Prima della costruzione del sistema infrastrutturale dell’Acquedotto Pugliese, avviata nel 1906 con l’intento di risolvere il millenario problema della penuria di risorse idriche nella nostra regione – non essendo, peraltro, il sottosuolo pugliese ricco di acqua facilmente estraibile – a soddisfare la sete dei cittadini era l’acqua piovana raccolta nelle cisterne. In passato le difficoltà connesse all’approvvigionamento idrico non hanno mancato di destare ansia e preoccupazione, anche per via del nostro clima, caratterizzato da lunghi periodi di siccità e da brevi ma intense precipitazioni.
Fino alla metà del Cinquecento venivano utilizzate dalla popolazione diverse cisterne pubbliche poste all’interno della città antica di Bitonto(leggi qui). Ricordiamo, ad esempio, quelle dislocate intorno alla cattedrale: una sotto il sagrato antistante, l’altra nella piazza (leggi qui) ai piedi della facciata laterale. Ben presto, però, questi serbatoi si dimostrano insufficienti a soddisfare le necessità dei cittadini, così che, tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, l’Università si impegna in maniera lodevole, nella realizzazione di cisterne pubbliche extraurbane, di notevoli dimensioni, di accurata costruzione oltreché di grande senso estetico. Il governo della città bitontina, difatti, manifesta esplicitamente una certa premura a risolvere la questione legata alle riserve idriche, destinate soprattutto alla parte più povera della popolazione e ai ceti meno abbienti.
È interessante, innanzitutto, notare come tali riserve idriche vengano ubicate fuori dalla cinta muraria (leggi qui), nelle vicinanze delle porte urbiche, da dove si dipartivano le strade che congiungevano Bitonto ai diversi conventi extraurbani e ai centri limitrofi. La scelta della collocazione di tali cisterne nasce essenzialmente dall’esigenza di trovare spazi idonei fuori dalle mura della città, oramai satura, ma anche per il semplice motivo igienico di raccogliere le acque da luoghi meno trafficati. L’individuazione del sito non è mai casuale, anzi strategica, non solo per lo spazio da occupare, considerata la dimensione di questi serbatoi, ma soprattutto per l’idoneità del luogo ad offrire una conveniente “dote”, ovvero la capacità di raccogliere una certa quantità d’acqua piovana, sfruttando la naturale conformazione orografica.
Quattro erano le principali porte di accesso alla città antica e altrettante sono state le grandi riserve idriche realizzate fuori dalle mura. All’esterno di Porta Robustina, sulla via per Ruvo, si trovava una volta la Pescara della Commenda, della quale purtroppo non conserviamo più alcuna traccia, mentre fortunatamente si sono conservate le altre tre grandi cisterne. La prima ubicata fuori dalla Porta Baresana, sulla strada che conduce a San Leone e alla marina, denominata Cisterna della Corriera. Una seconda posta in prossimità di Porta Pendile, attigua alla chiesa di Santa Maria del Popolo, divenuta poi Santa Teresa, perciò nota più comunemente come Pescara di Santa Teresa. Infine, la cosiddetta Pescara del Carmine, realizzata nelle vicinanze di Porta Lamaja, subito dopo il ponte, di fronte all’Istituto Maria Cristina di Savoia.
La pescara della Commenda era così chiamata perché si trovava “sotto il muro di un podere della mensa vescovile“, come si evince chiaramente dalla citazione nell’opera “Della Via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi“, del 1745, di Francesco Maria Pratilli, prete, archeologo e antiquario italiano, vissuto tra ‘600 e ‘700. Non si hanno, tuttavia, elementi certi per datare la sua costruzione: non è noto, infatti, se sia coeva o meno alle prime due cisterne ancora esistenti sopra menzionate. Delle altre tre cisterne pubbliche sappiamo, invece, che due di esse sono state costruite tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII e restaurate poi nel XIX, come attestano semplici epigrafi, mentre la terza è del XIX secolo.
Ciononostante da alcuni documenti dell’archivio comunale, conservati presso il Museo Archeologico della Fondazione De Palo-Ungaro, si rileva che, tra il 1813 e il 1835, la pescara della Commenda è interessata da alcuni interventi di modifiche legati principalmente alle vicissitudini per la conformazione della piazza di Porta Robustina, progettata dall’architetto Giuseppe Gimma, elaborata con tutta probabilità già a partire dal 1812. In queste scritture pur se si fa continuamente cenno all’esistenza dell’antica cisterna fuori Porta Robustina, effettivamente non viene riportato nessun nome. In fase piuttosto avanzata dell’iter progettuale, in una perizia redatta proprio dal Gimma, il 16 agosto 1819, si fa riferimento, comunque, alla presenza di questa struttura nei pressi della cocevola del Capitolo della cattedrale e della cappella delle Grazie. Così, in quel periodo, era chiamata la chiesetta intitolata a San Valentino, nella quale per antica tradizione si vestivano dei paramenti pontificali i vescovi eletti di Bitonto. Il culto dell’antico protettore della città già da metà Cinquecento era stato soppiantato da San Simeone e, successivamente, dalla metà del Seicento, dalla Madonna delle Grazie: difatti, nella ricorrenza della festività veniva trasferita l’immagine della chiesa del Miglio oltre ad apparire dipinta pure nella conca absidale della chiesetta.
Nella lettura dei documenti d’archivio cattura l’attenzione la descrizione che Giuseppe Gimma ci restituisce sullo stato in cui si trova il largo fuori Porta Robustina prima dei lavori, contenuta nella stima della spesa che richiede la realizzazione del suo progetto, stilata il 4 settembre 1825, dopo oltre dieci anni dall’inizio della vicenda. Il largo si presenta con “una figura rettangolare di lunghezza quasi di 600 palmi, dalla porta del Paese, e di larghezza di 160 palmi”, equivalenti agli attuali 156 per 42 metri. Lo slargo appare “sfigurato, (brutto ed inaccessibile), con fossi e prominenze di materiali deposti, e a stenti si passa per sole due tracce ristrette, le quali menano a Ruvo e Terlizzi … lo spiazzo si trova arginato tra dei muri, disposti sui lati lunghi, e sotto di esso esiste una pubblica cisterna”. E ancora: “per rendere decente l’ingresso alla città dalla via di Ruvo, e poter dare la conveniente “dote” a questa cisterna”, utile alla popolazione, è necessario che il suolo di questo largo sia compianato e configurato in modo da conseguirsi i due importanti obiettivi“.
A seguire l’arch. Gimma, nelle varie voci di computo, chiarisce meglio in cosa consistono le opere da eseguire, precisando che “dalle livellazioni praticate si è rilevato che in tutto l’ambito del largo sarà utilizzato solo un terzo di materia estratta dal cavo a farsi, necessari per le diverse parti basse da rialzare, mentre i due terzi sarà trasportato con traini nell’antico fossato esistente, già in parte colmato”, corrispondente all’odierna Via Solferino. Sopra l’antica cisterna esistente, “su di un lato lungo di questo largo, deve rifarsi la copertura in basole di pietra bianca … e le due bocche di pietra della cisterna, ciascuna composta da un solo pezzo, di figura circolare di palmi 4 e 1/2 di diametro, elevata dal basolato di palmi 2 e 1/2″. Aggiunge, infine, che “la configurazione del largo descritta porta alla conseguente realizzazione di una rampa della strada rotabile verso nord (oggi coincidente con Via Magenta, ndr) tra i muri di cinta dei poderi ortalizi e le mura di cinta della città, che ha l’obiettivo di condurre l’acqua alla predetta cisterna“.
In questa prolungata vicissitudine, che vede da una parte i lavori di spianamento dello spiazzo fuori Porta Robustina e dall’altra il conseguente abbassamento dell’antica cisterna, sono implicati diversi tecnici e si alternano varie amministrazioni. Nell’annosa vicenda emerge pure il contrasto latente tra i due tecnici coinvolti nella prima fase dei lavori: l’architetto Giuseppe Gimma di Polignano e l’altamurano ingegner Donato Giannuzzi. Quest’ultimo, infatti, nella giornata del 9 gennaio 1813 redige una perizia e due stime. Nella prima specifica che l’intervento di livellamento dello spiazzo è subordinato all’abbassamento delle due cisterne di acqua piovana, quindi tiene a precisare che si tratta, in realtà, di due cisterne e non di una, “situate all’imboccatura della Porta Robustina e precisamente sulla novella strada che dalla porta (urbica) conduce alla contrada Palombaio”: un’operazione che si rende necessaria non solo per rendere la strada trafficabile, ma anche per poter immettere nei due pozzi l’acqua piovana di cui tanto necessita la popolazione. Seguono le due stime, una per l’appianamento del largo di Porta Robustina, e l’altra inerente all’abbassamento delle due cisterne. A fine mese, il 30 gennaio 1813, il sindaco Nicola Bovio annuncia attraverso un manifesto i lavori per lo spianamento e per la conformazione del largo fuori la Porta Robustina, da eseguirsi secondo la pianta elaborata dall’arch. Gimma.
In un secondo momento, il 28 novembre 1816, per queste opere si aggiudicano la gara d’appalto gli esecutori Carlantonio Cajati, Giovanni Caiati e Nicola Sorgente: il documento è firmato dal sindaco Tommaso Ancarano, Eustachio Rogadeo e Diego Gentile. Dopo diversi anni, tra probabili sospensioni e problemi di altra natura, tra cui i danni causati al muro della mensa vescovile, il 15 dicembre 1825, durante il mandato del sindaco Don Giovanni Lucarelli, si aggiudica la gara d’appalto – per i lavori del livellamento dello spiazzo, l’abbassamento della rampa dello stradone contiguo al giro delle mura di cinta, e la pavimentazione in basole della copertura della cisterna pubblica esistente – il capomastro Nicola Ranieri, mentre il garante dell’opera è Pietro Sannicandro.
Successivamente su questo manufatto interviene anche l’architetto Francesco Lerario. Il suo progetto, afferente ancora una volta la riduzione in altezza della cisterna, funzionale alla realizzazione dello spiazzo, e l’ingrandimento della stessa, viene presentato in comune il 20 agosto 1834. La vicenda ci viene riferita anche da Luigi Sylos, nel terzo volume del suo libro Bitonto nella storia, il quale lascia quasi intendere, tuttavia, che si tratta della creazione di una nuova cisterna. È importante evidenziare che il Lerario rispetto ai suoi predecessori, l’arch. Gimma e l’ing. Giannuzzi, descrive in maniera più puntuale la conformazione della cisterna pubblica, che si trova al di sotto dello slargo di Porta Robustina. A tal proposito, infatti, afferma: “vi sono due antiche cisterne disposte a croce”, una misura 70×14 palmi, l’altra è suddivisa in tre porzioni, aventi le dimensioni dei vani in palmi rispettivamente di 25×13, 50×13, e 20×13. A questo riguardo, nella consultazione dei documenti dell’archivio comunale, è stata davvero una sorpresa inaspettata il ritrovamento di un eidotipo (lo schizzo) della pianta di questa struttura, presente nel fascicolo relativo ai “lavori di riparazione delle cisterne comunali“.
Questo disegno ci dà l’idea esatta di quella che poteva essere la forma della cisterna di Porta Robustina, in conformità con la descrizione fatta proprio dall’arch. Lerario. Il 24 agosto 1834 il sindaco Frisicchio presenta questo progetto al decurionato (l’odierno consiglio comunale) che lo approva, deliberandone l’esecuzione in economia, e poi autorizzato con nota del 25 ottobre 1834. I lavori iniziano il 5 febbraio 1835: l’artefice è il muratore Francesco Bulzis, con la vigilanza alle opere pubbliche del cavaliere Carmine Sylos. L’esecuzione con la formula dei lavori in economia si rivela non proprio conveniente, perché durante lo stato di avanzamento si verificano ben cinque richieste di fondi per il proseguimento dell’opera. Il saldo dei lavori avviene il 19 luglio 1835, con un conto consuntivo superiore al preventivo, vistato dai componenti dell’apposita deputazione: Gaetano Regna, Antonio Planelli e lo stesso Luigi Sylos, cronista di quest’ultimo avvenimento.
Verso la fine dell’Ottocento queste pubbliche cisterne diventano sempre meno salubri, perché l’acqua piovana raccolta e prelevata spesso finisce col divenire fonte di infezioni e malattie: una precarietà igienica che deriva essenzialmente dalla mancanza di “purgatoi”, per cui le lordure dopo le piogge, si riversano liberamente nelle cisterne, rendendo così l’acqua malsana. È per questo che nel 1886 per rendere potabili ed igieniche le acque delle cisterne pubbliche, l’amministrazione guidata dal sindaco Avv. Vito Fione provvede a dotare questi manufatti, di filtri costruiti in opera. Il progetto viene curato dall’architetto Michele Masotino, allora tecnico delle opere comunali. I lavori riguardano solo tre cisterne pubbliche ancora in uso: tra queste quella fuori Porta Robustina, oltre a quelle fuori Porta Pendile e fuori la Porta del Carmine. È probabile, quindi, che in quella data la cisterna del Corso fosse stata già dismessa, forse perché dislocata in un luogo oramai troppo trafficato. Le opere, che prevedono la realizzazione di pozzetti di scarico e di filtro in muratura, vengono eseguite dall’impresa Miccolis Vitantonio, come da contratto, stipulato il 3 febbraio 1886, mentre il collaudo, con il parere favorevole del Genio Civile, avviene il 2 agosto 1889. È l’ennesimo intervento sulla cisterna di Porta Robustina; dopo di che non ci è dato sapere altro. E tuttavia, il destino di questo manufatto è ben noto.
Oggi di questo serbatoio, infatti, non esiste nessuna memoria. Ed è davvero un peccato che con la sistemazione di Piazza Caduti del Terrorismo non sia stata compiuta un’indagine per individuare quella che era la giusta posizione, in maniera da poter lasciare almeno una traccia nel disegno del suolo dello spazio urbano. Un’occasione persa!
Nell’immagine in alto, eidotipo della Cisterna di Porta Robustina, contenuto in un fascicolo dell’archivio comunale, conservato presso il Museo Archeologico – Fondazione De Palo-Ungaro.