In un punto centrale del Candide di Voltaire, brillante sintesi dello spirito dell’Illuminismo e romanzo filosofico per eccellenza, il protagonista, in fuga dai manifesti orrori di quello che è stato educato a considerare il migliore dei mondi possibili, giunge nella colonia olandese del Surinam. Il giovane ottimista Candide è al giro di boa del suo viaggio di conoscenza che, dall’Europa devastata dalla guerra dei Sette Anni e da terribili disastri naturali, lo ha portato nel Sud America, e che ora lo avrebbe riportato in Europa.
Nel Nuovo Mondo, suo malgrado, Candide ha dovuto constatare che i conflitti umani, le tante crudeltà e avidità che causano indicibili sofferenze agli uomini, non sono prerogative del Vecchio Mondo: “questo emisfero non è meglio dell’altro” gli ha fatto notare il fedele servo Cacambo. In America esiste, sì, El Dorado, l’unico posto al mondo in cui tutto sembra veramente andar bene. Ma la felicità e l’innocenza dei suoi abitanti sono rese possibili solo al costo di un totale isolamento. “El Dorado è nascosto tra le più inaccessibili giogaie delle Ande – commentò Italo Calvino in un prezioso articolo dedicato al classico volteriano – forse in uno strappo della carta geografica: è un non-luogo, un’utopia”.
Certamente anche per questo motivo, non solo per il desiderio di ricongiungersi alla sua amata Cunegonde, Candide abbandona quell’apparente paradiso terreste. E come un naufrago che rimane disperatamente aggrappato all’ultimo legno della nave, Candide continua a nutrire la speranza che quanto gli è stato insegnato dal suo tutore Pangloss, ovvero sostenuto dal filosofo tedesco Gottfried Leibniz, possa ancora essere vero: che tutti gli orrori del mondo, tutto il male che ha visto e sperimentato su di sé fino a quel momento, siano solo ombre su un bellissimo quadro. Candide continua ostinatamente a crederlo… fino a quel giorno in Surinam.
Lì Candide incontra uno schiavo africano che ha perso un braccio in un incidente nello zuccherificio, e una gamba come punizione per aver tentato di scappare. «Mio Dio!» gli disse Candide in olandese. «Che cosa fai qui, amico mio, in così orribili condizioni?». «Aspetto il mio padrone, il signor Vanderdendur, il famoso negoziante», rispose il negro. «Ed è stato il signor Vanderdendur a ridurti in questo stato?» disse Candide. «Sì, signore» disse il negro. «È l’uso. Ci danno un paio di calzoni azzurri come unico abbigliamento due volte l’anno. Quando lavoriamo negli zuccherifici e la macina ci piglia il dito, ci tagliano la mano; ma se cerchiamo di scappare, ci tagliano la gamba: io mi sono trovato in entrambe le situazioni. È il prezzo che paghiamo perché possiate mangiare zucchero in Europa».
È quindi lo stesso schiavo a pronunciare un’eloquente e spiritosa condanna di tali pratiche disumane: «I missionari olandesi che mi hanno convertito ci dicono ogni domenica che siamo tutti figli di Adamo, bianchi e neri. Non sono un genealogista, ma se questi predicatori dicessero il vero dovremmo essere tutti cugini germani. In tal caso ammetterete che non si potrebbero trattare i propri parenti in modo più orribile».
L’abominio della schiavitù: per Candide è troppo. L’incontro genera in lui a una vera e propria conversione filosofica. È solo a questo punto, infatti, che il termine “ottimismo” viene usato la prima e unica volta nel libro, oltre che nel sottotitolo, per ripudiarlo. «O Pangloss!» gridò Candide. «Non avevi potuto immaginare quest’orrore. Ma è un fatto: dovrò rinunciare infine al tuo ottimismo». «Che cos’è l’ottimismo?» domandò Cacambo. «Ahimè! È la mania d’insistere che tutto va bene, quando in realtà non va affatto bene», rispose Candide. E pianse guardando il suo negro.
Pubblicato nel 1759, il libro di Voltaire nutrì il pensiero illuministico, pensiero che trent’anni più tardi vide il suo coronamento nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, altissimo progetto per la creazione di una nuova società: «1. Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune…». Parole che echeggiavano un altro importante documento scritto tredici anni prima dall’altra parte dell’oceano: «Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali…». Le nostre democrazie occidentali sono fondate su questi principi; a questi principi si informano le nostre costituzioni.
Ma se ogni giorno ci giungono preoccupanti segnali sull’effettiva applicazione nella società reale di questi principi, quanto è successo nelle campagne di Latina è molto di più. Quella di Satnam Singh detto Navi, immigrato indiano di 31 anni, lasciato morire dal suo padrone dopo che un macchinario gli aveva strappato un braccio, non è l’ennesima, deplorevole morte sul lavoro. È qualcosa di più grave. È un fallimento generale della nostra repubblica democratica fondata sul lavoro, delle nostre istituzioni così come dei nostri partiti e organizzazioni sindacali. Il fallimento estremo. Non un’ombra su un bel quadro, ma un’orribile macchia indelebile. Tanto più oscura se si considera che viene apposta proprio nella Giornata mondiale dei rifugiati.