La felicità semplice di “Qui si gode” al mare di Santo Spirito

Era il nome, e continua ad esserlo, del piccolo caffè, dove i bitontini giunti col trenino alla marina, potevano concedersi bevande fresche e gustose granite al limone

“Qui si gode” era, per me, bambino villeggiante a Santo Spirito, una sta­zioncina di treni. La ferrovia, minu­scola, era un tratto di binario di sette chilometri che univa Bitonto a Santo Spirito, da pochi anni diventata fra­zione di Bari, tolta alla sua dignità di Marina di Bitonto, per una sciagurata decisione dell’enfasi centralistica del fa­scismo, che pretendeva da Bari presta­zioni metropolitane.

La vera stazione era una casetta li­berty a monte dell’insenatura foranea del villaggio beneamato, ombreggiata da magnifici pini marini nella valletta sottostante alla più grande stazione dei treni dello Stato. Le due strutture erano collegate da una rampa spaziosa di scalini che im­pegnavano i viaggiatori in una breve passeggiata. Ma i binari si spingevano fino al mare, in pieno paese e il treno sferragliava allegramente fino al ca­sotto ombreggiato denominato “Qui si gode”.

Un caffè piccolo e confortevole con finestrone per servire i frettolosi viag­giatori e dotato anche di ombrellone e confort rustici per meritare quel nome. Si servivano bevande fresche e grani­te. Un sollievo senza pretese, un’oasi di frescura e riposo dopo le ansanti cam­minate o gli scossoni ferroviari nell’afa delle lunghe estati. Al tempo non coglie­vo gli ammicchi maliziosi degli adulti, per me il godimento era candido piacere dell’ombra, innocenza dell’ozio pomeri­diano, gusto di crema e cioccolato.

“Qui si gode” a Santo Spirito com’è oggi

Il mio treno della memoria sta ten­tando di descrivere anche quello che era un piccolo sistema di comunicazio­ne che risarciva Bitonto della carenza del servizio ferroviario di Stato, pur dotata del prezioso percorso della “ci­cuatera” la vecchia, cara e fumosissima Bari-Barletta. Insomma, intrecciando le varie ferrovie ci si muoveva con molto agio, impensabile, oggi, con le automo­bili, puzzolenti, invadenti, impotenti. Per la loro struttura, per la loro prepo­tenza aggressiva, per la loro quantità.

La tramvia Bitonto-Santo Spirito spingeva la sua motrice e le sue carroz­ze bellissime, azzurre e gialle oltre la stazione, fino alla marina dove, con un semplice sistema di scambio di binari potevano riprendere, a ritroso, la loro marcia sferragliante preannunciata da un segnale acustico clamoroso, una specie di allegra tromba festosa.

Ricordo che un ansante vecchietto che si affrettava verso quel trenino in­sieme ai miei passi altrettanto accelera­ti e ansiosi, mi domandò una volta: “Ha sckamat u’ vapour?” Trovai l’uso del verbo “sckamar” perfetto, e intraduci­bile, per definire quel suono che era si­rena e clacson al tempo stesso, canto e fischio. E definire “vapòure” la tramvia denunciava una formazione culturale da rivoluzione industriale che deliziava la mia approssimativa cultura di adole­scente. Ma mi accontentai di ricordare i versi cantabili del Carducci di “Davan­ti San Guido” con quella vaporiera che sfida i puledri e non scomoda “l’asino bigio” che bruca un cardo rosso e tur­chino.

Il fatto è che la “vaporiera” della Bitonto-Santo Spirito era un moder­nissimo, per i tempi, treno elettrico che non inquinava, costava poco e non fa­ceva soverchio rumore, a parte i sibili delle ruote ferrate sui binari, durante le manovre davanti a “Qui si gode”. E davanti a “Qui si gode” stazionavano, coi bighelloni, viaggiatori, bagnanti oc­casionali, turisti del piccolo cabotag­gio giornaliero, pendolari. Per godere, ebbene sì, della pausa, del fresco del “gratto marianna”.

“Qui si gode” era anche un luogo di appuntamento, un punto di riferimento. I forestieri, a sen­tire la frase, sgranavano gli occhi incre­duli e si lasciavano andare a congetture maliziose sorridendo della bizzarria del nome che, a noi, non incuteva più alcu­na sorpresa.

Mi sono domandato chi abbia avu­to l’idea della rassicurazione tipografi­ca di quella designazione commerciale, di quella indicazione attraente. Forse era solo germogliata nella naturalezza del dialetto quando questo rasenta la lingua altolocata. Da noi “godere” può voler dire star bene, provare piacere di ogni tipo, far festa, riposare e, perfino avvantaggiarsi della voluttà del sesso.

Abbiamo dovuto rinunciare alla tramvia per far posto allo stramale­detto traffico di auto: fu smantellata con crudeltà spietata in pochi giorni. Era la rivoluzione ecologica ante litte­ram e nessuno lo capì. Adesso, alme­no, all’ombra di quell’invito goliardico, possiamo rimpiangere e recriminare per evitare di sbagliare ancora. Difen­diamo la felicità semplice insegnata da quell’insegna.