Sentieri di fede, racconti ricamati con le parole. Fili di opere, movenze e sguardi tessuti in un ordito narrativo composito. Nugoli di tessere incastonate nel grande mosaico della memoria; fuoco vivo, cangiante, perpetuo per chi si impegna a mantenerne l’essenza. Poi la fotografia, il prezioso medium che concilia il digitale con l’analogico e che dona immortalità ad un groviglio di storie, sulle quali si abbatterebbe altrimenti la scure del tempo, rendendole una testimonianza tangibile e vivida.

Se l’arte fotografica preserva da sempre un certo gusto per l’aneddotica, la perizia dei dettagli e la ricerca del particolare restano una prerogativa rilevante nel processo di osservazione. Dove vanno i santi? non è solo la domanda che ciascun fedele si pone per ricevere informazioni sull’esatta ubicazione del corteo processionale, ma la ricerca di un orizzonte di senso, di un futuro, di una prospettiva sulla quale si concentra Cinzia Cantatore.
Il suo lavoro di ricognizione sulle confraternite ruvesi si configura come un cammino spirituale intriso di curiosità: “Mi è stato concesso di vivere con loro momenti intimi e riservati a pochi, nel rispetto della sacralità e della solennità del rito. Nulla è stato mai forzato, tutto è stato sempre riportato nella propria forza spontanea“, spiega la fotografa. La potenza evocativa di ogni scatto è corredata di un fitto ornato di pensieri, che si dipanano con fluidità nel catalogo fotografico, recante il medesimo titolo, realizzato con il patrocinio della Fondazione Pro Loco Italia: “nel tempo trascorso negli ambienti sacri ho individuato varie figure che svolgevano ruoli fondamentali nelle fasi di preparazione e ho chiesto loro di descrivere il proprio slancio spirituale, confidandomi da cosa si originasse il sentimento devozionale“, chiarisce Cantatore.
La sua indagine retrospettiva si muove nell’alveo di una tradizione che condensa patrimoni materiali e immateriali lasciandoli convergere in un prodotto unico e magmatico, al cui interno la gestualità diviene un aspetto fondamentale per un’attenta decodificazione espressiva. Ogni singolo gesto di cura e devozione non può ricondursi ad un semplicistico motivo di fede, ma deve rinsaldare il legame d’amore con una tradizione che perdura nel tempo, fatta di operose mani che si intrecciano di generazione in generazione restituendo il dono del passato ad un presente che ha l’obbligo di non dimenticarsene. Il passato non è accettazione passiva degli accadimenti pregressi al nostro stare al mondo, bensì un inesauribile spunto di riflessione e fascinosa fonte di scoperta. Esso va scrutato, analizzato, approfondito: nessuno può estirpare le sue radici.
Dinanzi al passato ci si interroga e, all’occorrenza, ci si trasforma non trascurando mai l’anelito di spiritualità che contraddistingue il nostro essere. L’espediente fotografico diviene allora un terreno fecondo che lascia germogliare storie destinate ad imprimersi nella memoria collettiva, capaci di fermare il tempo quando sembra stia sfuggendo di mano. La genesi del reportage offre numerose possibilità di racconto che non si cristallizzano nell’ordinario attraverso il susseguirsi concatenato degli eventi, ma tendono allo stra-ordinario esplicandosi in una molteplicità di linguaggi espressivi.
In questa visione si inserisce il lavoro editoriale sulla Settimana Santa rubastina, dove la vitalità del culto si mescola ad una dimensione più schiettamente folkloristica che, svincolandosi talvolta dal rigore religioso, abbraccia la sfera emozionale grazie ad uno scrigno di suggestioni e di ricordi, parte imperitura del background del singolo e dell’intera comunità. Che sia una melodia suonata dalla banda o un viso segnato dalla commozione, l’odore di una candela o l’incedere mesto di un simulacro, l’intelaiatura del racconto è cucita sui ricordi di sé bambina tra i quali Cinzia ama disperdersi e districarsi arrivando fino ad oggi.
La scelta del bianco e nero, perciò, scaturisce dall’esigenza di rendere omogeneo un lavoro effettuato in diverse condizioni luminose e per liberare il gesto da un atto specifico. La volontà di emancipare la gestualità da significati convenzionali, conservandone parimenti il senso originario, si misura con il desiderio di cogliere l’eredità di una tradizione antica che filtra nella quotidianità attraverso gli occhi dei contemporanei. L’assenza del colore non rappresenta quindi una criticità, bensì un metodo ossimorico di approccio al reale, nostalgico e al contempo innovativo, che rammenta i concetti astratti di cura, premura e laboriosità racchiusi nell’animo umano.
Dove vanno i santi? risponde altresì ad un ambizioso progetto nato casualmente tre anni fa da una chiacchierata con un collega in merito ad analogie e diversità tra i riti pasquali, che aveva comportato l’accumulo e la ‘sedimentazione’ di un ampio materiale fotografico. L’apporto documentale della Cantatore viaggia su un duplice binario, editoriale – di cui si è parlato finora – ed espositivo. Ubicato nel cuore del nucleo antico, un piccolo locale in pietra – sito in via Vittorio Veneto, 1 e con un timido affaccio su piazza Menotti Garibaldi – ospita un percorso fotografico che illustra le diverse fasi di preparazione alla Settimana Santa.
La mostra, organizzata in collaborazione con UNPLI Puglia e Fondazione Pro Loco Italia, è un “grande backstage teatrale dove le mani si intrecciano e operano instancabilmente“, come la stessa fotografa precisa. Attraverso il resoconto fotografico, Cinzia fornisce al visitatore l’opportunità di sbirciare i retroscena della complessa macchina processionale, dietro i quali spesso si cela un lavoro minuzioso e silente. Non è un caso, infatti, che la narrazione si interrompa prima del portone di una chiesa, prima cioè che quel lavoro resti visibile a tutti. A questa imprescindibile operazione di consegna e di recupero ci pensano le mani. Quelle mani che creano sapienti trame a difesa della tradizione.