Non è il titolo a rendere il docente un buon insegnante, quanto, piuttosto, l’esercizio quotidiano grazie al quale, evitando le “trappole” della burocrazia, si acquisisce la giusta “postura” richiesta a chi deve cimentarsi con il compito difficile e complesso, ma pur sempre entusiasmante ed edificante, di formare le generazioni future. Questo il messaggio di fondo della prof.ssa Maria Pia Giuliese.
Con l’intervista all’ex docente di Storia e Filosofia presso il liceo scientifico di Bitonto, prosegue l’inchiesta del nostro giornale “La scuola fra ieri ed oggi”, rivolta a fare il punto sul complesso scenario della realtà scolastica, attraverso l’esperienza di alcuni autorevoli docenti, che hanno lasciato l’insegnamento. La loro testimonianza appare utile a individuare, laddove possibile, le soluzioni che possano rendere il sistema educativo all’altezza dei nuovi tempi, caratterizzati da radicali mutamenti e profondi rivolgimenti, non solo sotto il profilo strettamente culturale, ma anche dal punto di vista sociale, politico, scientifico e tecnologico.
Suggerisco di cominciare questa nostra intervista partendo dalla fine della sua attività di docente, per risalire, poi, alle origini della carriera…
Se dobbiamo partire dalla fine, allora devo parlare necessariamente della festa di pensionamento, momento che resterà per sempre tra i ricordi più belli della mia vita. Gli studenti di oggi e di ieri, i colleghi, i genitori: tutti hanno partecipato affettuosamente a questo momento, rendendolo davvero speciale. Il liceo scientifico “Galileo Galilei” di Bitonto ha rappresentato la tappa finale del mio percorso professionale, dopo gli anni trascorsi ad Andria, a partire dalla fine degli anni Novanta. Lì ho insegnato per quindici anni al liceo classico “Carlo Troya”, contesto privilegiato per mettere a fuoco i contenuti della filosofia e della storia. I ragazzi erano davvero molto brillanti. Il mio primo concorso, andiamo alle origini, giunse con leggero ritardo rispetto al conseguimento della laurea con il prof. Giuseppe Semerari. Fu nei primi anni Ottanta: lo vinsi ed entrai in ruolo, abilitandomi all’insegnamento di materie letterarie. Eccetto un solo anno a Bitonto, ho poi insegnato per diversi anni nella scuola media di Grumo Appula, dove ho imparato a misurarmi con le complesse dinamiche legate a quella fase particolarmente delicata della vita che è l’adolescenza. Poi, come già detto, il liceo classico di Andria e, infine, lo scientifico di Bitonto.
Quali i filosofi che hanno inciso più di altri sulla sua formazione culturale? Cosa ritiene del loro pensiero, per usare la sintassi di Nietzsche, ancora fecondamente “inattuale”?
Quando l’ho frequentata, negli anni Settanta, la facoltà di Filosofia di Bari era attraversata dal confronto-scontro fra gli esponenti di due correnti ideologiche: i marxisti, da un lato, i cattolici, dall’altro. L’appartenenza a una parte era totalizzante, in quei decenni, animati da forti passioni politiche. La mia formazione si orientò verso il pensiero della sinistra marxista. Sebbene alcuni testi abbiano avuto un peso non indifferente nei miei successivi studi, non c’è stato un autore favorito tra i pensatori del canone occidentale. Ho sempre pensato che il compito di un docente di filosofia non dovesse essere semplicemente quello di ripetere, alla maniera dei dossografi antichi, le dottrine dei filosofi da Platone a Sartre, quanto, piuttosto, quello di illustrare una griglia, la più ampia possibile, del loro pensiero, in modo da fornire agli studenti la bussola per meglio orientarsi nella navigazione. Un’importanza centrale, nella mia formazione, ha rivestito anche la filosofia di matrice sociale, imperniata sull’analisi delle forme di esistenza: Pascal, Kirkegaard e Sartre possono essere annoverati fra gli esponenti più significativi di tale filone interpretativo. La fiducia che ho sempre nutrito nei confronti degli studenti mi ha spinto, tuttavia, a non condizionare troppo il loro pensiero con i miei giudizi. Ho cercato di fornire un’interpretazione degli autori e dei fatti nella maniera più oggettiva, fondandomi unicamente sull’argomentazione. Non è stato Kant, quando provava a definire l’Illuminismo, a ricordarci che la causa dello stato di minorità in cui versa l’umanità è proprio l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro?
L’attuale governo Lega-M5S ha messo in cantiere una raffica di novità sul fronte scolastico. Il ministro Bussetti, “distintosi” recentemente per gli attacchi alle scuole del sud, ha varato la sua riforma: niente più test invalsi, addio alla terza prova e diversa articolazione del secondo scritto. Sebbene le circolari ministeriali siano giunte nelle scuole, professori e studenti continuano a rimanere molto perplessi di fronte a una riforma introdotta così di fretta…
Negli ultimi quarant’anni ho visto susseguirsi tante riforme della scuola. I vari tentativi di rimettere in sesto la macchina educativa si sono mostrati, però, fallimentari. Il fatto è che quasi tutti coloro che si sono avvicendati a capo del ministero dell’Istruzione hanno avuto scarsa esperienza diretta col mondo della scuola. Uno degli errori più gravi è stato, a mio avviso, l’introduzione degli invalsi, che hanno portato nelle nostre scuole un criterio di valutazione quantitativo inadeguato alla prassi scolastica, con l’aggravante di aver prodotto forti discriminazioni tra gli studenti del nord e quelli del sud. L’idea perversa, che sta alla base degli invalsi, è considerare la maggiore quantità di informazioni che uno studente possiede rispetto ad un altro, come unico parametro di valutazione. Una delle cause del degrado delle nostre scuole credo sia proprio l’aver sostituito la quantità dei prodotti scolastici alla qualità dell’insegnamento, per cui quel che conta non è più la soggettività dello studente bensì l’oggettività delle sue prestazioni.
La senatrice pentastellata, Bianca Laura Granato, è la firmataria del ddl relativo al dimezzamento delle ore di alternanza scuola/lavoro…
L’alternanza scuola/lavoro ha rappresentato, eccetto per alcuni istituti di alta formazione cui non mancano risorse economiche adeguate, l’aspetto peggiore della riforma della scuola ideata dal governo Renzi. Quel “buona” anteposto alla “scuola”, in realtà, era una parolina magica alla Orwell di 1984: esattamente il rovescio opposto di ciò che è. Sono fortemente persuasa che qualsiasi diploma non sia abilitante al mondo del lavoro, perché le scuole, tutte, compresi gli istituti tecnici e professionali, sono luoghi di formazione e non avamposti per il mondo del lavoro. Non si frequenta la scuola secondaria per imparare un mestiere: l’istruzione è una grande occasione che la società offre agli studenti per aiutarli a diventare migliori, a essere cittadini responsabili e consapevoli. Uno studente diplomato al liceo scientifico può liberamente intraprendere studi umanistici, e viceversa. Le ore di alternanza hanno palesemente dimostrato l’assenza di ogni possibilità per gli studenti di familiarizzare col mondo del lavoro. Né, tantomeno, si sono create opportunità per un inserimento nel mercato del lavoro, oggi sempre più flessibile e precario.
Quanto è importante per i ragazzi vivere gli ambienti scolastici come luoghi di socializzazione, in cui svolgere, fuori dall’orario di lezione, attività teatrali e musicali, realizzare laboratori artistici o discutere di temi legati all’attualità?
É innegabile che le scuole, piene di aule, corridoi e spazi completamente trascurati, siano i luoghi ideali per far vivere ai ragazzi esperienze utili sul piano della formazione e della responsabilità individuale. Se le scuole divengono luoghi di socializzazione a trecentosessanta gradi allora possono svolgere una funzione importante: la scuola come la casa dello studente. Purtroppo, il Miur, nell’impegno prioritario di contenere le spese, non ha fatto, finora, nulla di serio a favore della qualità delle nostre scuole. Per contrastare l’abbandono scolastico si limita a richiedere a dirigenti e docenti di contenere il più possibile le bocciature, contrabbandando come “successo formativo” della “buona scuola inclusiva” la politica deleteria della promozione per tutti.
Passiamo, ora, alla varietà d’intelligenza degli studenti che la scuola dovrebbe valorizzare. Sembra, infatti, che il modello che i professori e i programmi ministeriali hanno in mente, e attraverso cui vengono misurati i rendimenti scolastici, sia costruito sulla categoria della “flessibilità”, un’intelligenza versata in ogni direzione senza alcuna particolare inclinazione per nulla…
La scuola oggi tende ad appiattirsi su livelli medi; tende a privilegiare un tipo di intelligenza convergente, modellata su una forma di pensiero che non si lascia influenzare dagli spunti dell’immaginazione dei singoli alunni ma tende, invece, all’univocità della risposta a cui vengono ricondotte tutte le problematiche. Sarebbe più interessante, invece, coltivare l’intelligenza divergente tipica dei creativi, capaci di soluzioni molteplici e originali perché, anziché accontentarsi della soluzione dei problemi, tendono a riorganizzare gli elementi, fino a ribaltare i termini del problema dando vita a nuove ideazioni. Peccato che quest’ultimo tipo di intelligenza sia poco apprezzato nelle nostre scuole. Bisognerebbe promuovere la cura di quelle capacità e competenze che, è bene dirlo, non sempre si prestano ad essere misurate con metodi standardizzati.
La principale virtù di un docente dovrebbe essere quella di mettersi in ascolto dei suoi studenti. Basta la laurea o l’aver superato un concorso per poter assolvere a questo compito?
Posso dire di aver imparato, in quarant’anni di attività, che fare l’insegnante non significa svolgere una professione. Educare non è un mestiere ma, molto laicamente, una vocazione: realizzare ciò per cui ci si sente chiamati. Se un docente ci mette anche passione in quello che fa, il suo ruolo sarà ancor più decisivo. Avendo a che fare con dei ragazzi in crescita e in formazione, il ruolo dell’insegnante è molto delicato: non deve condizionarne le scelte quanto piuttosto fornire le giuste mappe per meglio orientarsi nel mondo. Un docente dovrebbe intrattenere un rapporto empatico con i suoi studenti nel rispetto dei reciproci ruoli e delle diversità, partendo dal presupposto che una competenza disciplinare specifica è fondamentale. E’ risaputo che tanti professori non hanno una preparazione sufficiente nella loro materia, a riprova del fatto che la laurea è solo un pezzo di carta e non è indice assoluto di competenza. Anche un pizzico di carisma risulta indispensabile, a patto che non determini situazioni di plagio da parte del docente sugli studenti.
Lei ha insegnato per tanti anni al liceo scientifico “G. Galilei” di Bitonto. Ritiene che il sapere scientifico, in un’epoca in cui persino le verità della scienza appaiono minacciate dalle fake news, possa declinare, anticipando una nuova era dell’oscurantismo?
La scienza sta attraversando una fase di progresso senza precedenti. Ma dobbiamo metterci d’accordo su cosa si debba intendere per scienza. Non esiste la scienza in generale; esistono scienze specifiche, con metodologie e progetti di ricerca propri che condizionano e diversificano i procedimenti di accertamento e di analisi. Per fare un discorso corretto sulla scienza è necessario entrare nel campo delle specializzazioni e operarvi con serietà e rigore. Solo dal di dentro, dopo aver esposto in concreto ciò che sollecita la ricerca, sarà possibile formulare giudizi sul suo intimo senso e sulla sua destinazione. In quanto operativa, la scienza si organizza in base ai suoi risultati, intesi come mezzi in vista del procedere ulteriore. Il suo metodo è molto elementare: si parte da osservazioni, si fanno ipotesi e si verifica se queste ultime trovano conferma o smentita nell’esperienza. Se, poi, dalla combinazione dei dati scaturisce qualcosa di “economicamente” vantaggioso, si ha una ricaduta di una qualche utilità. La sola etica della scienza è sapere tutto ciò che si può sapere, a prescindere dagli scopi finali. Sotto questo profilo, dunque, non vedo un arretramento o una marcia indietro nel progresso scientifico, a tal punto veloce che le ultime generazioni, incrociatesi fra loro, non sembrano essersi ancora adattate culturalmente. Riguardo, poi, alle fake news, è oggettivo che, prima dell’avvento di quel grande contenitore che è il web, i giornali, la radio e la tv davano informazioni, sottoponendole a una qualche forma di controllo. Oggi, invece, tutti si sentono padroni dell’informazione solo perché digitano parole o frasi su uno schermo, arrogandosi il diritto di dire tutto ciò che pensano e atteggiandosi ad “intellettuali da tastiera”. E poiché i fatti oggettivi sembrano avere meno presa emotiva delle convinzioni personali, più queste ultime prendono il sopravvento più l’informazione rischia di essere inquinata dal proliferare di notizie false che rischiano di confondere il piano della realtà con quello della fantasia. Siamo al limite dell’assurdo.
Da qualche mese, lei ha preso congedo dal mondo della scuola. Quali progetti ha in mente per il futuro? Pensa di dedicarsi a qualche attività, in particolare?
Sono tanti i progetti che vorrei realizzare, a partire da una sana attività fisica senza tralasciare, ovviamente, la mia passione per i fornelli, come sanno bene i miei studenti, degustatori privilegiati dei dolci che preparavo loro in diverse occasione. Continuo a mantenere contatti con la scuola, attraverso i colleghi e, soprattutto, i tanti alunni che ancora incontro. Mi rallegra il cuore quando, mi salutano per strada con un caloroso “salve prof” e si avvicinano chiedendomi “come sta?”. Da questi piccoli gesti quotidiani capisci che, con passione e non cessando mai di dar loro l’esempio, hai lasciato una traccia di te nella loro vita. Ciascuno di loro è un pezzettino di quel grande puzzle che è l’attività del docente. Amo molto viaggiare e conoscere nuove culture. Se ripenso al passato, direi proprio che il viaggio è stata un po’ la metafora della mia vita, da sempre mossa dalla passione per la scoperta e dalla curiosità di venire incontro all’altro per comprenderlo e aiutarlo. Con la medesima convinzione credo di aver amato la filosofia, la cui essenza non sta nel possesso della verità ma nella sua ricerca. Filosofare è come mettersi in viaggio alla scoperta di chi siamo realmente, tutt’altro che il dogmatismo di un sapere compiuto, definitivo, esaustivo. In questo cammino le interrogazioni e le domande contano più delle risposte e ogni risposta viene nuovamente e continuamente rimessa in discussione. Solo se intesa in questo modo la filosofia può continuare a ritagliarsi uno spazio nel nostro mondo, dischiudendo nuovi orizzonti di senso.
Nella foto in alto, la prof.ssa Maria Pia Giuliese con alcuni alunni