C’era una volta la terza pagina. C’era una volta la possibilità di leggere, sullo stesso giornale, un dì Parise, l’altro Pasolini e l’altro ancora Sciascia. Vero che questa linea, quella del Corriere della Sera di Piero Ottone, fece perdere alla redazione di via Solferino un grande come Indro Montanelli (che poi radunò pure attorno a sé un bel cenacolo: dal filosofo Nicola Abbagnano a Guido Piovene e altri). Vero, però, anche che un’esperienza come quella resta più o meno irripetibile (magari un domani parleranno della Repubblica dei Ceronetti e dei Citati), episodio davvero a metà tra giornalismo e letteratura. Si pensi alla figura di un Dino Buzzati: cronista ma pure scrittore e artista. Dove i confini? Non solo: giusti i confini?
Si è parlato di questo, qualche giorno fa, nelle Marche, al festival del Giornalismo culturale di Urbino e Pesaro, con incontri quest’anno anche a Fano. Una realtà consolidata ormai da tempo e messa a punto grazie alle intuizioni di Giorgio Zanchini e Lella Mazzoli.
Cultura e mutate realtà sociologiche, cultura e narrazione della contemporaneità, cultura ed evoluzione delle mentalità. Tante le prospettive esaminate e tanti i panel previsti all’interno di un cartellone fitto di eventi e prestigiose partecipazioni. Negli anni il festival ha egregiamente esercitato la sua capacità di approfondimento attorno ai destini e alle sfide di questa particolare branca del giornalismo. Momenti certo anche meramente culturali già in sé, veri e propri eventi, oppure anche sezioni professionalmente stimolanti per colleghi che in gran numero giungono da tutta Italia per l’occasione.
Un settore davvero particolare, quello della cronaca culturale. Che poi solo cronaca non è e non può essere: piuttosto lettura dei vari ambiti culturali italiani e non solo oppure necessaria interpretazione attorno a solidità e limiti delle strutture legate alla cultura, siano esse meramente professionali (luogo e spazio della terza pagina oggi, produttività del genere, gradimento del lettore e altro) o siano legate a ciò che si osserva (riflessioni sui luoghi culturali italiani, stanchezza o propulsione dei momenti di aggregazione – festival, premi, rassegne, mostre -, il vasto tema dell’editoria e della divulgazione da parte del giornalismo culturale stesso).
Giornalismo e critica: altro tema affrontato, con la commistione di stili e cifre sempre in agguato per un giornalista che spesso si fa anche narratore e scrittore, scavalcando arbitrariamente i confini oppure arricchendo con acume di percezioni, dettagli e sguardi il suo scritto. Non capita di rado di leggere testi di critica o semplicemente recensioni che sembrano già in sé piccole opere di saggistica (laddove la recensione è attorno ad un saggio, di qualsiasi argomento) o di creatività letteraria (nel caso di dissertazione su lavori di poesia o narrativa). Questo capita soprattutto quando l’estensore di un pezzo viva di sue gratificazioni oltre lo stretto ambito del mestiere, area del resto oggi sempre meno sicura per il giornalista contemporaneo, in questo caso di qualsiasi ambito.
Al momento, infatti, il cronista si guarda necessariamente oltre la sua professione, per tante ragioni. E così, il giornalista culturale di argomento storico-letterario appare nel mercato editoriale sempre più egli stesso come storiografo o scrittore-poeta.
Una specificità, invero, antica, a parer nostro dettata già dalla storia stessa della terza pagina in sé: sin dalla sua nascita e via via fino agli esempi citati in apertura di pezzo. Una specie di autonomia è forse ancora rappresentata dalla critica cinematografica o artistica. Il critico di cinema difficilmente diventa regista, magari meno difficilmente sceneggiatore. Il critico d’arte è già per sua natura una figura distinta e distante dallo storico dell’arte, eppure spesso li si confonde. Ancora più lontano il giornalista critico d’arte è dall’artista, molto meno lontano dalla figura invece del curatore di mostre, con cui anzi spesso coincide.
Ma si è parlato davvero di molto altro al festival. Notevole la presenza di grandi personaggi. Nei soli due giorni finali, ci è capitato di ascoltare la viva voce, sui più svariati temi, di Vittorio Sgarbi, Quirino Principe, Pupi Avati, Liliana Segre, Syusy Blady (non presente fisicamente all’ultimo ma grazie ad un collegamento Skype).
Sgarbi ha ricordato con nostalgia la critica d’arte che appariva un tempo sui giornali, richiamando su tutti i nomi di Roberto Longhi, Federico Zeri (con cui è stato peraltro acerrimo nemico, occorre dirlo) e Giovanni Testori. Principe, straordinaria figura di intellettuale novecentesco, “reazionario e luciferino”, come dice di sé, noto per aver tradotto e importato Tolkien in Italia, ha parlato attorno alla valutazione del bello oggi sui nostri giornali, eleggendo a tronfia illusione colta la per lui esagerata profusione pubblicistica di materiale “sedicente” culturale, spesso allegato ai quotidiani.
Pupi Avati ha amabilmente, e con grande maestria e sagacia comunicativa, colloquiato attorno alla sua carriera e agli incontri determinanti per la riuscita dei suoi film. Liliana Segre, senatrice a vita, da ragazzina drammaticamente deportata ad Auschwitz dai nazisti per le sue origini ebraiche, ha discusso attorno al tema della memoria, sempre più irrinunciabile ai tempi dell’oblio di certe situazioni storiche: in questo la stampa che pensa, quella culturale, può avere secondo lei un ruolo determinante.
Syusy Blady è intervenuta alla presentazione di un suo interessante film dedicato al personaggio storico femminile di Matilde di Canossa, felice esperimento di divulgazione storica affrontata con il sorriso e l’ironia, come nel suo proverbiale e apprezzato stile. Un’occasione, allora, quella di Pesaro per approfondire determinate tematiche da parte di chi nel giornalismo culturale crede. Una postilla. Qualcosa deve cambiare, in provincia soprattutto. Un episodio. Anni fa si presentava un romanzo e il sottoscritto, conscio della legittimità all’esistenza della specificità del giornalismo culturale (senza che questo faccia acquisire a chi ne sia professionalmente interprete chissà quali meriti “ipso facto”), dovendo intervenire come moderatore del dibattito, osò definirsi nel comunicato stampa ai colleghi, appunto, “giornalista culturale”.
Mal gliene incolse: quasi tutte le redazioni locali cassarono l’aggettivo e lasciarono (Deo gratias) almeno il sostantivo. Sembra quasi che possa esistere il giornalista sportivo, quello politico o economico, mentre invece quello culturale, per il sol fatto di chiamarsi così, ha la vita difficile e si vede cancellare anche la particolare sensibilità propria del suo approccio alla professione. Quasi che “culturale” significhi interpretare con avocazione e sussiego in sé la cultura e non provare (magari fallibilmente) a raccontarla. Cresceremo, ne siamo sicuri.