Licenziamenti, contratti precari, sicurezza sul lavoro e cittadinanza. Sono i temi al centro dei cinque referendum abrogativi per i quali si voterà domani 8 (dalle 7 alle 23) e lunedì 9 giugno (dalle 7 alle 15).
Per abrogare le norme in discussione si dovrà tracciare una croce sul “Sì”. I risultati saranno validi, come per tutti i referendum abrogativi, solo nel caso venga raggiunto il quorum, cioè se andrà alle urne almeno il 50% più uno degli aventi diritto. Per ogni quesito è prevista una diversa scheda elettorale e il quorum sarà calcolato separatamente per ognuno: alcuni quesiti, dunque, potrebbero raggiungere il quorum e produrre effetti, altri no. Ogni elettore può decidere di ritirare solo alcune delle cinque schede e rifiutare formalmente le altre al momento della consegna, dichiarandolo al presidente di seggio. Così facendo, quelle schede non saranno conteggiate ai fini del quorum.
Che cosa recitano i quesiti? Quello sui licenziamenti illegittimi si presenta così: «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?». Si chiede, in sintesi, l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti prevista dal contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act, che per i dipendenti assunti dal 7 marzo 2015 ha ridisegnato il sistema di garanzie contro i licenziamenti illegittimi, con il dichiarato intento di limitare l’ipotesi di reintegrazione in azienda, a favore di un rimedio meramente indennitario e graduato a secondo del vizio del recesso accertato giudizialmente. Un impianto, a detta della Corte Costituzionale, determinante un complessivo arretramento delle tutele (C. Cost. n. 12/2025). L’abrogazione porterebbe alla restituzione di un diritto negato, per i fautori del Sì, e a un “ritorno al passato” (copyright Confindustria) per chi invece è schierato per il No.
Il secondo quesito riguarda, invece, l’abrogazione di alcune frasi dell’articolo 8 della legge 604 del 15 luglio 1966, che disciplina i licenziamenti individuali. In concreto, rimuoverebbe il tetto massimo di 6 mensilità come indennizzo da licenziamento illegittimo nelle imprese con meno di 16 dipendenti, fissato da una legge considerata ormai datata, risalente a un periodo della storia d’Italia quando le piccole imprese erano, per lo più, a conduzione familiare, mentre oggi può accadere che fatturino milioni di euro. Il quesito propone, in estrema sintesi, di lasciare al giudice il compito di determinare il giusto risarcimento, senza fissare alcun limite.
Il terzo, uno dei più delicati e sui cui c’è maggiore contrapposizione tra sindacati e imprenditori, è quello che invece propone di eliminare le norme che permettono di stipulare contratti a termine senza una causale. L’obiettivo è favorire la stabilità occupazionale rendendo sempre obbligatorio giustificare la necessità di un contratto precario invece di uno a tempo indeterminato, spiegandone i motivi (stagionalità, progetto specifico, bisogno temporaneo). Andando sui tecnicismi, si chiede di abrogare alcune parole dell’articolo 19 del d.lgs. 81 del 15 giugno 2015: uno dei decreti attuativi del Jobs Act, già più volte modificato. Attualmente, con il decreto Milleproroghe in vigore fino al 31 dicembre 2025, è consentito alle aziende di stipulare contratti a termine più lunghi di dodici mesi con causali “morbide”, come previsto dal decreto Lavoro del 2023. Il governo ha deciso, infatti, di prorogare la misura che elimina il tetto dei 12 mesi per i contatti a tempo previsto del decreto Dignità del 2018. Il datore di lavoro ha quindi oggi piena discrezionalità nel ricorso al tempo determinato, tanto è vero che ben oltre la metà delle nuove assunzioni avviene oggi, per l’appunto, mediante questa tipologia contrattuale.
L’ultimo quesito sul tema del lavoro interviene invece sulla responsabilità solidale nei contratti di appalto, puntando a far sì che il committente sia responsabile in solido in caso di infortunio subìto dai dipendenti delle imprese appaltatrici e subappaltatrici, anche per i danni legati a rischi specifici propri delle loro attività. Anche in questo caso, il dibattito è molto polarizzato. I promotori del sì ritengono che con il referendum si possa garantire un risarcimento più completo e più facile da ottenere, coinvolgendo anche chi ha affidato l’appalto.
L’obiettivo dichiarato è contrastare la logica del massimo ribasso, che spesso, secondo la Cgil, si è tradotta in tagli alla sicurezza e alle tutele contrattuali. Qualora prevalesse il Sì, infatti, la garanzia posta in capo all’azienda commissionaria sarebbe totale, includendo pure i danni derivanti da rischi specifici dell’attività esternalizzata, con il presumibile effetto positivo di ricondurne la logica di selezione delle aziende esecutrici in senso virtuoso e non più, prevalentemente, con criterio del “massimo ribasso”. I rappresentati del mondo delle imprese ritengono invece che estendere la responsabilità al committente significherebbe aumentare la discrezionalità decisionale della magistratura.
Fuori dall’alveo dei referendum sul lavoro, c’è infine quello sulla cittadinanza. L’obiettivo è abbassare da 10 a 5 anni il periodo di residenza legale necessario per diventare cittadini italiani, senza andare a modificare gli altri requisiti richiesti: conoscenza della lingua, il reddito, il fatto di essere incensurati, il rispetto degli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica. Un obiettivo che, per alcuni, potrebbe anche costituire una legittima “scorciatoia” per concedere la cittadinanza ai minorenni, dal momento che leggi come lo ius scholae e lo ius soli non riescono a vedere la luce. Se i loro genitori riuscissero ad avere la cittadinanza un po’ prima, anche per i minorenni la strada dovrebbe semplificarsi.
In ultima analisi, una riflessione sulla questione del quorum e sull’invito all’astensione avanzato da chi sostiene il No. È ovviamente lecito indignarsi se Giorgia Meloni annuncia che non voterà ai referendum proprio nel giorno dell’89esimo anniversario del primo referendum, quello del 2 giugno 1946 fra Monarchia e Repubblica. Ma è anche vero che la tradizione di politici e presidenti del Consiglio nell’invitare gli elettori ad “andare al mare” (come disse Craxi nel 1991) anziché alle urne è lunghissima e trasversale.
Nel 2003 i leader dei Ds Fassino e della Margherita Rutelli e il segretario uscente della Cgil Cofferati invitarono a stare a casa e disertare il referendum voluto da Rifondazione sull’art. 18 nelle piccole aziende. Lo stesso fece il Pd sui quesiti anti-trivelle del 2016: Renzi, segretario e premier, definì il referendum “una bufala” esaltando il non voto come “costituzionalmente legittimo”. E il senatore a vita Napolitano (fino a un anno prima al Quirinale) difese pubblicamente quella posizione: “Se la Costituzione prevede che la non partecipazione della maggioranza degli aventi diritto è causa di nullità, non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria”. Quando poi l’astensione vinse, il renziano Carbone sbeffeggiò col “Ciaone” chi era andato a votare.
I referendum, in realtà, rappresentano uno degli strumenti più diretti di democrazia partecipativa, offrendo ai cittadini la possibilità di decidere su questioni fondamentali che influenzano la vita del Paese. A differenza delle elezioni politiche, in cui si delega il potere a rappresentanti, il referendum permette di esprimere direttamente la propria opinione su una norma o una politica.
Chi sceglie di non votare, dunque, lascia la decisione nelle mani di chi invece partecipa, riducendo l’incisività del dibattito democratico. Ma l’astensione, come in questo caso, può essere usata anche come strategia politica per invalidare referendum scomodi, una tattica che svuota di significato uno strumento pensato per dare voce ai cittadini.
Recarsi alle urne significa esercitare un diritto e un dovere civico, contribuendo attivamente alla costruzione delle regole che governano la società. La democrazia vive di partecipazione: ogni voto espresso rafforza la legittimità delle decisioni e dimostra che il potere appartiene realmente ai cittadini. Indipendentemente dall’opinione su un quesito referendario, votare è sempre il modo più concreto per far valere le proprie idee e influenzare il futuro del Paese.
La democrazia vive di questo. Il contrario è accettare l’autoreferenzialità della classe politica, proprio ciò che alimenta la crescente, grave disaffezione dei cittadini verso le istituzioni.