Nel paese dei misteri la fine di Pinelli non fa eccezione

Con la scomparsa di Licia Rognini Pinelli, rischia di naufragare definitivamente la speranza di conoscere la verità su una vicenda su cui le istituzioni sono ancora latitanti

Pochi giorni fa è morta a Milano Licia Rognini Pinelli, vedova di Giuseppe Pinelli, il Pinelli, il ferroviere anarchico accusato ingiustamente dei tragici avvenimenti di Piazza Fontana, morto a distanza di soli tre giorni da quell’incredibile pomeriggio del 12 dicembre 1969. A soli tre giorni dalla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, la notte tra il 15 e il 16 dicembre, Pinelli cade dal quarto piano del palazzo sede della Questura che, per ironia della sorte, è in via Fatebenefratelli.

Ne scrissero in tanti, allora, della strage, anzi, come fu immediatamente definita, della madre di tutte le stragi, e della tragica fine dell’anarchico Pinelli. Ne scrissero di Pinelli anche tre giovani cronisti, ancora poco conosciuti, accorsi immediatamente sul posto: Camilla Cederna, Giampaolo Panza e Corrado Staiano.

Ne scrisse subito anche Pier Paolo Pasolini, che ebbe a cuore la strage, soltanto successivamente con riferimento a Pinelli, giacché preso dall’impeto di manifestare il proprio sgomento, non poteva sapere del Pinelli volato giù da quel quarto piano. Alla strage di Piazza Fontana Pasolini dedicò la poesia Patmos, versi scritti – come s’è detto – di getto, tra il 13 e il 14 di quel fatidico dicembre del 1969, il giorno prima che si sapesse del “suicidio” di Pinelli. Suicidio, appunto, come prontamente affermarono le istituzioni, dimentiche delle mille contraddizioni e delle mille stranezze contenute in quella affermazione.

Scrive Pasolini nel suo componimento: Sono sotto choc/è giunto fino a Patmos sentore/di ciò che annusano i cappellani/i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta/la mia età tra pochi anni… Il poeta qui manifesta il sentimento di fratellanza che lo accumuna ai suoi simili. E dopo, in modo profetico: Solo un suicidio porterà sulle tracce del responsabile di tal pianto. Pasolini non sa della morte di Pinelli e, dunque, parla del suicidio non collegandolo a una persona fisica, ma – profeticamente – a una modalità esistenziale, come a dire: Come può un essere umano continuare a vivere dopo aver compiuto un tale misfatto? E ancora, di nuovo con le sue parole: Scende la notte dello choc: il Naviglio va sottoterra/Tu ti suiciderai/se avevi tutto da guadagnare e nulla perdere/e quindi non sei un fascista di sinistra, che poverino,/con i suoi ideali estremistici ora così tragicamente frustrati,/è divenuto mio caro fratello, e vorrei abbracciarlo forte;/tu ti ucciderai, fascista pazzo…

Quest’ultima affermazione rivela – come del resto dal poeta stesso poi dichiarato, confessandone persino l’ingenuità – l’iniziale sua convinzione che il colpevole che si sarebbe suicidato sarebbe stato un fascista. Al di là di quella singolare locuzione di fascista di sinistra, nella sostanza un ossimoro, che il poeta probabilmente trae – come ha osservato acutamente Ennio Emanuele Galanca – da una concettualizzazione di Jürgen Habermas, Pasolini, dunque, a ridosso della strage, è convinto che la sua matrice sia inequivocabilmente di stampo fascista, non certo anarchica.

E seppure su un versante lontano da quello di Pasolini, chi espresse immediatamente l’idea che gli anarchici non c’entrassero nulla con la bomba a Piazza Fontana, fu Indro Montanelli. Lui, uomo notoriamente di destra, severo, autorevole, che non aveva certo paura di attribuire a Cesare ciò che a Cesare appartiene, la sera stessa della strage, in un’intervista rilasciata a TV7 – i cui contenuti confermò poi a distanza di vent’anni – espresse non pochi dubbi sul coinvolgimento degli anarchici in quel tragico evento, anzi escluse del tutto la loro responsabilità nel vile attentato, sia per ragioni personali – come lui affermò – chiamando in causa il suo istinto, il frutto di un’intuizione – sia in virtù di una lucida analisi, nella presa d’atto che – seppure gli anarchici storicamente non erano alieni da atti di violenza – li avevano, tuttavia, sempre usati diversamente. Disse che gli anarchici non sparano mai nel mucchio, non uccidono mai nascondendo poi la mano; che gli anarchici sparano dritti al bersaglio, generalmente un simbolo del potere, e sempre di fronte. Affermò che gli anarchici si assumono sempre la responsabilità dei loro atti, e quindi che, di conseguenza, l’infame attentato di Piazza Fontana non poteva essere a loro attribuito; e che qualora qualcuno l’avesse così rivendicato, si sarebbe sicuramente trattato di una vera e propria usurpazione d’appartenenza, non certo opera dei veri anarchici, che Montanelli – così dichiarò – aveva conosciuto e che reputava fatti di tutt’altra pasta.

Ci furono tante altre prese di posizione, evidentemente chi cavalcò sin dalla prima ora – sia a destra che a sinistra – l’ipotesi della pista anarchica, ma di quel che è realmente successo quel pomeriggio del 12 e quella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, nessuno lo sa. O forse qualcuno lo sa, ma non vuole o non può rivelarlo, ammesso che – stante il tempo trascorso – sia ancora in vita.

Paese strano, il nostro. Il paese dei misteri. Grandi e piccoli segreti. I segreti degli uomini delle istituzioni, e i segreti delle persone comuni. Sembra quasi che nel tempo la pratica del segreto sia diventata – tra gli altri – quasi un tratto culturale. Non siamo soltanto il paese delle belle lettere, siamo anche il paese dei misteri, appunto. Mai che gli uomini delle istituzioni e le persone comuni dicano: Sì, questo è opera nostra, sì, questa è opera mia; siamo noi i responsabili, sono io il responsabile di ciò che è accaduto. No. Rifuggiamo. Rifuggono gli uomini delle istituzioni, rifuggiamo noi persone comuni. Una fuga continua. Ci si inventa di tutto, pur di non ammettere i propri sbagli, i propri errori. È un atteggiamento umano, certo, ma eticamente e socialmente emblematico, irrispettoso verso la collettività, verso gli altri, vicini e lontani.

Siamo pieni di misteri, e la cosa singolare sembra che nonostante tutti noi bramiamo di conoscere cosa sia realmente successo di fronte a determinati più o meno drammatici avvenimenti, ho come l’impressione che non sia poi così vero, che non sia proprio così scontato che vogliamo sul serio conoscere la verità. Come se volessimo – nonostante tutto – un poco tutti lasciare le così così come stanno, come se avessimo sul serio paura di sapere, giacchè la verità può davvero incutere paura: il segreto, l’inganno è atteggiamento, certo, disdicevole, ma la verità talvolta – spesso – non solo è inafferrabile, ma pure indicibile e di difficile digestione, come e più dopo aver ingerito un tondino di ferro. Presuppone che l’interlocutore sia in grado di riceverla, di accettarla, abbia il coraggio, la forza, la volontà di sapere; ecco questo forse a noi manca: la verità – come abbiamo scritto a proposito della coerenza, parlando, in queste stesse pagine, del Pasolini tratteggiato come ultimo Intellettuale – la verità, dicevo, tutti la cercano, tutti la bramano, ma nessuno sul serio se la piglia.

Succedono tante cose nel nostro paese, grandi e piccole, ma il perché rimane un mistero: quando la smetteremo di nasconderci, uomini delle istituzioni e uomini di tutti i giorni? Parlo di uomini delle istituzioni, perché le istituzioni sono delle astrazioni, non esistono al di fuori delle persone che – appunto – le personificano tutti i giorni. Siamo noi, uomini e donne, che animiamo le istituzioni, che diamo loro vita, nel bene e nel male. Loro, le istituzioni – come, del resto, tutte le organizzazioni – senza di noi, sono scatole vuote. E quando diciamo: è colpa delle istituzioni, dovremmo invece dire: è colpa degli uomini delle istituzioni. Sbagliano gli esseri umani, non le istituzioni. E sbagliare è possibile, è umano – com’è naturale che sia – può succedere, nonostante le nostre preoccupazioni, le nostre attenzioni, e dovremmo dirlo quando sbagliamo, anzi dovremmo dichiararlo a viva voce – come s’è detto. E invece no. Niente di tutto questo.

Georg Simmel era convinto che uno dei tratti caratteristici della modernità fosse proprio la presenza del fenomeno-segreto, della menzogna come gesto corrente, usuale; la menzogna storicamente ha sempre attraversato i Palazzi e le strade d’un tempo, ma mai – credo – ha assunto una tale singolarità. Possiamo anche sgolarci nel ricordare che il segreto è, con ogni probabilità, il peggior nemico della democrazia, ma niente accade. Mai si è connotato – il fenomeno-segreto – d’un alone così fascinoso, così foriero di costrutti paradossali, come ai tempi nostri. Nella Grecia antica, la menzogna costituiva, per così dire, un peccato veniale; per noi moderni, il peccato è diventato mortale, giacché la nostra esistenza si fonda molto più di quanto si è portati a credere sulla fiducia nella sincerità degli altri. Quante decisioni quotidiane si fondano – a conti fatti – su premesse che non siamo in grado di verificare? Noi moderni – gioco forza – ci fidiamo, siamo costretti a fidarci, ma se riceviamo in cambio altro che falsità, non ci passa tanto facilmente.

Simmel, dal canto suo, riteneva il segreto una delle grandi conquiste dell’umanità. Di un’umanità matura, poiché la condizione che vede ogni pensiero subito espresso nella sua genuità – dire le cose immediatamente così come stanno – non appartiene all’uomo adulto, ma ai bambini e ai pazzi. Era convinto che grazie al segreto sarebbe stato possibile ottenere persino un sensibile ampliamento dell’esistenza. Non solo il segreto appartiene all’uomo nella sua maturità, ma gli offre sul piatto d’argento l’opportunità di un altro mondo accanto a quello rivelato, quasi una seconda vita. O magari, addirittura di più. Il segreto nella concezione di Simmel è – mi verrebbe da dire, se non fosse azzardato, però lo dico – come il romanzo. Il segreto e il romanzo: due costrutti che moltiplicano gesti, fatti, luoghi, volti, verità, esistenze.

Forse aveva ragione Simmel e se così fosse, allora, cosa fare? Se dire la verità è patrimonio dei folli e dei bambini, forse varrebbe la pena di riflettere sul fatto che qualche volta – all’occorrenza – dovremmo essere, o quanto meno comportarci, un po’ più da folli o un po’ più da bambini, non dimenticare che tra pazzia e normalità il muro non è poi così alto e massiccio quanto a prima vista possa sembrare e che un tempo, non poi così lontano, siamo stati anche tutti noi fanciulli. O forse aveva ragione Pasolini nel battezzare quel fascista come pazzo, nell’accezione comune – ordinaria quanto si vuole, ma di immediata lettura – giacché, potremmo sostenere, e l’abbiamo già fatto, chi mai avrebbe potuto commettere un tale sciagurato gesto come quello di Piazza Fontana?

O forse è Simmel che ha semplificato, o meglio – non sia mai, al cospetto di uno dei padri fondatori della sociologia – sono io che ho semplificato il suo pensiero. Tuttavia, al di là di ogni considerazione, meglio sarebbe lasciare al romanzo il compito di moltiplicare la vita, e chiedere invece agli uomini delle istituzioni (e a tutti noi) di dire la verità, di dirci finalmente la verità su quei tragici eventi: sulla strage, ma soprattutto, sulla morte dell’anarchico Pinelli.

La moglie non ha mai smesso di chiederla, la verità, si è battuta aspramente, dolorosamente, sino alla fine, per sapere cosa sia realmente successo quella notte tra il 14 e il 15 dicembre del 1969. Onore a lei, che oggi non c’è più, ma che lascia intatte a tutti noi domande senza risposta. Domande che però meriterebbero una qualche veritiera reazione, per lei e per tutti noi. E qui, sia la destra che la sinistra non credo abbiano scusanti.

Vale allora la pena, in chiusura, di citare ancora alcuni versi di Pasolini, quando, quasi alla fine del suo componimento Patmos, scrive – quasi un richiamo all’ordine – che la diffidenza verso le istituzioni romane Unisce intellettuali di sinistra e fascisti a un unico culto/in via di estinzione: allontanando nel cosmo il punto di vista/essi appaiono tutti raccolti a imprecare allo stesso tabernacolo…

All’interno, dunque, di un quadro politico e culturale dove i punti di vista, le differenze, lo stesso dissenso, non hanno più ragione d’esistere, ne consegue – afferma amaramente il poeta – che tutti gli attori in campo, al di là dello specifico vocabolario utilizzato, parlano oramai tutti uno stesso idioma; s’uniscono in una sorta di novello esperanto che nega, nella sostanza, ogni asserita particolarità. Abbiamo allora fatto bene a titolare qualche giorno fa su queste stesse pagine, che Pier Paolo Pasolini è l’ultimo Intellettuale. Con la I maiuscola.

In alto, “I funerali dell’anarchico Pinelli”, opera di Enrico Baj