Quello che il Bif&st quest’anno ha dedicato alla casa di produzione statunitense A24 è a tutti gli effetti il primo vero omaggio che un festival di cinema italiano rende a quella che è sicuramente una delle esperienze produttive e distributive più innovative degli ultimi vent’anni di cinema, cominciando con le proiezioni di Everything Everywhere All at Once di Daniel Kwan e e Daniel Scheinert e Lady Bird di Greta Gerwig, per terminare con Civil War di Alex Garland e La zona d’interesse di Jonathan Glazer. Diverse declinazioni di autorialità sotto una bandiera comune, quella di un cinema intelligente quanto “cool”.
Per chi se lo stesse chiedendo, il nome dell’azienda fondata a New York il 20 agosto 2012 da Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges, fa riferimento proprio all’autostrada A24 Roma-Teramo, su cui Katz pare stesse viaggiando quando gli venne in mente l’idea di fondare la sua casa di produzione e distribuzione cinematografica. Leggenda vuole, infatti, che un giorno, tornando da Teramo, dove per un periodo aveva lavorato, gli apparve di fronte la catena del Gran Sasso, che fu fonte d’ispirazione per questa sua nuova avventura imprenditoriale.
Per essere più seri, però, andrebbe invece ricordato il contesto in cui nasce questa singolare e fortunata esperienza, con lo scopo originario di attirare un pubblico giovane, di nativi digitali, disabituati a frequentare i multisala e interessati a un cinema che in qualche modo potesse contribuire a creare una comunità di spettatori fedeli, riuniti attorno a un gusto più o meno omogeneo, puntando su di un settore di distribuzione molto specifico, allora in gran parte costruito attorno a spettatori più anziani e più rarefatti. Il leader nel campo a quel tempo era ancora Harvey Weinstein, a pochi anni dalla sua caduta a causa del #MeToo. Il “marchio” The Weinstein Company poteva ancora assicurare un enorme successo al botteghino e fare incetta di riconoscimenti con film medio-borghesi teoricamente “indipendenti” come Il discorso del re (2010) e Silver Linings Playbook (2012).

La recessione globale, però, causò anche negli Stati Uniti la chiusura di tante case di produzione indipendenti ed è proprio in quel vuoto che la A24 decise di inserirsi, nel momento in cui i distributori specializzati stavano scomparendo o stavano diventando più avversi al rischio, e quindi c’erano tanti film interessanti, atipici, che avevano bisogno di una nuova casa al di fuori dei grandi studios. Nel febbraio 2013, la prima uscita di A24, la commedia A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III di Roman Coppola passò senza lasciare traccia, ma il nome della compagnia statunitense riuscì comunque a imporsi con un trio di sofisticate opere rivolte quasi esclusivamente ai più giovani: il provocatorio Spring Breakers di Harmony Korine, lo spavaldo film true crime The Bling Ring di Sofia Coppola e il tenero racconto liceale di James Ponsoldt con The Spectacular Now. Ed è forse proprio il film di Korine quello che fin dall’inizio condensò al meglio l’approccio di A24, attirando i giovani spettatori in sala grazie alla presenza di idoli generazionali come Selena Gomez e Vanessa Hudgens, spesso associati a un tipo di intrattenimento innocuo e patinato, per poi invece consegnare al pubblico una storia di sesso, violenza nichilista, raccontata attraverso una narrazione volutamente libera e non-lineare.

Quello che ci si chiede oggi, però, alla luce di una evidente standardizzazione della produzione e di campagne marketing spesso aggressive, che rischiano di far passare in secondo piano l’effettiva qualità dei film proposti, è quanto quella della A24 sia diventata una mera “formula” commerciale, uno specchietto per le allodole che tenta di vendere al pubblico non tanto un buon film, quanto una garanzia di intellettualità, di coolness, un lasciapassare per sentirsi colti quando si intavola una conversazione con gli amici. Dopo Dream Scenario, ad esempio, sembra che la A24 abbia deciso – spinta dagli ottimi incassi – di puntare sempre più sui thriller dalle tinte oscure, molto ancorati nella contemporaneità, nella digitalizzazione e nell’era dell’intelligenza artificiale, seguendo, dal punto di vista estetico, il modello aureo codificato da Ari Aster. Il risultato, nel peggiore dei casi, sono film sempre più glaciali, disumanizzati, appesantiti da simbolismi e metafore, che si compiacciono del proprio disegno teorico e finiscono per “urlare” in faccia allo spettatore le proprie ambizioni autoriali.

Eppure, sarebbe disonesto non ammettere che sono proprio questi film a raccontare al meglio determinate tendenze del pubblico (e quindi della società). Ne è un esempio perfetto il nuovissimo titolo A24 If I Had Legs I’d Kick You, presentato all’ultimo festival di Berlino e ancora senza una data di uscita in Italia. Mary Bronstein, la regista del film, cerca deliberatamente di stressare il pubblico, di condurlo sull’orlo di una crisi di nervi, e, ancora più esplicitamente, cerca di stupirlo con la sua ostentata spavalderia registica, con la noncuranza rispetto alle regole narrative ed estetiche del cinema tradizionale. Insomma, ci troviamo davanti – forse per la prima volta nella storia della casa di produzione statunitense – ad un’autrice pienamente consapevole di star realizzando “un film della A24”, con tutti i parossismi che ne conseguono.
Ma il suo è anche un film perfettamente in linea con lo spirito del tempo, come non accade per tante altre opere: non solo dal punto di vista femminista, ma anche perché è un film in cui tutto è un trauma, tutto è iperpsicologizzato, in cui ogni esperienza umana deve essere necessariamente posta sotto il controllo terapeutico. Il problema, ancora una volta, è semmai il linguaggio, la richiesta che viene fatta allo spettatore di un’adesione tutta ideologica a ciò che viene proposto su schermo, alla valanga inarrestabile della sua artificiosità e della sua eccessiva, narcisistica, esasperazione. Perché la questione non è ovviamente solo da che parte ci si pone rispetto a un tema, ma, come diceva qualcuno, come si articola questa posizione. Su questo sarebbe giusto aprire un dibattito e non è detto che iniziative come quelle del Bif&st non possano aiutare a farlo, valorizzando quanto di buono è stato fatto (tanto) ma anche contestualizzando al meglio un’esperienza produttiva che, nel bene e nel male, sta cambiando il modo in cui le nuove generazioni di spettatori si approcciano al cinema.