La “Nicoleide” di Capossela protegge il pubblico del Petruzzelli

Il grande cantautore, ospite della Camerata Musicale Barese, rende omaggio a San Nicola, eletto a protettore delle vittime dei propri errori

Ecco Vinicio Capossela di nuovo sul palco del Petruzzelli nel segno di San Nicola. Con uno spettacolo, anzi, una Nicoleide, che organizza il suo repertorio a partire dai tanti disgraziati, “poveri Cristi”, protetti di San Nicola. Un santo che, nella sua compassionevole tutela, si è fatto protettore – nell’elenco messo a punto da Capossela in questi anni – di marinai, pescatori, scolari, sospettati, perseguitati, prigionieri, condannati a morte, vergini, degli amanti, bottai, farmacisti, speziali, venditori di olio, mercanti di candele, banchieri, prestatori di denaro, mercanti di vino, osti, macellai, clerici vagantes, avvocati e vittime degli errori giudiziari, ragazze da marito e prostitute. 

Ovviamente lo show comincia dal mare, dal naufragio. Con quella Santissima dei Naufragati che è la ballata di chi “non ha lapide, né ossa sulla sabbia”, di chi è andato “senza lacrime, senza gloria”, di quelli che forse persino San Nicola non riuscirebbe a proteggere, incapace di ripetere il miracolo raffigurato nella tela di Corrado Giaquinto. Capossela sceglie di iniziare dal Nostos, da quel “ritorno” omerico che qui sembra essere inteso nella circolarità rappresentata da Franco Piavoli al cinema: quella di un viaggio a ritroso nel tempo, un ritorno dalla ferocia all’innocenza delle origini. La Nicoleide di Capossela prende il via infatti dalle urgenze del nostro tempo, dai mali che lo attanagliano, da un mare che non è solo mitico, ma anche cimitero delle migliaia di nuovi Odisseo che navigano senza bussola, che rischiano la vita per raggiungere una “terra promessa” che, come Itaca, può rivelarsi alla fine tristemente sporca e vuota.

Capossela sul palco del Teatro Petruzzelli (foto: Camerata Musicale Barese)
Capossela sul palco del Teatro Petruzzelli (foto: Camerata Musicale Barese)

I miracoli del Santo diventano quindi strumento per raccontare il presente: i femminicidi (e la “Cattiva Educazione” dei maschi che sta alla loro base), l’umanità che ha smesso di accogliere i “forestieri”, che oggi difficilmente potrebbero abbandonarsi al sonno sicuro sul cuscino della loro “sacchettola”, come cantava invece Matteo Salvatore. Resta su tutti e tutto, un imputato più indiziato di altri: «che il vero male per l’uomo non è quello che soffre, ma quello che fa…», ricordava un sapiente monito di Manzoni posto da Guido Ceronetti oltre quarant’anni fa in esergo ad un suo zibaldone: Il silenzio del corpo (Adelphi, Milano 1979).

Primo ospite d’eccezione della serata, Franco Del Re, in omaggio al leggendario Enzo, cantante corpofonista di Mola Di Bari, curvo sulla sedia per intonare il “Canto del navigante”, che stavolta non è Ulisse, ma il lavoratore di petroliera, di nave cargo, che sta fuori di casa per anni interi, con la “vocc’ amär e u cor gneur”. Uno stupendo canto tratto dal white album di Enzo del Re, ovvero Maul, pubblicato nel 1972, pietra angolare della poetica di un artista autosufficiente, a cui bastava schioccare la lingua e percuotere sedie, valigie e qualsiasi oggetto per ritmare la sua «urgenza di vita».

Franco Del Re con Vinicio Capossela (foto: Camerata Musicale Barese)
Franco Del Re con Vinicio Capossela (foto: Camerata Musicale Barese)

Dalla Puglia, poi, ci si sposta in Basilicata, «giacimento dei canti, delle magie e del sortilegio», come Capossela la descrive nella sua Eclissica. «Oltre il Vulture è la frontiera con il continente di De Martino, di Pasolini e di Carlo Levi, di Scotellaro e di Antonio Infantino». E proprio a Infantino vengono dedicate quelle canzoni popolari che si suonano con il cupa cupa, uno degli strumenti più antichi e diffusi al mondo, in legno, costruito da quei bottai di cui San Nicola è, così pare, protettore. Un piccolo tamburo che non si percuote ma si suona facendo andare su e giù un crine di cavallo infilato in un buco sottilissimo al centro della pelle tesa al massimo. È il momento quindi di Rapatatumpa e di Femmine, sulle donne che raccoglievano il tabacco. Come le mondine al Nord, quello del tabacco era il terreno di confronto degli sfruttatori e degli sfruttati.

E si va avanti con tutte le altre protezioni. Santo Nicola protettore dei carcerati: quelli di cui cantava Oscar Wilde ne La ballata del carcere di Reading, storia gotica con spettri e catene, ma anche poesia militante contro la violenza delle prigioni e contro la pena di morte, così come i detenuti di oggi, abbandonati a loro stessi in condizioni disumane, come ci segnala il numero altissimo dei suicidi nelle celle italiane. Ottantotto lo scorso anno: un record negativo. Santo Nicola protettore degli scolari, quindi dei bambini: quelli della “crociata” di Bertolt Brecht, che nella neve del 1939, durante l’invasione della Polonia, scapparono per sopravvivere agli orrori della guerra, ma anche i bambini di Gaza, che continuano a morire sotto le bombe o per la fame. Più di 50.000 sono stati uccisi o feriti dall’ottobre del 2023. Santo Nicola protettore delle vittime degli errori degli altri, ma, per estensione concessa da Capossela, anche delle vittime dei propri errori, come il Lord Jim di Joseph Conrad, che ha “mancato il colpo” e solo così ha perso la sua innocenza. Santo Nicola protettore degli “esodati”, come i Musicanti di Brema: l’asino, il cane, il gatto e il gallo, destinati a morte da esaurimento nel ciclo produttivo, che si uniscono per fare finalmente una cosa inutile, cioè mettere insieme una banda.

Vinicio Capossela con la sua orchestra (foto: Camerata Musicale Barese)
Vinicio Capossela con la sua orchestra (foto: Camerata Musicale Barese)

Insomma, le protezioni di Santo Nicola, nella Nicoleide di Capossela, si estendono tra passato e presente, tra invenzione letteraria e drammatica attualità. Fino ad arrivare alle protezioni “presunte”, ipotizzate, come quella dei farmacisti e degli osti, che danno il là per recuperare vecchie canzoni come Il Mio Amico Ingrato («Geffer, pillole e goldoni son souvenir delle stagioni, che hanno il vuoto dentro il frigo, che hanno il Maalox per amico») e l’immancabile Che coss’è l’amor, con il suo autoproclamato “re della cantina”. Certo è che San Nicola protegge, ovviamente, i viandanti, come Giovannangelo De Gennaro, da Molfetta, che spesso accompagna Capossela nei suoi tour. Un “musico pellegrino” che proprio al santo in oggetto ha dedicato un bellissimo inno a due voci proveniente dal tredicesimo secolo: “Nicolai Solemnia”, dal manoscritto Pluteo 29.1 custodito nella Biblioteca Mediecea Laurenziana di Firenze. Nella consapevolezza, appunto, che il peso più grande sta nel viaggiare con sé stessi. Un peso spesso “insostenibile”. «Bisogna ricordare che se il viaggiatore solo è quello che arriva più lontano, è anche quello che ha più strada da fare per tornare indietro. Per questo bisogna affidarsi alla strada, al cammino», scriveva Capossela. Che a questo punto dello spettacolo invita il pubblico a prendere la strada. 

Prima della conclusione di questa Nicoleide, però, entra in scena l’impostore Sante Nicola, lontano parente del miracoloso vescovo di Myra, che arriva solo e malaccompagnato da un Krampus lucano, pieno di zecche (“rosse, almeno”, scherza il cantautore). Creatura che ha un ruolo fondamentale, quello di educare allo spavento che vince la paura. Se infatti la paura è paralizzante, lo spavento è pedagogico. Aiuta ad andare avanti. Questo Sante, di nome, e Nicola, di cognome, non compie miracoli, se non al contrario (prima stavi bene, ora non stai bene più: miracolo!), e ammonisce tutti sul fare attenzione a quello che si desidera… capace che poi magari si avvera. 

Il pubblico del Teatro Petruzzelli (foto: Camerata Musicale Barese)
Il pubblico del Teatro Petruzzelli (foto: Camerata Musicale Barese)

Dopo l’apparizione del santo, o del suo surrogato, rimane il simulacro, la reliquia, la prova tangibile del suo passaggio sulla terra attraverso le ossa. Quindi si balla il Voodoo Mambo, mambo osteopatico, e poi si celebra il Cristo Risorto, quello che a Scicli chiamano “uomo vivo”. È il Gioia, al maschile, accompagnato a tavola a mangiare. Trattato da cristiano qualsiasi, perché è morto da Dio ma è resuscitato da uomo. Da Spirito rinato in carne e portato in giro per il paese o, idealmente, tra le sedie della platea del Teatro Petruzzelli fino in cima al loggione, sospinto e sbandato. 

C’è tempo ancora per un ultimo passaggio. Un omaggio a un cantante dell’emigrazione ferroviaria che il nome Nicola se lo è scelto per sé, pur chiamandosi Michele. La serata si chiude con Nicola Di Bari e il suo inno “Vagabondo”. Si torna così sulla strada dei clerici vagantes: «Qualche santo mi guiderà, ho venduto le mie scarpe per un miglio di libertà».