Seconda domenica dopo Pasqua. Iniziano con quella dedicata a san Francesco da Paola le domenicali processioni, concreta testimonianza, soprattutto un tempo, di una fede semplice e sincera ma anche motivo di attrazione e distrazione dalla monotona vita quotidiana, che si svolgeva nel chiuso della casa per le donne e del luogo di lavoro per gli uomini.
L’occasione per indossare il vestito nuovo e aspettare, magari seduti a una sedia portata da casa, lungo i marciapiedi, meglio quelli del corso, lo stendardo preceduto dalla bassa banda e da una schiera di bambini, che saltellando le facevano corona.
E poi lo scorrere lungo e ordinato delle due file di devoti, confratelli o consorelle con torce accese tra le mani, recitando preghiere o, più umanamente, chiacchierando a coppie.
Sì perché “la cocchie se vàite a la precessiàune”: era l’occasione, infatti, per trascorrere alcune ore insieme, camminando adagio, fermandosi a lungo nell’attesa che i portatori del santo si decidessero a fare qualche passo avanti. Aspettativa che risultava vana dove c’era gente: il popolo seduto o in piedi, che aveva tanto atteso e fatto commenti su quanti avanzavano in fila, aveva ora diritto di accennare un segno di croce, lanciare qualche bacio verso la sacra immagine e recitare una preghiera.
La processione era – ed è ancora – anche un momento speciale per i portatori, che trovavano il modo di farsi notare per la loro prestanza e per il privilegio di cui godevano.
Oggi le processioni, forme pietistiche di antichissima origine, non hanno più molto seguito. Ma in alcuni casi non è proprio così: la devozione verso santi che hanno un legame particolare con la città (i santi Medici, sant’Antonio, san Francesco) resiste ancora, come, pure, si estende ad altre figure consacrate (si pensi a san Pio).
Ebbene, almeno millecinquecento confratelli e consorelle, senza contare altre centinaia di devoti, si affollano attorno alla statua del santo di Paola nel momento in cui varca la soglia della chiesa. E non c’è verso, a memoria di molti, di stabilire un certo ordine, di far avviare la processione in maniera normale: devote, devoti, consorelle, confratelli. Tutti devono assistere all’uscita di san Francesco dalla chiesa e non pochi vogliono conservare il privilegio di avanzare assieme alla statua. Servirà ad acquistare particolari indulgenze?
Lentamente, quindi, la processione si snoda per le strade del centro, in un ordine faticosamente conquistato: tutti in cammino, diretti, pur tra lunghe pause, alla meta, dove depositare la candela che ciascuno ha tentato di tene- re accesa per l’intera durata del corteo. Il rito processionale per i confratelli è un obbligo, un atto devozionale e morale allo stesso tempo. Un atto a cui, nei tempi andati, non ci si poteva sottrarre anche perché san Francesco si sarebbe vendicato colpendo i “disobbedienti” con il suo bastone. Il timore di Dio e dei santi diventava terrore di Dio e dei santi.
Seicento anni di storia ci separano dalla nascita di Francesco (Paola, 1416), eremita eppur fondatore dell’ordine religioso dei Minimi, meridionale eppure noto per la sua vita penitenziale e prodigiosa sino in Francia, dove fu obbligato da papa Sisto IV ad assistere Luigi XI, gravemente malato. Qui rimase per venticinque anni sino alla morte (1507), favorendo il miglioramento delle relazioni tra papato e regno di Francia.
La fama di questo monaco dalla grossa corporatura, con barba e capelli lunghi che non tagliava mai, si diffuse subito in tutto il sud, dove Francesco era chiamato continuamente a fondare nuovi conventi in Calabria e in altre località. Sei anni dopo la sua morte, papa Leone X lo proclamò beato e nel 1519 lo canonizzò.
Bitonto, grazie ai francescani osservanti della Chinisa cominciò a diffonderne il culto e già nel 1615 il ministro provinciale dei Minimi, il bitontino fra’ Geronimo Piscitelli accolse con favore le richieste di numerosi devoti, portando a Bitonto i primi frati e ponendo le basi per la costruzione della nuova chiesa e del convento a cui contribuì notevolmente Berardino Farano.
I frati, umili e molto vicini al popolo, riuscirono ad inculcare una forte devo- zione verso il santo di Paola per quasi trecento anni. Probabilmente il primo grande testimone fu un frate che giunto da Martina Franca visse per tre decenni a Bitonto. Si chiamava Bonaventura, anche lui autore di prodigi, un anticipatore di Padre Pio, insomma: attirava presso la sua cella nobili e plebei, ricchi e poveri a cui non cessava mai di concedere grazie e consolazioni. Tanto fu il clamore che i frati suscitarono e il consenso che meritarono, da ottenere nel 1640 la proclamazione di Francesco da Paola a compatrono della città.
Dopo la soppressione dell’ordine religioso, il culto verso il santo di Paola non cessò di esistere presso la chiesa per tutto l’Ottocento. Sul finire del secolo (1897) alcuni devoti organizzarono una pia associazione, approvata dal vescovo De Stefano nel 1897, i cui membri, da subito numerosissimi, assunsero il sacco e lo scapolare dello stesso colore marrone dell’abito del santo, impegnandosi ad onorarlo con opere di cristiana pietà, con il mutuo soccorso e con il sostegno all’educazione morale e intellettuale dell’infanzia e dell’adolescenza.