In un passaggio del suo solenne discorso alla Camera dei rappresentanti, nel giorno della messa in stato di accusa di Donald Trump, la speaker Nancy Pelosi, un’elegante e colta signora italoamericana di 79 anni, ha affermato: “Questo è il motivo per cui siamo qui riuniti oggi: a republic, if you can keep it (una repubblica, se siete in grado di mantenerla)”.
La frase, passata per lo più inosservata alla stampa internazionale, rinviava alle origini della nazione americana, e fa parte di un aneddoto che la stessa Nancy Pelosi aveva ricordato nel settembre scorso, annunciando l’avvio di indagini per formalizzare l’impeachment del presidente Trump. L’aneddoto proviene dal diario che James McHenry, delegato dello stato del Maryland, tenne durante i lavori della Convenzione di Philadelphia del 1787; pubblicato nel 1906, è da allora entrato a far parte della storiografia americana, emergendo nel dibattito politico in momenti di particolare tensione tra i diversi poteri dello stato.
Protagonista dell’aneddoto è Benjamin Franklin, brillante figura di letterato, pubblicista, scienziato e diplomatico; unico tra i cosiddetti “padri fondatori” degli Stati Uniti ad aver contribuito alla stesura dei tre principali documenti politici e giuridici delle origini: gli Articoli della Confederazione del 1754, la Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 e la Costituzione del 1787, in cui confluirono, attraverso l’assidua corrispondenza con lo stesso Franklin, anche le idee del giurista napoletano Gaetano Filangieri. Solo la morte avvenuta nel 1790 impedì a Franklin di partecipare al glorioso coronamento di quest’ultima, consistente nei primi dieci emendamenti noti come Bill of Rights, la carta dei diritti inviolabili dell’individuo.
Secondo McHenry, il giorno della conclusione dei lavori della Convenzione, mentre usciva dalla Independence Hall di Philadelphia, Benjamin Franklin venne avvicinato da una signora: “Dunque, dottore, cosa abbiamo?” gli chiese, ansiosa di conoscere l’esito delle deliberazioni. “Una repubblica o una monarchia?”. E l’inventore del parafulmine rispose compassato: “Una repubblica, se siete in grado di mantenerla”.
Con arguta sobrietà, Franklin affidava ai futuri legislatori, forti del sostegno attivo dei cittadini elettori, l’arduo compito di proteggere la repubblica scelta dai costituenti, prevenendo il rischio di un’involuzione autoritaria, l’insorgere di una nuova tirannia. A republic, if you can keep it. E l’unico modo di proteggere la repubblica non poteva e non può risiedere che nell’esercizio rigoroso del diritto costituzionale, il rispetto del cosiddetto check and balance, quel complesso meccanismo di controllo e di bilanciamento reciproco, finalizzato a mantenere l’equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, secondo il principio della loro separazione teorizzato dall’Illuminismo.
Era stato Luigi Pio, segretario dell’ambasciata del Regno di Napoli a Parigi, a mettere in contatto Benjamin Franklin, allora ambasciatore nella capitale francese, con Gaetano Filangieri. Nel suo poderoso saggio La scienza della legislazione, che Franklin conosceva fin dalla pubblicazione del primo volume avvenuta nel 1780, e le cui dottrine dichiarava di apprezzare, il giurista napoletano, discutendo le prerogative del potere esecutivo, sosteneva l’utilità che lo stesso capo (re o presidente) potesse essere giudicato ed eventualmente “punito”, nonché la necessità di indicare a chi dovesse spettare tale compito.
Utilizzando simili argomenti, nel corso del dibattito assembleare a Philadelphia, Franklin sostenne la validità dell’impeachment per i capi dell’esecutivo, sia a livello federale che statale, e portò ad esempio la vicenda di Guglielmo V di Orange-Nassau, l’ultimo stadtholder, o luogotenente, della Repubblica delle Sette Province Unite (gli odierni Paesi Bassi), che era stato il primo paese a riconoscere l’indipendenza degli Stati Uniti. Durante il conflitto con la Gran Bretagna, che per la Repubblica olandese ebbe un esito catastrofico, molti cittadini cominciarono a sospettare che Guglielmo avesse stretto un accordo segreto con la Francia, e il sospetto continuò a crescere ogni giorno di più.
“Ma Guglielmo non poteva essere sottoposto ad impeachment – ricordò Franklin ai delegati – e nessuna indagine ebbe luogo. Guglielmo mantenne il suo posto, rafforzando il controllo sul proprio partito, mentre quello all’opposizione crebbe fino al punto da scatenare una protesta violenta”. Il conflitto interno indebolì lo Stato, che in breve divenne facile preda delle armate rivoluzionarie francesi, e nel 1795 cessò di esistere. “Se Guglielmo potesse essere stato sottoposto a impeachment – concluse Franklin – ci sarebbe stata una normale indagine, al termine della quale, se giudicato colpevole, Guglielmo sarebbe stato doverosamente punito; se assolto, avrebbe ristabilito la sua reputazione riconquistando la fiducia dei cittadini”. Ineccepibile.
La tesi di Franklin venne accolta con favore dalla maggioranza dei costituenti e il procedimento di impeachment entrò così nell’articolo II della Costituzione degli Stati Uniti. Alla Camera dei rappresentanti venne assegnato il compito di condurre le indagini e approvare gli articoli di impeachment a maggioranza semplice; al Senato quello di svolgere il processo sui capi d’imputazione trasmessi dalla Camera, e di emettere la sentenza con una maggioranza di due terzi. Le cause di impeachment, inizialmente limitate a reati di tradimento e corruzione (sull’esempio della normativa vigente nel Parlamento britannico per i ministri del re), dopo un lungo dibattito vennero estese con la formula “o altri crimini e misfatti”, che lasciava ai legislatori inquirenti un più ampio margine di discrezionalità.
Occorre ribadire che l’impeachment non rappresenta la rimozione dall’incarico di un capo dell’esecutivo, ma solo il suo rinvio a giudizio nell’aula del Senato, trasformato per l’occasione in corte di giustizia. Al di là degli specifici capi d’accusa, questo procedimento giuridico è come un termometro che segnala il venir meno dell’equilibrio nel rapporto tra i poteri dello Stato, un modo per prevenire danni irreparabili al tessuto democratico della nazione e difendere l’ordine costituzionale.
La costituzione degli Stati Uniti entrò in vigore il 4 marzo del 1789, e nei suoi 240 anni di storia nessun presidente è mai stato rimosso dalla sua carica. Fino al mese scorso solamente due presidenti erano stati sottoposti alla procedura di impeachment: Andrew Johnson nel 1868, Bill Clinton nel 1998, e in entrambi i casi vennero assolti dal Senato. Un altro presidente, Richard Nixon, avendo perso il sostegno di molti senatori del suo stesso partito, si dimise prima che la Camera votasse a favore dell’impeachment.
Donald Trump è diventato il terzo presidente a subire tale procedura. I due capi d’imputazione approvati dalla Camera dei rappresentanti – abuso di potere e ostruzione del Congresso – sono molti simili a quelli formulati per Richard Nixon, ma a differenza di questi il presidente Trump può ancora contare sul sostegno unanime dei senatori del suo partito. L’esito del giudizio, pertanto, appare ai più scontato. Resta da vedere fino a che punto il suo atteggiamento di sfida verso la Camera dei rappresentanti, l’attacco inusitato rivolto alla speaker nel giorno del voto, e la difesa a quadrato del suo partito, che potrebbe spingersi fino a cercare di ostruire un normale svolgimento del processo (per esempio non autorizzando la presenza in aula di testimoni e l’accoglienza di importanti documenti), resta da vedere come tutto ciò verrà percepito dall’opinione pubblica.
Resta da vedere, inoltre, fino a che punto l’attuale maggioranza conservatrice della Corte Suprema rimarrà compatta di fronte ai casi che sicuramente le verranno sottoposti su questioni di procedura processuale. In ogni caso l’impeachment del presidente, al di là delle specifiche accuse, segnala una crisi istituzionale in atto, il venir meno di quell’equilibrio tra i diversi poteri dello stato che i costituenti avevano strenuamente perseguito.
È difficile non vedere l’origine di questa crisi nell’atteggiamento aggressivo di sfida tenuto da Trump verso la Camera e i suoi leader, nella sua tracotanza e spregiudicatezza. E non da quando la Camera ha sollevato il tema dell’impeachment, ma dall’inizio del suo mandato presidenziale, fin dal suo discorso inaugurale tenuto a Washington il 20 gennaio 2017: “Questa cerimonia ha un significato particolare” disse, parlando dalla terrazza del Campidoglio alla presenza dei rappresentanti dei tre poteri dello stato, di fronte a migliaia di sostenitori e di semplici cittadini. “Perché oggi – aggiunse – non stiamo semplicemente trasferendo il potere da una amministrazione all’altra, da un partito all’altro. Oggi stiamo trasferendo il potere da Washington per restituirlo a voi, il popolo americano.”
Il populismo. O forse, in questo caso, il nazional-populismo, visto che il presidente ha affermato di non vedere cosa ci sia di sbagliato nel nazionalismo. Il populismo e la demagogia di Trump che riescono a celare agli occhi dei più la sua inadeguatezza, il suo subordinare anche la politica estera della nazione all’agenda elettorale, come dimostrano sia il caso Ucraina, per il quale è stato incriminato dal Congresso, sia i recenti avvenimenti in medio oriente. L’ordine di uccidere il generale Soleimani, la seconda personalità più importante del regime iraniano, rappresenta infatti una decisone che, portando gli Stati Uniti sull’orlo di una nuova guerra, va contro quanto lo stesso Trump aveva perseguito fino al mese scorso: un progressivo disimpegno militare dalla regione.
Ufficialmente tale decisione è stata giustificata citando la responsabilità del generale iraniano nei recenti attacchi a basi militari e all’ambasciata americana di Bagdad, ma non sono pochi i commentatori che l’hanno collegata all’imminenza del processo di impeachment (che passa, così, in secondo piano) e delle elezioni presidenziali, alla volontà di ricompattare la nazione in un momento di crisi politica e istituzionale. Non a caso il primo tweet del presidente dopo che la notizia dell’uccisione di Soleimani ha cominciato a circolare, non conteneva un commento articolato, ma il simbolo dell’unità della nazione: la bandiera a stelle e strisce.
Gaetano Filangieri considerava la nuova nazione d’oltreoceano “la patria degli eroi, l’asilo della libertà e l’ammirazione dell’universo”. Offrendogli il suo saggio, si rivolgeva a Franklin come a colui che, “combattendo cogli uomini e co’ dei, [aveva] tolti a Giove i suoi fulmini, e lo scettro a’ tiranni”. “Fin dall’infanzia, Filadelfia ha richiamati i miei sguardi” scriveva in una lettera all’amico americano nell’ottobre del 1782. Esprimendo il desiderio di recarsi là “per concorrere al gran Codice che si prepara nelle Provincie Unite d’America”. La malattia, e la morte prematura, a soli trentacinque anni, glielo impedirono. Ma il suo pensiero vive nella costituzione degli Stati Uniti. E avrebbe riempito di gioia i due corrispondenti sentire la presidente della Camera – prima donna, e prima italoamericana a ricoprire questa carica – ricordare ai rappresentanti di 50 Stati che la loro continuerà ad essere una repubblica, una grande repubblica democratica, if you can keep it.