“È bene trattare tutte le canzoni e tutte le esperienze che facciamo con l’attenzione e la riverenza che riserviamo alle ultime cose”. Così scriveva Nick Cave dopo aver ascoltato l’ultimo (forse definitivo?) album di Bob Dylan: Rough and Rowdy Ways, un capolavoro che sembra provenire da lontano, come se avesse viaggiato nel tempo guadagnandone in complessità e maestosità.
Ed è stato ovviamente proprio l’ultimo suo lavoro a monopolizzare quasi esclusivamente la scaletta del tour europeo del cantautore americano, che si è concluso in Italia, dove è passato per Lucca, Milano, Perugia e Roma. Un tour “phone free”, dove il cellulare viene sigillato all’ingresso per impedire al pubblico di “distrarsi” dall’esperienza, registrando video o scattando foto. Dylan non è il primo e nemmeno l’unico a pretendere concerti senza telefonini, ma di certo è l’unico ad essere riuscito, forse anche per la sua rilevanza culturale, a fare di questa assenza parte integrante del suo concerto. Un’esaltazione dell’hic et nunc, come spiegato anche sul biglietto: i nostri occhi si aprono un po’ di più e i nostri sensi sono leggermente più acuti quando perdiamo la stampella tecnologica a cui ci siamo abituati.
Non c’è nessun maxi schermo ai lati. Scenografia minimale, poco illuminata, migliaia di teste che guardano tutte in un’unica direzione, immobili. Ogni sguardo è diretto verso quel palco, costantemente, senza distrazioni, perché, d’altronde, non c’è altro da vedere. Dylan nascosto dietro il “grand piano”, da cui si allontana solo alla fine per salutare il pubblico (non una cosa così scontata, se si è affezionati avventori degli show del menestrello di Dulith). Ed effettivamente, potendosi concentrare esclusivamente sulla musica, si percepisce con ancora più fragore la voce roca di Dylan che si schianta sul microfono come l’oceano in tempesta sugli scogli: frasi lunghissime scivolano via velocemente, torrenziali, a malapena ti bagnano i piedi, e poi improvvisamente sostantivi e aggettivi si stagliano monolitici, scanditi benissimo, con un’enfasi che ne cambia il significato.
Viene in mente un aforisma di Ceronetti: “Se c’è una parola che non comprendi, che ti sembra oscura, perché rimproverarlo a chi l’ha scritta o pronunciata, perché sforzarsi inutilmente di capire e arrabbiarsi se non penetri in essa?”. Semplicemente quel messaggio non era destinato a te, ma ad altri. Il messaggio, là dove deve arrivare, arriva. Magari in un verso finalmente riconoscibile tra i tantissimi solamente sussurrati, a volte cannibalizzati e smembrati, totalmente stravolti rispetto ai testi fissati su disco, trascritti per sempre nei canzonieri.
C’è pochissimo spazio per il passato, zero per le canzoni più famose, quelle che in molti vorrebbero ascoltare, e anche quelle tratte dall’ultimo album appaiono già completamente trasfigurate nei nuovi arrangiamenti. Canta I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You come se stesse cantando Key West (Philosopher Pirate), che, a sua volta, sembra richiamare in alcuni momenti Not Dark Yet. Dylan si arrende completamente nella matrice infinitamente estensibile delle sue canzoni, prima della conclusione con Every Grain of Sand, pezzo di confessione sulla soglia dell’eterno, nella furia dell’ultimo momento in cui l’esistenza si rende visibile in ogni foglia che trema, in ogni granello di sabbia.
Come il Magician di Lou Reed – canzone molto simile per tematica e metrica – anche il Black Rider di Dylan, cavaliere nero che annuncia la fine, viene chiamato due volte all’inizio di ogni strofa. Eppure non lo si implora per una grazia, ma invece lo si sfida e lo si dileggia con vero fare da cowboy. Dylan, di fermarsi, infatti, non ci pensa proprio. Il Rough and Rowdy Ways World Wide Tour non è altro che un’estensione del Never Ending Tour iniziato – secondo la leggenda – nel 1988, e che oggi supera le 3.000 date. Gli appuntamenti programmati continueranno fino al 2024 e solo allora si saprà cosa succederà dopo. Ad ogni modo, la voce di Dylan sembra limpida e chiara come non lo è mai stata negli ultimi anni: almeno su alcune strofe, che giungono al pubblico nella loro cristallina bellezza.
Ma l’incomprensione, come detto, non è mai stato un problema. Quando si ha un vero linguaggio, continuando a prendere parole in prestito da Ceronetti, la lingua corrente è parlata come attraverso il rantolare e il singhiozzare spento di un’estasi medianica. Si fanno domande a chi non può rispondere, a chi è soltanto una Stimme. “What’s next? What shall we do?” (I Contain Multitudes). “Can you tell me what it means, to be or not to be?” (My Own Version of You). Dylan si allunga e si ritrae, prima onda e poi risacca, si rivolge a mille interlocutori diversi come se questi fossero tutti lì, davanti a lui, convocati per un’ultima mano di carte. Quello che accade tra parole e musica non è chimica ma alchimia, antesignana più avventurosa e meno disciplinata della chimica, con i suoi maldestri tentativi di trasformare la ferraglia in oro.
“Si può continuare a cercare di far diventare la musica una scienza, ma nella scienza uno più uno farà sempre due. La musica non fa che ripeterci che uno più uno, in circostanze ideali, fa tre”, scrive Bob Dylan nel volume Filosofia della canzone moderna, confermandolo ogni volta che sale sul palco. In una delle rare tracce in scaletta pescate dal passato – When I Paint My Masterpiece, eseguita per la prima volta nel 1971 – si racconta di come l’ostinazione nel raggiungere sempre nuove vette possa diventare soffocante, una trappola per l’artista. Come con la pietra rotolante, la “rolling stone”, del buon vecchio Sisifo, Dylan è condannato a suonare le sue canzoni sui palcoscenici di tutto il mondo, fino al suo prossimo capolavoro discografico? O forse il capolavoro si compie proprio nella performance permanente, nell’atto ripetuto di andare in scena ancora e ancora?
Nella foto in alto, un disegno del musicista tratto dal volume “Bob Dylan. Il cantastorie”