La casa di famiglia di Michele e Rosangela è molto bella, arredata con gusto. Di là, una spinetta troneggia al centro del soggiorno, pieno di quadri e di libri. Di qua, un tavolo rettangolare, sotto cui scodinzola un gatto, che dopo essersi poggiato su un vetro freddo scappa lontano. Di fronte ho Rosangela: “tortura” i cordoncini della sua felpa con cappuccio mentre parla di Michele. Superintelligente, creativo, elegante: sono i tre aggettivi che snocciola, con ritmo cadenzato, per definire il suo compagno, l’ingegnere bitontino scomparso cinque anni fa, il primo marzo 2014.
“Aveva l’intelligenza come categoria di appartenenza. La sua mente era continuamente in cerca di qualcosa. Sempre silenzioso ma anche sempre in movimento, con un’eleganza innata, alimentata da un grande senso della discrezione”, osserva la moglie, mentre il suo sguardo cerca un confine incerto, impercettibile, di sicuro non misurabile.
Dopo gli studi scientifici, Michele si laurea in ingegneria civile. Un ammiccamento verso gli studi di architettura, chissà forse un sogno mancato, poi il lavoro, dapprima in team con cinque colleghi, poi con lo studio associato Ancona-Cariello (la sua prima moglie, Milli, scomparsa per un improvviso malore)-Castellaneta. La sua dedizione al lavoro è totale.
Il suo è il classico “saper fare”: impegno, spirito di abnegazione, una presenza costante sui cantieri, riscuotendo il rispetto e l’ammirazione di quanti lavorano per lui. Un condividere il tempo e, dunque, la fatica col sole, il vento e la pioggia. “Venite sui cantieri e vedrete cosa è la stanchezza”, ripete se qualcuno a casa si lamenta.
Castellaneta ha mille interessi: la fotografia, la pittura (in casa moltissime sue opere), la musica (su tutti Jimi Hendrix e i Genesis), l’amato ping pong, il biliardo ma soprattutto il ciclismo. Per praticarlo fuori stagione, in casa, si inventa una bici fissata al pavimento, con un leggio sul manubrio dove sistemare libri e leggere durante la pedalata.
Michele è anche designer di mobili e monili. Ama viaggiare. Organizza un viaggio a Berlino, informando la sua famiglia all’ultimo momento. I figli sono piccoli e affrontano l’esperienza controvoglia. Ma quella trasferta si rivelerà la più bella.
Ha un carattere non schivo ma misurato, Michele Castellaneta. Una persona che riflette sempre prima di parlare. “Si risponde solo se ne vale la pena”, replica alla moglie, che fatica a tenere a controllo la sua esuberanza.

Ben 24 gli anni passati insieme. Molte volte sfiorandosi appena, visto il lavoro di Michele particolarmente impegnativo. Tanti anni d’amore ma, paradossalmente, con pochi momenti in comune: un rapporto che si nutre con telefonate continue, con una presenza costante anche se a distanza. Presenza nel senso più alto e significativo del termine.
Poi i figli: Francesco e Giuseppe, desiderati immensamente, per i quali Michele ha un disegno preciso, pur non essendo coinvolto “direttamente” nella loro crescita. Amorevole ma anche rigido, impone regole precise per responsabilizzarli già da piccoli.
Loro hanno ereditato la passione per il cinema e la musica, trasmesse da entrambi i genitori, forse anche inconsapevolmente, vissute come esempio e impronta. Ogni domenica pomeriggio al cinema. Appuntamento fisso.

Francesco, che oggi studia cinema all’Accademia di Belle Arti Rufa di Roma, realizza un cortometraggio sul “Miles Gloriosus” di Plauto quando, ad appena 16 anni, studente del liceo classico, accoglie l’invito del professore alla classe a realizzare un qualsivoglia lavoro su quel testo. Il piccolo film viene presentato a scuola e Michele, quel giorno, non sta nella pelle, si muove, si agita sulla sedia, forse avverte che suo figlio ha trovato la strada che poi percorrerà in futuro.
Giuseppe, il secondogenito, ha ereditato l’amore per la musica, grazie a quel pianoforte che ama tanto. Tra i primi brani suonati, quello di Yann Tiersen, molto amato da suo padre.
Ma Michele Castellaneta, oltre che progettare case, palazzi, spazi aziendali, è stato anche l’ingegnere di importanti opere pubbliche.

Due in particolare: l’hospice “A. Marena”, progettato da lui e dalla sua équipe di collaboratori, e la riqualificazione di piazza Cavour, della quale è dapprima progettista, insieme con altri tre, e poi direttore dei lavori.
Poca traccia di questo impegno, forse, nella coscienza cittadina. Poco riconoscimento per opere che hanno impresso un contributo determinante allo sviluppo e alla qualificazione della città.
Infine, l’ora della malattia: “l’ospite inaspettato che ha bussato alla nostra porta e tu sei andato via con lui”, leggerà Rosangela nel corso di una funzione religiosa. La malattia viene affrontata con grande speranza e tenacia, nella certezza di poterla sconfiggere. Dopo la diagnosi, il viaggio della speranza a Brescia, per ben due volte. Un attacco violentissimo del male che viene ribattuto colpo su colpo ma che poi, cinque anni fa, il primo marzo, vincerà inesorabilmente la battaglia spegnendo la vita di Michele.
E’ il momento più difficile dell’incontro. Le parole di Rosangela si fanno lente, impercettibili, labili. Riprendo subito il filo della conversazione, chiedendole una parola che possa racchiudere tutto l’universo di Michele, il suo essere, il suo saper fare. “La tenacia”, mi risponde, “mi ha insegnato la tenacia”. Spengo il registratore, scatto qualche foto, saluto Rosangela e la ringrazio. Esco sul pianerottolo. In alto sul soffitto c’è una finestra circolare. Bellissima, precisa, perfetta. Entra tanta luce da lì.