Il critico e saggista Goffredo Fofi, in un articolo pubblicato qualche tempo fa su Internazionale (leggi qui), ha definito il periodo precedente la pandemia, il lockdown e tutto ciò che ne è conseguito, come “eccezionale” per il cinema italiano e mondiale. Finché poi con la pandemia è iniziata una fase discendente, una crisi da cui la settima arte non si è ancora ripresa. E Fofi, guardando alle cause del declino, da grande intellettuale e studioso della realtà qual è, non le associa alla qualità del prodotto cinematografico, che resta alta, ma ad una certa tendenza del pubblico, che ormai ha perso interesse per il cinema o, meglio, per la sala cinematografica.
Certo, ci sono film che intercettano gli interessi degli spettatori, che si accalcano fuori dalle sale per non perdersi la visione sia pure dagli ultimi posti; ma ce ne sono tanti altri di lungometraggi che meriterebbero la stessa attenzione (se non una calca maggiore) e che, invece, non guarda nessuno, se non qualche appassionato. È una situazione triste, ma a ben vedere, con grande sollievo di Fofi, non così disperata e quelle stesse persone, che qualche anno fa andavano al cinema, ora preferiscono andare a teatro o a vedere mostre, specie se si tratta di fotografia.
Acquistano cataloghi, libri di fotografia e molte più macchine fotografiche, come se volessero catturare il presente, per timore che sfugga via dalle loro mani. Desiderano intrappolare l’attimo, tenerlo tra due lastre di vetro come fosse una foglia, in modo da poterlo guardare, riguardare e riviverlo. Si potrebbe dire, usando le stesse parole di Fofi, che questo sia piuttosto un momento eccezionale per la fotografia.
Come testimonia a Monopoli, dov’è in corso in questi giorni, proprio a ridosso del mare, il PhEST – See Beyond the Sea (clicca qui), festival internazionale della fotografia e dell’arte figurativa tout court, con la direzione artistica di Giovanni Troilo, la curatela fotografica di Arianna Rinaldo, quella per l’arte contemporanea di Roberto Lacarbonara, e la direzione organizzativa di Cinzia Negherbon. Una serie di trentatré mostre, percorsi fotografici e installazioni, spalmate nei luoghi più caratteristici della città, con lo scopo di raccontare il presente, in tutte le sue forme. E non è un caso che il tema principale dell’intera rassegna sia proprio il “sogno”: attraverso la lente deformata dell’arte e l’occhio onirico dell’artista, si può raccontare, infatti, il peggio e il meglio del nostro presente, senza tralasciarne l’oscurità e la luce.
E mentre da una parte vi è il racconto della guerra, dei massacri che viviamo nel presente, dall’altra si racconta la famiglia e la forza di chi resiste alle macerie, all’orrore del presente. Importantissimo, in questo senso, il focus sulla Palestina, tratto dal libro Against Erasure. Non un semplice racconto del presente, ma un tentativo di tornare indietro e di raccontare un popolo, le sue tradizioni, i suoi sogni, la sua arte e il profondo legame che ha con la propria terra.
“Il sogno – spiega Arianna Rinaldo, curatrice fotografica del Festival, giunto alla sua nona edizione – diventa un bisogno primordiale, essenziale. Il PhEST, specie oggi, con il suo sguardo riflessivo, ma anche divertente, empatico e a volte irriverente, vuole contribuire a dare una scossa alle nostre emozioni collettive. Per tornare a sognare, a usare la nostra immaginazione, come i bambini sanno fare, per guardare avanti, farci forza e condividere le energie positive. Impariamo insieme a farlo perché il sogno si può trasmettere, e se ci crediamo fortemente, può diventare realtà”.
Non è un caso, inoltre, che la “mostra madrina” di questa edizione sia proprio La Révolution du regard di Man Ray. Un percorso espositivo che vuol celebrare il centenario del Manifesto del Surrealismo, omaggiando uno dei suoi principali esponenti, tra i massimi artefici dell’innovazione del linguaggio fotografico. La mostra al Castello di Carlo V è organizzata in collaborazione con l’ASAC, Archivio Storico delle Arti Contemporanee de La Biennale di Venezia.
A Palazzo Palmieri, quartier generale del festival, sarà allestita la Warka Tower 1.9, un progetto dall’architetto Arturo Vittori, presentato alla Biennale di Venezia del 2013: una struttura alta circa 10 metri che può raccogliere fino a 100 litri d’acqua al giorno senza elettricità, offrendo una soluzione sostenibile per comunità in regioni aride. Le trentatré mostre, ognuna con una sua particolarità, ospiteranno fotografi e reporter di fama internazionale, tra cui César Dezfuli, giornalista e fotografo documentarista ispano-iraniano che ha vinto nel 2023 il World Press Photo Award (clicca qui).
Nella sua mostra Passengers, ripercorre in un certo senso la sua lunga carriera di reporter, trattando il tema dell’immigrazione e dei diritti umani. È un tipo di fotografia fatta di ritratti. Ritratti di uomini e donne, ripresi dopo o durante la navigazione in mare, su barconi stracarichi, costretti a stare giorni e giorni senza cibo né acqua. Ritratti frontali, a mezzo busto, che mostrano la sofferenza e la speranza di persone che portano impresso sul volto e nella carne la fatica del viaggio, così come il sogno di un mondo migliore. I “passengers” di questo percorso espositivo sono 118, molti dei quali posti l’uno accanto all’altro, in una galleria di volti, persone, vissuti, che seppur diversi finiscono con l’assomigliarsi tutti.
Ma se la cronaca è dominata da eventi che rinviano immancabilmente a drammi e catastrofi naturali non manca la bellezza, fatta dell’ingenua semplicità e dell’irrefrenabile fantasia dei bambini: come sottolineano le foto di Jan Von Holleben, che ha coinvolto nel suo progetto ottocento alunni della scuola primaria di Monopoli. Ai bambini è stato chiesto di descrivere e disegnare un loro sogno, che l’artista ha tradotto in coloratissime immagini esposte al Porto Vecchio per tutta la durata del festival.
Come pure, in contrasto con le immagini del pianeta oltraggiato da ogni genere di ferita, Natalie Karpushenko prova a ricucire il rapporto dell’uomo con la natura, proponendo una serie di scatti fatti di luce naturale, linee semplici e proporzioni mirate, con al centro gli esseri umani, il mare e gli animali rappresentati in fluida armonia.
Le giornate di mostra termineranno con la proiezione di una serie di cortometraggi, che sono per lo più mostre tenute in giro per il mondo. Ciascun video diviene, così, un itinerario visivo, che sarà proiettato in Largo Palmieri. Tra i corti il più atteso, Terra Madre di Lisa Sorgini, racconta, con la potenza della fotografia, la difficile vita ai Tamburi, il “famoso” quartiere di Taranto, gremito di rifiuti, punteggiato di colline d’acciaio, dove si consuma la vita di persone che non hanno niente.
Intere famiglie abbandonate tra le macerie, che rinascono grazie alla forza delle madri, che nutrono i propri figli e salvaguardano le loro famiglie, sostituendosi alla terra stessa e dando loro il nutrimento che la stessa natura non dà più. Il racconto visivo di una mostra, che sta facendo il giro del mondo e che darà il via ad una serie di corti, in cui la fotografia farà da protagonista assoluta.
“Il PhEST è un sogno di per sé. Cercavamo un terreno comune in un momento in cui tutto sembra vacillare, lo abbiamo trovato nell’inconscio collettivo junghiano, nell’anima mundi, nel concentrato di emozioni che ci rendono umani, esseri vivi. E riteniamo che la fotografia possa essere il modo più valido per ricordarci che siamo umani e per spronarci a sognare in un mondo migliore. Vorrei che questo messaggio arrivi a ciascun spettatore, a chiunque voglia venire a Monopoli. A chiunque ami profondamente l’arte”, conclude Giovanni Troilo.
La foto in alto è tratta dalla mostra dedicata a Natalie Karpushenkko