, le difficoltà reali che sorgono nella gestione delle crisi globali, quali quelle migratorie e pandemiche.

Insomma, come si dice, non sono tutte rose e fiori. Un mio amico lontano non si stancava di ripetermi che nella vita non c’è nulla di facile. E uno stimato personaggio non si stancava altrettanto bene di ripetere che nella vita sono le cose (apparentemente) facili difficili a farsi. L’idea di costruire un terreno comune, capace di rispettare e valorizzare le specifiche caratteristiche di ciascun paese, per assicurare un futuro migliore alle generazioni a venire, è un progetto talmente facile da accettarsi idealmente, quanto tremendamente difficile da concretizzarsi. Ma ecco alcune considerazioni, partendo da una domanda che, nonostante tutto, non è poi così scontata: di che Europa vogliamo parlare?

Dicevo, all’inizio, del contorno di puntarelle. Ora: va bene che le alici del Cantabrico sono più grandi, più sode e meno salate di quelle siciliane, di Sciacca, di Cefalù piuttosto che di Acitrezza o Porticello, ma queste sono altrettanto ottime. Perché mai dovrei mangiare quelle del Cantabrico? Mi si dirà: non è certo un gran problema. No davvero, però attenzione: l’esempio delle alici vale per molte altre cose, forse più importanti, perché al di là delle ragioni politiche e sociali, e al di là delle stesse ragioni economiche, ciò che c’è in gioco è la cultura di ciascun paese europeo. Questo è il punto. Questo è o – per certi versi – dovrebbe essere l’ostacolo, il limite di ciò che sta dietro al pensiero di un’Europa unita in un’unica grande nazione (o addirittura di un Occidente unito sotto uno stesso tetto).

Certo, per il sistema economico, soprattutto per quello finanziario e produttivo, un’Europa unita sarebbe un poco come vivere nel mondo di Amélie: un unico grande territorio. Un unico grande paese. Un’unica grande potenza. Un’unica grande politica. Un’unica grande economia. Un unico grande mercato. Un unico grande consumatore. Un unico grande contenitore dove impera l’usa e getta. Se, come scrive Serge Latouche, siamo condannati a produrre e a consumare sempre di più, una tale evidenza sarebbe il massimo. Una situazione che terrebbe, per quanto possibile, alla lontana le crisi e il panico che scaturiscono ogni volta che la crescita rallenta o si ferma. O per dirla con le parole rivisitate di Zygmunt Bauman, potremmo vivere appieno in una società dei consumatori, il cui valore supremo è il diritto/dovere di ricercare la felicità. Una felicità istantanea e perpetua che non deriva tanto dalla soddisfazione dei desideri, quanto dalla loro quantità e intensità.

Non è questo il momento per discutere se, rispetto ai nostri antenati, noi siamo più felici, piuttosto che più alienati, isolati, vessati, prosciugati da vite frenetiche e vuote, costretti a prendere parte a una competizione a tratti grottesca per la visibilità e lo status, in una società che vive per il consumo e trasforma tutto in merce. No, non è questo il momento. Del resto, partendo da differenti punti di vista, i risultati cambiano e tutto è discutibile. L’oggettività, per dirla con Max Weber, non sta nei contenuti o nei risultati, ma nel metodo. Mai nel punto di vista. E allora, dal mio punto di vista, vorrei tornare e insistere su una questione che mi sta particolarmente a cuore, appena sopra accenata, anticipando che non ho soluzioni facili da proporre e mi affanno non poco, peraltro senza successo, alla ricerca di una qualche terrena verità, lottando duramente (si fa per dire) contro pregiudizi e contraddizioni. Cerco quotidianamente di superare gli uni e le altre, soprattutto i pregiudizi, che sul serio mal sopporto, convinto come sono che non potranno mai portare nulla di buono. Diversamente per le contraddizioni, che talvolta mi paiono come il vero sale della vita, se confessate, e forse persino l’unico, efficace antidoto al dilagare degli stessi pregiudizi.

La questione è quella culturale, che non può essere presa troppo alla leggera, giacché – come avverte Ida Magli – è piuttosto seria. Lo so, al sentire questo nome e cognome, qualcuno, forse molti, storceranno d’istinto la bocca, perché la Magli è notoriamente annoverata tra gli intellettuali di destra. Magari pure, tuttavia, personalmente, alla mia età, guardo più alle persone e alle idee, piuttosto che alle fazioni e alle appartenenze. E la Magli, dopo aver spulciato il Trattato di Maastricht, evidenzia che, al fondo, in esso tutto è incentrato sul fattore denaro, senza alcun concreto riferimento agli esseri umani in quanto tali. Tutto il resto ha poco o nulla senso, né valore: la patria, la lingua, la musica, la poesia, la religione, le emozioni, gli affetti, tutto quello che riguarda gli uomini in quanto uomini, che dà espressione e significato al loro vivere in un determinato luogo, in un determinato gruppo, al loro contemplare un determinato paesaggio, al loro amare, soffrire, godere, creare, sembra sia stato ignorato. Qualcuno potrebbe obiettare che quel “tutto il resto”, nel trattato, era sottointeso: può darsi, come abbiamo visto, si possono avere punti di vista differenti, che portano inevitabilmente a differenti risultati. Tuttavia, qualche parola in più, in quel trattato, rispetto alle osservazioni della Magli, probabilmente non ne avrebbe alterato il contenuto, anzi l’avrebbe arricchito. Ma tant’è.

Ora: non tutte le considerazioni della Magli mi trovano automaticamente d’accordo, quando leggo o sento parole come patria o religione, pur rispettandole al sommo grado, vado sempre avanti con in piedi di piombo, e non per i concetti in sé, di altissimo profilo, ma per le possibili interpretazioni a senso unico. Ma non v’è dubbio, a mio parere, che del trattato, ciò che è stato sinora visibilmente conseguito, è in larga misura patrimonio della potentissima triade Mercato – Economia – Dio-Denaro. Le altre sue (del famoso documento) presunte o reali, pur notevoli virtù, sembrano aver poco operato e ancora oggi attivarsi sommessamente, quasi schiacciate da quella triade. Bisognerebbe darle nuova linfa, a quelle virtù, nuovo vigore, auspicandone la centralità. Insomma: non è possibile fare tabula rasa, delle storie delle persone e, a maggior ragione, del vissuto d’intere popolazioni. È ingiusto, per taluni aspetti forse pure disumano; e poi, in nome di chi e di cosa? Questo è il punto. Chi detiene oggi in mano il futuro dell’Europa e del mondo? Noi cittadini, che già oggi facciamo fatica persino a contare nel nostro paese, quanto potremmo contare domani in una Europa unita?  

Se ne duole molto, la Magli, di questa emblematica realtà, e io non riesco a darle completamente torto. La questione tocca tutti noi, perché non può essere dimenticato che ogni popolo si forma appropriandosi di un territorio e vive di una propria cultura, che ogni lingua è il prodotto e insieme lo specchio di questa cultura sedimentatasi nel tempo, che gli individui appartenenti a un popolo si somigliano in funzione di una personalità di base comune, che ogni tratto di una cultura è interdipendente con tutti gli altri così da costituire una forma, un modello persistente al di là della vita dei singoli individui. E una tale evidenza, non cozza affatto col sano tentativo di aprirsi all’altro, di condividire idee e progetti, di perseguire e individuare soluzioni comuni. Assolutamente no.  

Una relazione proficua, infatti, può avvenire soltanto sulla base dell’incontro tra ben precise specificità. Così come nel caso degli individui, io non posso instaurare un confronto efficace se non partendo da una mia ben determinata personalità, altrimenti vengo fagocitato dall’altro, cosi un incontro reciprocamente conveniente tra paesi presuppone ugualmente, per ciascun paese, il presentarsi con ben determinate caratteristiche. Io posso avere un confronto vero con l’altro nella misura in cui sono cosciente e tengo ai miei convincimenti e ai miei valori, salvaguardandoli e non rinnegandoli per compiacere. Così un paese può confrontarsi alla pari con un altro soltanto nel momento in cui è cosciente e tiene alle proprie peculiarità e alla propria specifica cultura. Il che non esclude, tutt’altro, la stima e il rispetto dell’altro e la necessità di aprirsi a compromessi.

Di confronto che non si risolva in un’arida e inconcludente condizione di mera competizione, ne abbiamo sempre più bisogno, considerato che, oggi più che mai, chiudersi in sé stessi significa cadere in una sorta di spirale autoreferenziale e narcisistica che, al dunque, produce vuoto, mancanza di senso e perdita del legame con la realtà, ma non c’è confronto possibile, se non tra persone mature e popoli maturi sotto il profilo culturale.

Ma, oggi, forse non è il momento neppure per tali considerazioni. Oggi è il momento di accogliere l’invito, fisicamente e simbolicamente, a scendere in piazza sventolando la bandiera europea in nome della libertà e dell’unità dei popoli europei.