Una sera stavo presentando il mio ultimo lavoro, quando – durante la discussione finale – un intervento mi ha lasciato interdetto. S’era fatto tardi e c’era molta confusione, sicché non so se ho ben capito quale fosse il senso di quell’intervento, ma provo a sintetizzarlo, sperando di non averlo frainteso.
Dunque: si parlava dell’attività di profilazione messo in atto dai giganti dei social, grazie alla quale intorno a ciascuno di noi viene, appunto, costruito un profilo; ebbene questa attività – a giudizio del mio interlocutore – andava considerata come un rilevante valore aggiunto in quanto aiuta a districarsi nella complessità dell’esistenza, aiuta a capirsi meglio, a meglio comprendere quali sono i nostri bisogni, i nostri desideri, le nostre aspirazioni. Aiuta a capire meglio, in una parola, chi siamo.
Già, chi siamo? Ebbene, per i giganti dei social, non mi pare possano esserci dubbi al riguardo, siamo dei consumatori. E i consumatori vanno aiutati, vanno indirizzati, vanno accompagnati, abilitati, curati, anestetizzati e al fine (haimè!) sostituiti nella loro essenza di uomini liberi. Non siamo più degli esseri autonomi, con un nostro cervello, con delle idee nostre, con una nostra personalissima visione della vita, con la nostra voglia di agire, di sbagliare, di cambiare rotta, di tornare indietro. No, non più.
L’era dell’Homo Sapiens è tramontata
L’era dell’Homo Sapiens è definitivamente tramontata. “Il penso, dunque sono” è scomparso dall’orizzonte della nostra immaginazione. Viviamo nell’era del consumo, pertanto il nuovo adagio è “Consumo, dunque sono” (Zygmunt Bauman): il nostro immaginario, intelligentemente quanto inesorabilmente, è stato piano piano colonizzato; la ricerca della felicità s’è malaguramente trasformata nella ricerca e acquisizione di più cose materiali possibili. La massima è: produrre produrre produrre perché dobbiamo consumare consumare consumare.
Se questo è il fine che abbiamo condiviso, i giganti del social allora sì che ci stanno facendo un grande favore, come credo volesse intendere il mio interlocutore durante quella presentazione.
Siamo etero-diretti. Forse da sempre, ma prima era la politica, il potere delle caste alte: politiche, economiche, religiose, la burocrazia di stato; oggi siamo nelle mani dei guru del marketing. Non è certo un caso che l’industria della pubblicità, nel mondo, ha un volume d’affari secondo soltanto a quella delle armi. Già oggi molte nostre scelte sono nostre soltanto in apparenza: dalla maglia che indossiamo all’automobile che guidiamo, non siamo noi che scegliamo loro, sono loro che scelgono noi. L’etero-direzione, qui, funziona alla perfezione. Ma non è finita. Perché sta entrando prepotentemente in campo l’intelligenza artificiale.
Funzione-marketing e Intelligenza Artificiale sono una macchina da guerra
La funzione-marketing (FM) che sovrintende a non poche nostre scelte di carattere materiale, ma non solo, ha, e avrà sempre più, dalla sua parte il supporto di una spalla dalle straordinarie potenzialità, l’intelligenza artificiale (IA), appunto. La FM al lavoro insieme all’IA produce il seguente risultato: una possente, invincibile macchina da guerra.
Noi moderni immaginiamo e viviamo l’esistenza come se, nella sostanza, fosse una perenne commedia, spesso comica, ma per lo più tragica, che ci costringe a prendere continuamente decisioni su ogni aspetto del mondo che ci circonda; essendo peraltro intimamente convinti che sia in nostro completo possesso il potere di prendere o meno la decisione giusta. Anche se questa impostazione va letta – come s’è detto – alla luce dell’azione della FM.
Ebbene: l’avvento dell’età della IA sta cambiando completamente questo scenario. Quando sarà l’IA a decidere tutto, quando sarà lei, e non noi, a decidere cosa sia meglio fare; quando sarà l’IA, e non noi, a stabilire quale professione o attività avviare, in che luogo lavorare, in quale scuola o università studiare, da quale dottore farsi curare e in quale ospedale farsi operare, quale casa comprare, in quale città, quali relazioni accendere, quali mandare al diavolo e quali invece mantenere, quale uomo o donna sposare.
Il nostro progetto di vita deciso dalle macchine
Tutto cambierà, quando, in una parola, saranno le macchine intelligenti a decidere, per noi, quale progetto di vita inseguire. La nostra esistenza sarà allora leggera più d’una bolla di sapone, saremo al fine totalmente avvolti nelle piume, sarà un poco come vivere dentro un candido e soffice piumino IKEA.
Molte cose, allora, cadranno presto nel dimenticatoio, giacché del tutto vane. Ad esempio, non dovremmo più scaldarci per un regime politico, piuttosto che per un altro, visto che non ci sarà, per noi, più nulla da desiderare, da prospettare, da determinare. Il granitico peso della democrazia, poi, le difficoltà del decidere in nome di tanti, se non di tutti, si sgretolerà; l’immane ma glorioso fardello della modernità s’accascerà al suolo, come le spalle d’un facchino caricate col sedere d’una balena.
Avrà poco senso – immagino – anche il libero mercato, che abbiamo così faticosamente costruito nel corso dei secoli (ma questo non sarà forse un gran danno visti i risultati), giacché non dovremmo più affannarci a decidere quale frigorifero, lavastoviglie, maglione, mutande, crema per il viso e detersivo per il bucato comprare. Saranno le macchine intelligenti ad occuparsene al nostro posto, in modo tempestivo e rigoroso. Loro sapranno sempre e velocemente quale prodotto comprare. Saranno loro che ci accompagneranno in ogni piccola e grande nostra esigenza quotidiana. Senza esitazioni, senza limitazioni, agevolmente, come se niente fosse. A noi non resterà che alzare le mani e lasciarle fare.
In quel momento, il palcoscenico esistenziale che, pur tra non pochi problemi, abbiamo cavalcato negli ultimi due secoli come mattatori, ci vedrà d’improvviso ridotti a mere comparse; un mondo che abbiamo conquistato con il sudore e il sangue, cadrà di botto come un elefante a cui abbiano tagliate di netto tutte e quattro le zampe. In quel momento, nel momento in cui toccheremo con mano la nostra inconsistenza come esseri umani, ridotti a scatole vuote senza più alcuna facoltà di discernimento, cosa succederà? Come ci sveglieremo? Cosa faremo? Soprattutto, cosa saremo? C’è da aspettarsi, dal punto di vista, antropologico, una regressione o piuttosto una sorta di analfabetizzazione antropica di ritorno?
Due considerazioni. La prima, circa la funzione-marketing nell’era delle macchine intelligenti, in relazione proprio all’avvento dell’intelligenza artificiale. Si prospetta una sorta di boomerang, che credo stia nel fatto che il loro perfetto gioco di squadra potrebbe a un certo punto venire meno. Quando le macchine intelligenti acquisteranno tutto al nostro posto, infatti, con ogni probabilità non ci sarà più bisogno neppure della funzione-marketing.
La seconda: rispetto al nostro essere animali anche religiosi. Nel momento dell’avvento al potere delle macchine intelligenti, probabilmente, non avremo più neppure bisogno di rivolgerci a Nostro Signore per ogni sciocchezza che ci capita, visto che noi, non decidendo e non facendo praticamente più niente – fuorché passare il tempo a rincorrere le farfalle Papilio Machaon – non potremo più materialmente farle, le sciocchezze; mentre loro, le macchine intelligenti, non sanno neppure cosa siano, non ne hanno alcuna seppur vaga idea.
La modernità come il colesterolo
La parabola della modernità, a ben vedere, è davvero particolare. Intanto, si dovrebbe parlare nei termini di doppia modernità. La modernità è come il colesterolo: ce n’è una buona e una cattiva. E in più – proprio come nel caso del colesterolo – c’è un terzo valore, che non è dato dalla somma delle due modernità, ma che ne costituisce una sorta di sintesi, e che, in qualche modo, diviene valore di riferimento per stabilire il nostro stato di salute in quanto genere umano. Ebbene, dato per acquisito che questo terzo valore è un valore limite, oltre il quale dobbiamo preoccuparci e prendere provvedimenti per rientrare nei valori normali, e assunto che questo valore limite per gli uomini, nel caso del colesterolo, sia pari a 200, ebbene – per quanto attiene lo stato di salute della modernità – credo che da tempo abbiamo passato quel limite, e non vedo prospettive in corso capaci di farmi ricredere. La modernità è profondamente malata, nonostante tutti i benefici che ha sinora donato all’umanità.
Non è possibile certo negare tutti i passi avanti fatti negli ultimi due secoli su ogni versante delle attività umane, con picchi d’altissimo profilo per quanto riguarda la medicina in generale, la salute, il benessere materiale e sociale, grazie soprattutto alla potenza innovativa della tecnologia, che – soprattutto a partire dal secondo dopoguerra – ha iniziato a galoppare come mai s’era prima non solo visto, ma, forse, neppure immaginato. Tutto bene, sin qui. Siamo in pieno nell’alveo della modernità buona.
Come corollario, tuttavia, non è possibile sottacere che questa modernità buona ha operato a vantaggio soprattutto dell’Occidente, lasciando al passo milioni e milioni di esseri umani nati sotto le stelle sbagliate. Sotto questo profilo, qualcosa è stato fatto, ma non abbastanza. Questo costituisce un primo punto d’attacco della modernità buona, che si fa cattiva, perché non è buona per tutti – vale solo per i fortunati che abitano una determinata parte del mondo; e si fa ancora più cattiva, in quanto lo potrebbe essere, buona, sul serio per tutti, ma non si vuole farlo. Ci raccontano la storiella che non è che non si vuole, è che non si può. Non si può – questa è l’effettiva ragione – perché il sistema alla base delle economie moderne ha le sue regole del gioco, che si possono limare, come talvolta succede, ma che non si possono cambiare, pena il blocco, il crollo del sistema stesso.
Il tempo in cui viviamo ha perso ogni pathos rivoluzionario
Il problema è tutto qui. Occorre cambiare il sistema, cambiare le sue regole del gioco, soprattutto smetterla di guardare all’economia come la scienza e il fattore per eccellenza della modernità, e che, in quanto tale, viene prima della politica, prima del sociale, prima di tutto, persino della stessa umanità. La vita umana conta, sì, ma senza esagerare. Conta in ciò che raccontiamo, prendondoci in giro nei fanciulleschi momenti dove – davanti a un evento concreto, a una fotografia, alla scena d’un film – ci ricordiamo o ci piace pensare che nel mondo ci sono tante persone e tante cose buone, che il mondo non è fatto solo di squali, salvo poi quasi sempre tornare repentinamente alla dura realtà dei fatti. Ovvero sia: noi tutti permettiamo che in una consistente parte del mondo muoia un bambino al minuto, quando basterebbero poche monete per salvarli. È una scelta come un’altra, per carità, laicamente, noi che stiamo dalla parte fortunata, ce ne freghiamo di chi sta dalla parte sfigata, salvo, ogni tanto, donare loro qualche nostra piccola lacrima. Di coccodrillo, s’intende. E qualche soldino.
Ma, evidentemente, c’è di più di queste stringate e semplicistiche considerazioni. C’è chi parla inplicitamente di doppia modernità, evidenziando gli aspetti problematici legati all’incessante innovazione tecnologica, e c’è, invece, chi spacca la modernità in due parti, in due epoche: l’epoca della modernità e l’epoca della tarda-modernità, buttando forse un occhio alla oramai tradizionale divisione tra modernità e post-modernità, puntando tuttavia l’obiettivo sulla presenza o sull’assenza del fattore-futuro. Ma i discorsi di entrambi portano al fine allo stesso risultato: evidenziare gli aspetti emblematici di questa nostra civiltà Occidentale, che non è tutta un fiore.
In relazione alla prima tesi, non è tanto la tecnologia utilizzata quanto il desiderio di conquista a costituire il problema principale (Douglas Rushkoff). La tecnologia è sempre servita a sfruttare un vantaggio o a rendere più rapida una conquista. Così le bighe erano i carri armati dell’antichità e resero più semplice sconfiggere popoli che non le conoscevano; così le catene di montaggio, che diedero ai monopoli privileggiati un sistema per assumere lavoratori a basso costo, come la polvere da sparo e i cannoni, i motori a vapore e i mezzi corazzati contribuirono tutti a rendere più semplice conquistare popoli e territori. Senza queste tecnologie, certo non avremmo avuti i grandi progressi di medicina, architettura, trasporti, edilizia, industria, agricoltura – traguardi che possono rendere la nostra civiltà giustamente orgogliosa – ma che, tuttavia, devono anche indurla a considerarne le molte conseguenze non volute.
Per quanto attiene la seconda analisi, la modernità è animata dalla fiducia nel progresso, dall’enfasi per la partenza, dal dover fare ordine, dal voler ricominciare da capo, dallo spirito della rivoluzione (Byung-Chul Han). Si tratta di una grande narrazione che riguarda la società a venire. Mentre la modernità possiede una propria narrazione rivolta al futuro e incentrata sul progresso, una propria nostalgia per altre forme di vita, l’epoca tardo-moderna non ha alcun pathos rivoluzionario rivolto verso ciò che è nuovo o verso il ricominciare da capo. Le manca completamente la tonalità emotiva della partenza. Come in uno stato di torpore, l’epoca tardo-moderna si trascina senza forze verso l’assenza di alternative, risulta priva di qualsiasi audacia espositiva, di qualsiasi coraggio per una narrazione capace di cambiare il mondo, completamente priva di nostalgia, visione, lontananza, il che significa – in ultima analisi – senza futuro.
L’intelligenza Artificiale ci farà vivere di più ma non sappiamo se meglio
Il nostro immaginario è colonizzato dall’esistente (Serge Latouche), siamo appiattiti sul presente e non riusciamo più a guardare oltre il nostro naso. E passi se abbiamo il naso di Pippo Franco, ma se giriamo con quello di Giglioia Cinquetti? Non riusciamo a immaginare altre forme di convivenza, altre modalità di relazione tra gli uomini che non siano dettate esclusivamente dal dio-denaro, come oggi è prassi consolidata; peraltro supponendo erroneamente che da che mondo è mondo, è sempre stato così. Erroneamentre, appunto, giacché non è affatto un assioma scolpito sulla pietra.
Non riusciamo neppure a riflettere seriamente sull’idea – pressoché un’altra incontestabile affermazione – che viviamo in un mondo libero, che siamo esseri liberi, giacché abitiamo le mature democrazie occidentali. Ma ne siamo così sicuri? Stiamo vivendo o vivacchiando? Stiamo concretamente assaporando l’essenza della libertà, o ne avvertiamo solo un lontano sentore? Siamo visibilmente liberi, pieni di libertà, oppure con quella nobilissima parola ci stiamo semplicemente sciacquando la bocca?
Non si tratta di parlare di libertà come ideale astratto o principio formale, ma di forme fondamentali di libertà sociale che si potrebbero davvero mettere in pratica (David Graeber e David Wengrow): 1) la libertà di allontanarsi dal proprio ambiente o di trasferirsi; 2) la libertà di ignorare gli ordini impartiti da altri o di disobbedire; 3) la libertà di plasmare realtà sociali inedite o di oscillare tra situazioni diverse.
Ebbene: come siamo messi noi oggi rispetto a queste tre forme di libertà sociale, che – in un lontano passato – alcune, non poche, popolazioni possedevano e difendevano come un inestimabile tesoro? Mi viene da dire che ci siamo incatenati con le nostre stesse mani, sottoscrivendo modalità di relazione tra gli uomini edificate – nella sostanza – sulla sopraffazione, sull’uso della forza, sull’egemonia dei pochi sui molti. E se c’è una domanda da porre sulla storia dell’umanità è proprio questa (Graeber e Wengrow): come siamo rimasti bloccati in un’unica forma di realtà sociale, e come sono riuscite le relazioni basate sulla violenza e sulla dominazione a normalizzarsi al suo interno?
Insomma: la storia mitica dell’umanità è, sì, il resoconto dell’infinita lotta contro la violenza e la sopraffazione, ma anche la storia del potere trascendente dello spirito umano e del suo incessante desiderio di futuro, almeno – quest’ultimo – per un buon tratto del cammino, sino alla modernità.
Ma esiste oggi un futuro per l’umanità o, più precisamente, siamo sul serio vivendo in un’epoca che ci vede proiettati nel futuro? E poi: ammesso che volessimo parlare in termini di presente, e non di futuro, è vero che grazie all’innovazione tecnologica (leggi intelligenza artificiale) noi viviamo di più, ma viviamo meglio?
Nelle immagini alcune opere di Mario Schifano