Quel gusto sottile per l’horror che fa il bravo scrittore

Autore di “Oltre gli occhi solo la follia” e vincitore di numerosi concorsi, lo scrittore bitontino Michele Pastoressa ama le storie a tinte forti e si ispira a Poe e Hitchcock

Ray Bradbury era uno scrittore americano. Scomparso nel 2012, è famoso per il libro Fahrenheit 451. Scrisse nell’introduzione ad un suo volume di racconti, Il pigiama del gatto: “Non sono mai stato invidioso o geloso dei miei grandi amori, come F. Scott Fitzgerald, Melville, Poe, Wilde e tutti gli altri; ho sempre solo desiderato raggiungerli sugli scaffali delle biblioteche”.

E’ facile credere che non sia che un umilissimo sogno quello di Bradbury e che ogni scrittore dovrebbe pensarla in questo modo. Ma – come il lettore avrà senz’altro capito dopo averci riflettuto un po’ – non è questione di umiltà, ma di un desiderio, espresso magari quando si è piccoli e si è appena concluso un libro. Lo si è letto tutto d’un fiato oppure lentamente, per giorni, fino ad assaporarne totalmente ogni attimo. E alla fine si è detto “voglio scrivere anch’io” o, per esempio, “voglio far sentire qualcun altro così bene”.

Ma dove vivono questi scrittori? Come sono fatti? Possibile che siano come noi? Ebbene sì! Hanno braccia, ossa, organi, occhi, denti, a volte perfino i capelli! E possono vivere proprio a Bitonto, come Michele Pastoressa.

 

Lo scrittore bitontino Michele Pastoressa

Nato nel 1977, con due sorelle maggiori, circondato da libri tutto il tempo, ha iniziato a scrivere sin dal liceo scientifico di tutto: poesie, racconti, pensieri. Ha un carattere introverso, adora leggere e viaggiare. Come quasi ogni scrittore italiano del passato, laureato in Giurisprudenza, ha sempre anteposto la letteratura alla carriera da legale.

Ha scritto nel 2011 il libro di racconti Oltre gli occhi solo la follia, che ha ottenuto diversi riconoscimenti letterari. Nel 2012 ha partecipato ad un concorso indetto dalla casa editrice MonteCovello, qualificandosi terzo con il racconto Piccoli delitti alla luce del sole. È stato pubblicato nell’antologia 1000 parole (il numero massimo richiesto dei termini battuti) e nel 2013, I colori dell’Estate, per il suo volume Nero, selezionava sei racconti horror, tra i quali il suo Il sonaglio.

Nel 2017 partecipa alla V edizione di MonteCovello, rientrando tra i primi vincitori con Al di là del cancello, pubblicato nel volume 1000 parole. La stessa casa editrice ha indetto nel 2018 un altro concorso nazionale, in cui i partecipanti dovevano scrivere racconti lunghi massimo settanta pagine. Tra i sette finalisti c’è il nostro scrittore con Le radici dell’inganno.

A breve, Michele Pastoressa pubblicherà il suo primo romanzo La risata del diavolo e il suo nuovo volume di racconti La felicità del boia. Per capire di più sulle ragioni che lo hanno spinto a dedicarsi alla scrittura e a un particolare genere letterario lo abbiamo intervistato.

Per quale motivo hai iniziato a scrivere?

Perché mi piace. Ho un carattere introverso e non ho molta vita sociale, nel senso che preferisco restare a casa, scrivere o leggere, vedere un bel film, piuttosto che uscire e andare in qualche pub. Sono decisamente di poche parole. Mi dedico alla scrittura anche perché tutto quello che non dico lo scrivo.

Come hai iniziato a pubblicare?

Tutto è nato quando decisi di partecipare a un concorso nel 2010, avendo un bel po’ di racconti salvati sul computer. Scadeva credo a marzo, ne scrissi altri e arrivai a sette. Li feci leggere a familiari e amici – come faccio sempre – che approvarono. E, allora, li inviai al concorso, concorrendo con libri già pubblicati, e vinsi il primo posto. Acquisii una certa autostima e da quel momento iniziai ad impegnarmi. In realtà, è cominciato tutto per gioco. Ora sono quasi nove anni che scrivo.

I tuoi sono prevalentemente racconti forti e noir…

Sì. E’ un modo catartico per tirare fuori tutto il marcio che abbiamo dentro. Quando sto giù di morale, scrivo e mi sento meglio. Così in ogni momento difficile è un modo per non pensare ed entrare in un altro mondo. È una strategia per evadere da una vita a volte non facile. È una medicina. Ma alla fine sono noir in senso lato. Non c’è un finale consolatorio, diversamente dal giallo, e non è netta la distinzione tra buono e cattivo. Spesso nell’horror tutto è raccontato dal punto di vista dell’antagonista e si finisce per tifare per lui.

Come ti sei avvicinato al mondo della lettura e, poi, alla scrittura?

Innanzitutto, grazie a mia sorella. Oltre a dipingere, era una grande lettrice. Aveva una stanza piena di libri e vederla ogni giorno leggere, anche quando ero un ragazzino delle medie, ti invogliava ad imitarla. Anche i miei insegnanti sono stati importanti nella mia formazione letteraria: Vittoria Gattulli non solo ci faceva leggere obbligatoriamente dei libri, ma d’estate ci consegnava una lista con diversi autori, tra cui Giulio Verne o Emilio Salgari. E lì mi si è aperto un mondo. Magari adesso sono superati, ma durante l’adolescenza stimolano la fantasia. Le sono molto grato per questo. L’ho anche inserita tra i ringraziamenti del libro, insieme al mio insegnate di liceo Giovanni Rossiello. Sono importanti gli insegnanti, soprattutto quelli di lettere. E soprattutto per gli scrittori che, si presume, abbiano letto molto e leggano molto. Da quando ho iniziato a scrivere seriamente tendo a leggere di meno per una questione di originalità e per evitare di scrivere qualcosa di già sentito.

Una scena cult di Psyco, interpretata da Janet Leigh

Quali sono i tuoi scrittori preferiti?

Ovviamente, amo molto i classici, soprattutto la letteratura horror. Edgar Allan Poe è un passaggio obbligato: ho visto molti film tratti dai suoi racconti. Hitchcock è il mio esempio preferito, a dire il vero. Ho amato molto “Dracula” di Bram Stoker, Mary Shelley, la “Malombra” di Fogazzaro. Ma anche autori contemporanei, come Dan Brown o Eco. Pirandello mi piaceva molto alle superiori, così come Svevo per il romanzo psicologico. Invece, uno che mi stava sullo stomaco era d’Annunzio. Come poeta è inarrivabile, ma come scrittore non mi piace. Ho letto “Il fuoco” e ad un certo punto impiega pagine e pagine per descrivere un amplesso, tutte le carezze tra due amanti. Ho chiuso il libro! Anche Verga mi piaceva molto. Pensa che il primo romanzo gotico è nato in Puglia e si intitola “Il castello di Otranto”. È di un autore inglese che ha preferito non ambientare questa breve storia dalle sue parti, ma qui da noi. È fantastico!

Perché dici che Hitchcock è il tuo esempio?

Perché mi piace molto come costruisce la trama. Spesso ci sono dei particolari all’inizio del film che possono sembrare messi lì per caso, ma alla fine capisci che non è così. Anch’io dissemino tanti dettagli durante la storia. Il lettore distratto ignora che ritornino alla fine del racconto. Poi adoro la suspense e i dialoghi dei film di Hitchcock. Sono perfetti, non c’è niente fuori posto. Il mio film preferito è “Rebecca, la prima moglie”; l’ho anche rivisto di recente. Mi piacciono anche “Vertigo, la donna che visse due volte”, “Il delitto perfetto”, “Psyco”, “Gli uccelli”, “La finestra sul cortile”. Quelli di solo spionaggio meno. Da lui ho imparato a ridurre. Hitchcock diceva che la durata di un film doveva essere proporzionata alla vescica dello spettatore. A me piace perché racconta quello che va raccontato, senza sprechi. E io, infatti, non mi dilungo nelle descrizioni e se lo faccio è perché è utile al racconto. I dialoghi devono essere ben serrati e non devono annoiare il lettore. Ho anche imparato da Hitchcock ad usare il colpo di scena o il doppio colpo di scena, perché alla fine chi legge deve essere spiazzato.

Una scena di “Gli uccelli” di Hitchcock, l’autore più amato da Michele Pastoressa

Nei tuoi racconti usi molto l’io narrante. Come mai?

Perché ogni volta che leggo libri, scritti in prima persona, mi immedesimo meglio e mi piace molto di più. Anche se ammetto essere più difficile, specialmente perché il personaggio che racconta non può essere onnisciente e, allora, bisogna trovare il sistema per fargli raccontare anche quello che non può sapere e farglielo scoprire per caso. Tutto deve avvenire sotto ai suoi occhi: questo è il limite. Poi, mi piace che il lettore sin dall’inizio sia immerso nella storia e perciò nell’incipit già c’è una rivelazione o qualcosa che attiri.

Spesso gli assassini sono i familiari delle vittime.

Sì, perché è quasi sempre così. E la cronaca ci insegna che i crimini avvengono soprattutto nelle mura domestiche. In apparenza la famiglia è perfetta e invece possono accadere cose tremende. Spesso non indico neppure il luogo o un tempo preciso, perché il male non ha cittadinanza. E così il lettore può anche immedesimarsi più facilmente.

Per concludere, cosa consiglia ai neoscrittori o agli aspiranti scrittori?

Di rileggere tutto quello che si è scritto, anche se è noiosissimo, e sottoporre tutto ai parenti o agli amici e ascoltare i loro consigli. Magari per lo scrittore è una storia perfetta, ma, innanzitutto, si deve tener conto di chi legge. Io faccio così: loro mi danno l’ok ed è fatta. È la voce del popolo quella che conta. E se scrivi qualcosa di già sentito, se ne accorge. Anche perché ora scrivono tutti e pubblicano qualunque cosa. E’ una moda. Ma mica possono essere tutti geni!

 

 

 

 

Nella foto in alto, un frame di “Dracula” di Bram Stoker’s, uno degli autori horror più apprezzati dallo scrittore bitontino