Tra luci, suoni e profumi, il fascino struggente della Settimana Santa

Dalle processioni alle bande che scandiscono le ore della Passione sino al Benedetto, che impreziosisce a Bitonto le tavole di Pasqua, la fede e il folclore di un rito che si rinnova da secoli

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La musica struggente della “Desolata”, tale è la Vergine prima di essere “Addolorata” per la morte del Figlio, prepara la città alla Settimana Santa con i suoi riti, le sue tradizioni, le sue bande musicali, che attendono quest’occasione per fare sfoggio della propria bravura nell’eseguire antiche e solenni marce funebri di Carelli, Delle Cese, La Rotella.

Musiche che per gli appassionati, ancora tanti, rievocano tempi antichi, quando quelle note struggenti potevano essere ascoltate la notte del Giovedì Santo lungo le strade silenziose del borgo antico, ancora più silenti all’orecchio teso di bimbi e adulti, pronti nelle ore notturne a recepire un suono che potesse svegliare tutti e portarli vicino all’uscio di casa o alla finestra per vivere quella sonora mestizia.

Tradizioni scomparse paiono negli ultimi anni riemergere, semmai vestite di un abito nuovo in una società intenta a riscoprire gusti genuini di una civiltà ormai al tramonto. Ritornano i dolci tipici di Pasqua, i vari taralli, le pastarelle, i succulenti piatti della domenica, a cominciare da u benedìtte per finire alle orecchiette col ragù o a u vredétte (brodetto) e a mille altre delizie.

Accanto al cibo, si riscoprono i riti della Settimana Santa, le processioni, le bande musicali, i “sepolcri” che, in maniera talvolta sobria, tal altra ampollosa, sono allestiti ancora in molte chiese. Alcune aperte per l’occasione, meta ormai di tanti, tantissimi curiosi, giovani in particolare, che sino alla tarda sera del Giovedì Santo peregrinano per il centro antico e si accalcano, vociando e ridendo, nei punti cruciali: le chiese del Purgatorio e di San Domenico.

La rituale focaccia, addentata avidamente, profana l’ambiente che pur dovrebbe essere carico di mestizia e pensoso raccoglimento.

Riti che si ripetono, ma che per tanti hanno perduto di senso e significato. Riti che si traducono spesso in puro spettacolo, lontani come sono dal vissuto quotidiano.

Come una volta, la sera del Giovedì Santo le chiese si riempiono d’incensi e di acri profumi attorno ai “sepolcri”. Un tempo parroci, rettori e fedeli, quasi a gara, allestivano grandi troni in cui deponevano l’Eucarestia, in uno scenario particolare, con luci soffuse e ornamenti di piante di orzo e di legumi di color giallognolo giacché erano fatte germogliare in ambienti privi di luce.

Le campane non suonavano più. Gli altari erano spogliati di ogni ornamento, le immagini sacre coperte da panni violacei. L’unico suono, sordo peraltro, che richiamava a raccolta i fedeli era quello della “terrozzue o tricche e tracche”, che i ragazzi facevano rotolare con forza percorrendo le vie del rione parrocchiale.

Sempre solenne è stata e lo è ancora la processione del Venerdì Santo, che si snoda partendo dalla seicentesca chiesa del Purgatorio e alle prime ombre della sera procede per Piazza Cavour, addentrandosi per le viuzze del centro antico e riempiendo le strade delle marce funebri la cui musica si mescola con il vocio e qualche segno di croce di migliaia di curiosi.

A notte inoltrata il corteo processionale, composto dalla naca (culla) di Cristo morto, seguito dall’Addolorata e dal trofeo del Legno Santo, in passato preceduto da tutto il clero, compreso il capitolo cattedrale, e da un nugolo di seminaristi che facendo oscillare gli incensieri inondavano l’aria del caratteristico profumo, fa rientro nella chiesa da cui era partito.

La processione dei Misteri, che parte dalla chiesa di san Domenico, dopo un lungo periodo di sospensione per via di alcuni inconvenienti causati dai portatori ragazzini, è ritornata il Venerdì Santo a snodarsi di buon mattino sulle solite stradine anguste per poi entrare nel borgo ottocentesco e  sfilare maestosamente per le vie del corso.

E tra le sette statue che rievocano passione e morte di Cristo, quella di Criste a la chelònne (Cristo alla colonna), con il volto girato da un lato, si diceva ficcasse il naso nelle case delle antiche, buone massaie per controllare se fossero già pronti re freseuìcchie (una specie di taralli). Così diceva mia madre, per averlo sentito raccontare da sua madre, riferendosi a una specie di taralli biscottati, tutti naturalmente fatti in casa, assieme ai taralli inginocchiati, ai taralli di massa, ai taralli di zucchero, a quelli olio e pepe (da me preferiti), che si potevano solo guardare, assaporandone il profumo, appena giunti a casa dal forno a legna di Mozzicugno. Nulla si poteva assaggiare, se non dopo la Resòscete (Resurrezione). Diversamente sarebbe stato come commettere un peccato grave.

La “funzione” della Pasqua era memorabile in un mondo fatto di cose semplici.

Il festoso gioco delle campane che suonavano all’unisono, dopo l’avvio dato da quelle della cattedrale, rompeva il silenzio dei giorni della Settimana Santa quando erano rimaste mute; l’unico suono, sordo peraltro, che richiamava a raccolta i fedeli era quello della trìcche e tràcche, una sorta di asse di legno su cui battevano alcune maniglie di ferro, lì legate.

Alla resòscete, sull’altare maggiore delle chiese, e della cattedrale in particolare, dove la cerimonia era presieduta dal vescovo, si collocava una statua di Cristo risorto, occultata da un sipario mobile. Quando il vescovo intonava il Gloria in excelsis Deo, il panno era immediatamente fatto cadere e appariva così Gesù Risorto in atto benedicente, su una nuvola, con uno stendardo crociato di rosso in mano. Questo momento magico generalmente si faceva coincidere con le ore dodici del Sabato Santo. Grande la commozione degli astanti e il tripudio di quanti si trovavano in chiesa. Al suono delle campane, che risuonavano con squilli diversi e riconoscibili per tutta la città, ciascuno esultava di gioia.

In chiesa i ragazzi battevano i piedi, molti, le mani. Mentre la banda suonava sul sagrato della cattedrale, al suo interno la gente percuoteva i banchi e muoveva le sedie. Il suono delle campane arrivava nelle case, giungeva alla modesta massaia che si affrettava a colpire con il mestolo un armadio, un canterano, una cassa; arrivava al calzolaio che batteva col martello contro il suo desco, si spingeva oltre no alla campagna, dove il lavoratore della terra sostava per un attimo, alzava la testa, si segnava, batteva la zappa su un masso con gli occhi gon di lacrime.

Tanti rumori cacciavano via il diavolo e, con lui, la morte. Da questo momento cominciava il rito degli auguri: Buona Pasqua!

Foto di Gaetano Lo Porto