A nove giorni dalle elezioni presidenziali americane l’esito del voto appare quanto mai incerto. Niente di strano per un paese democratico dove gli orientamenti degli elettori possono essere previsti solo con un margine variabile di approssimazione, se non fosse che stavolta ci sono fondati motivi di preoccupazione per la tenuta delle istituzioni.
È infatti concreta la possibilità che si verifichi, non solo uno stallo del meccanismo elettorale come quello creatosi all’indomani delle elezioni del 2000, e risolto dopo 36 giorni con una sentenza della Corte Suprema, ma anche una crisi istituzionale come quella seguita alle elezioni del 1876, quando l’aspra lotta tra i due candidati e i loro sostenitori si protrasse fino al marzo dell’anno successivo; o, peggio, una pericolosa miscela di violenza politica, frode e disinformazione: disordini sociali culminanti in uno scontro aperto tra diversi poteri dello stato, di cui la procedura di impeachment scattata nell’autunno scorso contro Trump, diverrebbe a posteriori la drammatica overture.
Questo perché il presidente in carica, fatto inedito nella storia americana, ha rifiutato di pronunciarsi sul rispetto del risultato elettorale qualunque esso sia, ripetendo da mesi che il suo avversario potrà vincere solo con la frode. E allo stesso tempo, con un’azione preventiva di delegittimizzazione, ha continuato a denunciare come potenzialmente fraudolenta la pratica legittima del voto per posta, a cui ha già fatto ricorso la cifra record di oltre 33 milioni di cittadini, mentre altri 14 milioni hanno già votato di persona, creando lunghe code, negli stati dove è consentito il voto anticipato (ogni stato ha regole diverse al riguardo, ma quest’anno, a causa dell’emergenza Covid, il voto per posta è stato reso possibile in quasi tutti i 50 stati senza dover presentare prova di un impedimento specifico), e si stima che il numero possa arrivare a 85 milioni, ovvero più di un terzo dell’intero corpo elettorale.
Non solo. Invitato più volte a condannare le milizie armate dei suprematisti bianchi e i cosiddetti Proud boys, gruppo neofascista nato nel 2016, si è rifiutato con altrettanta decisione (lui, che ha fatto dello slogan law and order un tormentone elettorale), ripetendo che le uniche minacce all’ordine pubblico provengono dall’estrema sinistra, e lanciando agli orgogliosi armati un messaggio sconcertante: stand by, state pronti! Poi corretto in stand back, state indietro, e infine in stand down, state giù. Ma mai una condanna chiara, che è quello che ci si dovrebbe aspettare dal presidente di una grande nazione democratica, particolarmente in presenza di pericolosi segnali come la recente scoperta di un piano per sequestrare la governatrice democratica del Michigan.
Uomo assolutamente sprovvisto di senso morale, di visione, di strategia, di valori; orgoglioso della propria ignoranza e capace solo di ripetere slogan frusti diretti alla pancia dell’elettorato, Trump va preparando uno scenario da incubo per la sera del 3 novembre nel caso i numeri gli siano ostili. Da lui non c’è da aspettarsi un comportamento come quello tenuto da Al Gore nel 2000, quando, dopo che l’alta corte ebbe interrotto il riconteggio dei voti nel decisivo stato della Florida, con grande amarezza e un superiore senso dello stato, concesse la vittoria a Bush e uscì di scena. Trump combatterà con le unghie e con i denti. Anche perché è consapevole che, lasciando la Casa Bianca, si troverebbe a dover fronteggiare una sequela d’inchieste giudiziarie e congressuali.
La fragilità del suo avversario contribuisce all’incertezza dell’esito elettorale: Joe Biden ha quattro anni più di Trump, il prossimo mese compirà 78 anni, ne avrebbe 82 alla fine del suo mandato, e non potrebbe aspirare ad un secondo. Politico di razza, ha rappresentato lo stato del Delaware nel Senato federale ininterrottamente dal 1973 alla sua elezione come vice di Obama nel 2008 (nei suoi volgari attacchi Trump insiste sempre su questo dato, oltre a quello diffamatorio sulla ‘criminalità’ della famiglia, come già fece con successo contro Hillary Clinton nel 2016, e la scorsa settimana ha postato su Twitter un fotomontaggio di Biden in sedia a rotelle in una residenza per anziani con la scritta Biden for pResident).
Ma se non è un Superman, come al presidente in carica piace infantilmente presentarsi, nella sua lunga esperienza politica il candidato democratico ha dimostrato una grande capacità di resilienza: colpito dai castighi della vita, ma pur sempre invictus, come nella celebre poesia di William Ernest Henley. Poche settimane dopo la sua prima elezione a senatore, nel dicembre del 1972, Biden perse la moglie e la figlia di un anno in un incidente stradale. Era in quel momento il più giovane senatore eletto nella storia degli Stati Uniti, e considerò seriamente di rinunciare all’incarico per occuparsi dei due figli di due e tre anni sopravvissuti all’incidente. Ma venne convinto dal capogruppo democratico al Senato a mantenere l’impegno preso con gli elettori, e da quel momento avrebbe svolto con una dedizione religiosa il suo ruolo.
Quando, nel 2007, scelse di intitolare la sua autobiografia Promises to keep (Promesse da mantenere), il senatore Biden non sapeva che la vita gli riservava un’altra altissima tragedia, la richiesta di un’altra difficile promessa. Sarebbe accaduto nel 2015. Colpito da una malattia ormai irreversibile, il figlio maggiore Beau, divenuto nel frattempo un brillante magistrato, gli disse che, qualunque cosa fosse successa, sarebbe stato bene, e chiese al padre di promettergli di fare altrettanto. Vicenda che lo stesso Biden ha poi rievocato nello struggente memoir Promise me, Dad (Promettimi, babbo). Solo una diabolica malvagità poteva spingere il presidente a chiedere a un capo di stato estero di indagare sull’attività d’imprenditore del secondo figlio di Biden, vincolando all’esito di queste indagini la fornitura di aiuti militari; e solo un grado altissimo d’irresponsabilità istituzionale poteva spingerlo a manipolare la politica estera del suo paese per danneggiare un avversario politico.
Al di là delle loro qualità personali Trump e Biden rappresentano due idee opposte d’America: una chiusa in se stessa e nazionalista, l’altra aperta e multiculturale, fedele alle origini illuministiche della sua costituzione, nel rispetto della quale è cresciuto il paese. Se dopo quattro anni Trump potesse veramente vantarsi di aver reso di nuovo grande l’America (era questo il suo slogan nel 2016, Make America Great Again), Machiavelli meriterebbe di marciare con i santi in Paradiso.
Quali sono dunque le previsioni elettorali per il 3 novembre? Tutti i sondaggi danno il candidato democratico in vantaggio a livello nazionale, con uno scarto di voti che va dall’8 al 18%. E si può esser certi che Joe Biden vincerà il voto popolare, così come lo vinse Hillary Clinton quattro anni fa con un vantaggio record di quasi tre milioni di voti, anche in virtù di un’affluenza alle urne che potrebbe essere la più alta dall’introduzione del suffragio universale. Tanto è l’isolamento politico in cui è caduto Trump, avendo egli calpestato tutti i principi e le norme fondamentali di un comportamento ‘presidenziale’, come dicono gli americani, che ha spinto molti suoi ex alleati ad abbandonarlo.
La sua gestione della pandemia è stata disastrosa, e si tratta di una questione primaria nella campagna elettorale, forse più importante dell’economia; una questione che, nonostante le superficiali e contraddittorie rassicurazioni del presidente ripetute anche nell’ultimo dibattito televisivo, ma contraddette dal virologo Anthony Fauci, preoccupa giustamente i due terzi dell’elettorato. In molti stati sono nati comitati di “repubblicani contro Trump”, mentre nelle ultime settimane la sua campagna ha registrato una crescente difficoltà a reperire fondi per sostenere i costi altissimi della pubblicità televisiva: forse un segnale che anche i centri del potere economico, in allarme per la capacità distruttiva di Trump, non si sentono più motivati a sostenerlo. Il rischio di una crisi istituzionale spaventa Wall Street più di una vittoria democratica.
Ma sappiamo che il vincitore reale è determinato da un organo denominato Collegio elettorale, non dal voto popolare: una peculiarità della costituzione americana che non può essere messa in discussione perché alla base del sistema federativo. Dal cittadino allo stato e dallo stato alla nazione: e pluribus unum. Può essere utile ricordarlo: nell’election day gli americani non sono chiamati ad eleggere direttamente il presidente, ma i grandi elettori di ciascun stato con la regola del chi vince prende tutto (questa regola, veramente, non è nella costituzione, ma è stata adottata quasi all’unanimità dai singoli stati, con l’eccezione del Maine e del Nebraska).
Il numero di grandi elettori a disposizione di ciascun stato è calcolato in base alla popolazione residente, viene aggiornato ogni 10 anni da un censimento, e varia attualmente dai 3 di un piccolo stato come il Vermont ai 55 della California, per un totale di 538 grandi elettori: tanti quanti la somma dei senatori e dei rappresentanti del Congresso e del Distretto di Columbia. Il numero per assicurarsi la vittoria è quindi 270. Un candidato può vincere il voto popolare, ma perdere il voto elettorale. È successo cinque volte nella storia degli Stati Uniti: tre volte nel XIX secolo (1824, 1876, 1888), mai nel XX, già due volte nel XXI (2000 e 2016).
Ci sono stati che tradizionalmente votano democratico (il Nordest e la West Coast), stati che votano costantemente repubblicano (sud e centro), e ci sono i cosiddetti swing states, gli stati in bilico, che votano ora democratico ora repubblicano: sono gli stati in cui si combatte la campagna elettorale, dove i candidati spendono la maggior parte delle loro energie e delle loro risorse economiche. La Florida, con i suoi 29 grandi elettori è il più importante. La Florida, che costò a Gore l’elezione per uno scarto di soli 537 voti quando ne aveva 543.895 in più di Bush a livello nazionale. La Florida, la Pennsylvania, il Michigan e il Wisconsin, che costarono l’elezione a Hillary Clinton per uno scarto di circa 200.000 mila voti quando ne aveva 2.868.686 in più di Trump a livello nazionale.
Anche per questo motivo Trump ha spostato la sua residenza da New York alla Florida, e per questo motivo è apparso nel dibattito televisivo a distanza del 15 ottobre da Miami. L’elettorato ‘latino’, composto per lo più da cittadini di origine cubana fieramente anticomunisti, a cui si sono aggiunti negli ultimi anni i rifugiati venezuelani, ha un ruolo importante nello stato, ed è principalmente a loro che Trump grida i suoi farneticanti allarmi sul socialismo che una vittoria di Biden fatalmente introdurrebbe in Florida e nel resto del paese, sul sostegno che Maduro offrirebbe a Biden, e altre simili stravaganze. Molti di loro sono afro-latini, come lo stesso attuale capo dei Proud Boys, un pluricondannato per furto cresciuto nella Little Havana di Miami, eppure sostengono con entusiasmo l’interprete di un’America bianca che combatte futilmente per non essere minoranza. Nonostante ciò, anche in Florida Biden è in vantaggio nei sondaggi, sia pur con un margine molto inferiore a quella nazionale: una vittoria di misura renderebbe più facile a Trump denunciare la presenza massiccia di brogli elettorali, che suonerebbe come una chiamata alle armi per i suoi sostenitori.
Ma lo stato della Florida, anche se importante, non è essenziale per assicurare la vittoria a un candidato: non lo fu per Clinton nel 1992, che perse la Florida ma vinse la Pennsylvania e quasi tutti gli stati del Midwest conquistando 370 voti elettorali, 100 in più del necessario. E non lo fu per Kennedy nel 1960, che perse non solo la Florida, ma anche la California, vincendo però in Texas e assicurandosi così 303 voti elettorali. Gli ultimi sondaggi indicano che il vantaggio di Biden stia crescendo in Pennsylvania, Wisconsin e Michigan, stati che permetterebbero a Biden di raggiungere e superare la soglia dei 270 voti elettorali anche senza la Florida. È vero che proprio in quegli stati le previsioni fallirono clamorosamente quattro anni fa, ma secondo esperti americani i sondaggisti avrebbero corretto gli errori commessi nel 2016, e le loro previsioni sarebbero stavolta più affidabili.
Molti pensano che l’alta affluenza alle urne potrebbe causare una valanga azzurra (il colore del partito democratico), che darebbe a Biden un ampio margine nel voto elettorale e ridurrebbe l’efficacia delle inevitabili recriminazioni di Trump, soprattutto se associato ad un cambio di maggioranza nel Senato (il 3 novembre verranno eletti anche 35 senatori su 100, oltre che tutti i 435 membri della Camera dei Rappresentanti e 11 governatori), senza però eliminare la minaccia di reazioni violente. Non c’è dubbio che il dispiegamento di forze dell’ordine, durante e dopo l’election day, sarà massiccio. E se si dovessero verificare scontri violenti tra manifestanti e polizia, non è da escludere che Trump possa invocare una legge federale denominata Insurrection Act che conferisce al presidente il potere di dispiegare le forze armate e truppe della Guardia Nazionale dei vari stati sotto comando federale.
Trump ha già minacciato di farlo nella primavera scorsa, ricevendo una risposta negativa dal Pentagono, e potrebbe riprovarci. Ma troverà sul suo passo la pluralità delle istituzioni democratiche. Se fino ad oggi è riuscito a sopravvivere alle indagini sulla sua campagna del 2016, ai molteplici scandali che hanno riguardato il circolo più stretto dei suoi collaboratori, e a un processo di impeachment, Trump si trova ora a fronteggiare la sfida più difficile.