L’amore vero è libero di amare

Lo spettacolo Donna Grace 3.0, in scena a Barletta, è un manifesto artistico a favore delle donne, contro la violenza fisica e di genere e per una vita vissuta pienamente

Non voglio essere vittima di me stessa, solo perché sono donna. Sono donna e non ti amo. Sono donna e posso dire di no. Sono donna e posso dire sì a me stessa, rispettando il mio desiderio di rifiutare un’insistenza ossessiva, figlia di un innato senso del possesso, tipico di chi ha la mania di controllare la vita degli altri (anzi solo la mia) e non certo la propria, che non ha mai avuto nè mai avrà un senso.

Intanto, siamo all’ennesimo, drammatico epilogo, proprio nel momento in cui il governo licenzia il testo del disegno di legge sul femminicidio. Sara Campanella e Ilaria Sula, due giovani ragazze che nonostante avessero deciso di dire no al proprio aguzzino mentale, alle ossessioni complottiste di una mente disumana, hanno pagato il prezzo di dire sì a loro stesse, negando la verità di essere vittime di un amore malato, di una infatuazione, di una ossessione che idealizza un amore che non esiste. Sono le ultime vittime della violenza di genere, dettata da quell’amore tossico che sta ammorbando l’intero paese. Così, le scarpette disposte sulle prossime piazze saranno ancora più numerose e sempre più rosse dell’ultima volta che le abbiamo contate e dato loro un nome.

Grazia Dibenedetto

Cosa possiamo fare perché tutto questo abbia fine? A quanta impotenza dobbiamo arrenderci prima di dire non possiamo fare nulla? Donna Grace 3.0 è un modo per dire che “io donna” non smetto, non devo smettere di vivere. Io voglio vivere, voglio continuare a farlo, ma tu, tu, si anche tu e anche tu, datemi una mano perché l’aiuto non è mai abbastanza. Un “manifesto artistico” a sostegno delle donne, vittime di violenza fisica e di genere. Un tassello meravigliosamente inserito nel progetto messo in campo da Grace, Grazia Dibenedetto, artista e cantautrice barlettana.

“Questo spettacolo è pensato per valorizzare la figura della donna, vista attraverso gli occhi, le menti, le esperienze delle artiste che hanno segnato l’evoluzione delle epoche storiche e musicali del nostro paese. Esperienze che sono servite a raggiungere punti di rottura e a determinare il progresso della condizione femminile nella società”, spiega Grazia.

Un excursus magistralmente accompagnato dalle incursioni narrative dell’artista, attrice e scrittrice Michela Diviccaro, che insieme alle impeccabili performance di Grace, che si è avvalsa del contributo dei musicisti Alex Terlizzi (tastiere), Ruggiero Balzano (basso) Nik Seccia (chitarre) e Marco Valerio (batteria), ha illustrato con la forza evocativa della parola, step by step, l’evoluzione della figura della donna nelle varie stagioni della storia del paese attraverso la musica, di cui il cantautorato è l’espressione più alta.

Quando Michela descrive, a partire dagli anni ’50, una donna succube, una donna dipendente dal retaggio culturale familiare, che passava dalla padella alla brace, dal controllo esercitato all’interno della famiglia d’origine, magari da parte di un padre padrone, a quello subito tra le pareti della nuova casa, magari portata in dote dal marito. Un vero cappio, al quale la donna aveva dovuto appendere tutte le aspirazioni ad una vita vissuta in maniera autentica e libera. Tu, che oggi, sei una nonna, ieri eri una donna del periodo 1.0 e, magari, la domenica mattina, per i vicoli del quartiere, quando si preparava il ragù nelle famiglie più benestanti, potevi annusare nell’aria insieme alla scia del buon odore le note di Nilla Pizzi che con Grazie dei Fior aveva lasciato un primo segno nella musica italiana, raccontando dei sentimenti della donna, dell’emozione insita in un rapporto fatto di pudore e di rispetto.

Michela Diviccaro

Un’identità, questa della donna, che sul fare degli anni 60/70 sfavilla, pullula di rivalsa, dando avvio alle epoche della rivoluzione, quelle della Donna 2.0, attraverso le voci di Rita Pavone, Mina, Loredana Bertè, leonesse da palcoscenico, fautrici del risveglio della coscienza femminile. Questo dimostra come l’arte della parola, attraverso la musica e la scrittura abbia segnato profondamente la società nel corso degli anni. Dice bene Michela Diviccaro quando afferma “Il valore dell’arte non è solo quello di arrivare alla gente, attraverso le molteplici tipologie di linguaggio, ma soprattutto di parlare della gente che una voce non ce l’ha. Il palcoscenico come luogo che assume una funzione sociale più ampia, non fine a sé stessa, con l’obiettivo di denunciare ciò che non funziona nella nostra comunità di esseri sociali perchè possa cambiare. L’arte deve essere motore e matrice del cambiamento.” 

Ma il cambiamento in cui speriamo è un traguardo ancora lontano che si costruisce giorno per giorno, nella terra di mezzo, dove si incontrano due mondi opposti: la donna che vorrei essere e la donna che mi condannano a diventare. E allora, diciamolo insieme a gran voce con le parole, sante parole, che Mina ha stancamente cantato e ricantato, fiaccamente, concludendo che fossero effettivamente solo parole, contrapposte a quelle di un uomo, Jack Prevért, che invece scrive magistralmente della donna, a metà novecento, celebrandone il coraggio e la libertà nella poesia “Sono quella che sono”.

Si, sono io, sono una donna, anche se faccio il meccanico, se faccio l’operatrice ecologica, se faccio la presidente del consiglio, l’avvocatessa e tante altre cose quante ne penserei di poter fare. Ma in realtà queste cose effettivamente la donna le fa? Le può fare? O dobbiamo dire che fa le cose degli uomini, e quindi non dobbiamo chiamarle cose di donne? Dobbiamo usare il maschile o il femminile? Ma che razza di genere è questo?

Ci pensa Stefano Bartezaghi a ricomporre le uova nel paniere e a dirci semplicemente che le parole “Sono solo parole” e però quando parliamo inevitabilmente andiamo incontro a un conflitto di genere […Un uomo allegro, un buontempone; una donna allegra, una mignotta. Un gatto morto: un felino deceduto; una gatta morta, una mignotta. Uno zoccolo? Una calzatura di campagna; una zoccola?…] che ancora oggi crea dissidi e stupori. E quindi sono solo parole, ha proprio ragione la Tigre di Cremona, parole che sprecano fiato ma non cambiano niente. E dunque l’evoluzione è finita qui? A che punto siamo oggi?

Grace ci spiega, nella sua eleganza, che la fase 3.0 è in corso, ci siamo dentro. Ma come ci siamo arrivate, come e cosa ci siamo costruite? Siamo un po’ come la cucina contemporanea a fuoco lento che cavalca la modernità ma non riesce a mollare il passato che affonda le radici nella tradizione, nei tempi che furono. Ma questa volontà di non lasciare andare, teniamocela stretta: è l’unico fillo rosso che se lo stringi non ti segna il cuore, non te lo strattona. Manovrare con cura un cuore figlio di una generazione di mezzo, questa è la nostra missione, che sta tra la Donna 2.0 e quella 3.0 che ha dovuto fare conti che non tornano. Lo urla al mondo Grace, nei suoi brani inediti, a fine spettacolo, quando denuncia quella condizione di mezzo che bisogna toglier via dalla nostra vita, per sempre. O salto o muoio, o mi butto o soffoco, o cambio direzione o il sentiero dritto mi porterà nel dirupo, alla fine della mia fine.

Ecco perché in questo progetto c’è molto di Grace, di una donna, figlia di una generazione che si è ricostruita per stare al passo di questa ingrata contemporaneità. Ecco perché, l’artista ritiene che: “Nello specifico lo spettacolo rappresenta la generazione dell’artista, nata negli anni ’80 e cresciuta negli anni ’80 e ’90 con i valori dell’epoca, contornati dai consigli della famiglia, che si è ritrovata in una realtà diversa, dove l’applicabilità di quei consigli e quei valori non trovava luogo o terreno fertile. Molti sogni infranti, dipesi da aspettative grandi, non realizzabili nella società che si è evoluta nel tempo e nella quale non c’era spazio per il frutto di quell’epoca, gli anni ’80. Ciò che ha causato molta crisi interiore nell’artista, che deve analizzarsi, in prima persona e farsi manifesto, anche per altre donne, che denunciano una società dalla quale si sentono tradite. Oggi Grace cerca la sua stabilità, dopo una presa di coscienza. Ha trovato il suo equilibrio, sta cercando il suo posto e come affrontare le sue inquietudini buone, ricca di sogni.”

Nella vita bisogna sempre custodire dei sogni affinché possano diventare realtà. Quando avremo più ricordi che sogni, staremo lentamente morendo. Grace aveva un sogno, quello di realizzare questo progetto, di portare sul palcoscenico un contributo artistico evocativo, che trascinasse la comunità, che urlasse alle coscienze, che sventolasse la forza delle donne. Un obiettivo a cui si associa la solidarietà nei confronti di due realtà molto importanti della comunità barlettana: il CAV – Centro Antiviolenza, coordinato dall’Osservatorio Giulia e Rossella, attivo sul territorio da circa 30 anni e il Centro per le famiglie. Realtà alle quali è stata devoluta una parte del ricavato della vendita dei biglietti.

“Ogni cosa che facciamo è come una goccia nell’oceano, ma se non la facessimo l’oceano avrebbe una goccia in meno”, recitava Madre Teresa di Calcutta. Ecco, possiamo e dobbiamo ancora fare, perché c’è molto da fare nella nostra comunità. A cominciare dalle scuole dove principalmente si ramifica, a partire dai più piccoli, l’attività di divulgazione dell’Osservatorio intitolato a Giulia e Rossella. Come spiega l’avvocatessa Laura Pasquino: “L’osservatorio è molto presente nelle scuole con attività di informazione e divulgazione a partire dalla scuola primaria attraverso progetti rivolti alla destrutturazione degli stereotipi che legittimano ancora oggi la violenza. Nella scuola primaria non si usa il termine violenza ma si punta l’attenzione sul rispetto tra generi, sulle pari opportunità; concetti che con gli alunni più grandi diventano sempre più concreti e specifici sino alla scuola di grado superiore dove si punta e mira, senza inibizioni, a parlare di violenza sessuale e alla prevenzione di questo drammatico fenomeno.”

Il centro antiviolenza Giulia e Rossella è nato 30 anni fa. E’ uno dei primi centri antiviolenza in Puglia, regolarmente autorizzato dalla Regione Puglia. Operativo anche su altri territori della Bat, ha l’obiettivo di prendere in carico le donne che subiscono episodi di violenza, nel 97% dei casi una violenza domestica. L’aiuto è offerto da un équipe composta da assistente sociale, educatrice, orientatrice al lavoro, psicologhe, figure legali che accompagnano la donna in un percorso di rinascita. In maniera gratuita, nel rispetto della riservatezza e dell’anonimato che spetta a tutte le donne che accettano di avviare un tale percorso.

Oggi, rispetto a 30 anni fa, quando l’età media della donne che  denunciavano la violenza subita tra le mura domestiche si aggirava tra i 30 e i 45 anni, le donne che si affacciano al centro hanno un’età compresa tra i 17 e i 30 anni. Ciò che denota un cambiamento, una presa di coscienza da parte della comunità femminile, che si sta rivelando in grado di riconoscere la violenza nelle sue forme più eclatanti, fisica ma anche psicologica ed economica, evitando che il fenomeno possa cronicizzarsi con effetti negativi sui figli, con il rischio che possano, in futuro, diventare adulti che riproducono un copione culturale già visto e vissuto in famiglia.

Cosa si può fare concretamente per queste donne? “Si può migliorare l’aspetto legato all’autonomia della donna vittima di violenza. Offrire la possibilità di ricostruire la propria realtà ripartendo da sé stessa, da un lavoro che le dia dignità e sicurezza economica. Ecco perché l’attività dell’osservatorio mira a sensibilizzare le aziende del territorio affinché offrano una collocazione lavorativa a tutte le donne che vivono una condizione di marginalità sociale ed economica dovuta dalla violenza. Per emanciparsi dalla violenza – spiega l’avvocatessa Pasquino – bisogna avere autonomia economica, un aspetto che purtroppo ancora oggi vincola le donne a rimanere bloccate in situazioni maltrattanti. Gli eventi di sensibilizzazione servono non solo ad informare ma anche a sensibilizzare la comunità sull’importanza di offrire alle donne una nuova chance, grazie a nuove opportunità di autonomia economica.”

Quanto è difficile, oggi, misurarsi con il proprio ruolo di donna, in una società in cui donna, madre, lavoratrice, moglie e compagna sono tante piccole realtà che insieme ne fondano una macroscopica a cui tutti si aggrappano. Ma come conclude brillantemente Michela Diviccaro, La donna vive una esperienza frammentata dalle sue mille responsabilità di donna, lavoratrice, madre, compagna, amica. Ma a fine giornata bisogna trovare una circolarità che le consenta di dire bene sono io, profondamente io, per essere tutti questi pezzi insieme, fiera di non aver rinunciato a nessuno di questi pezzi”. Come diceva Federico Garca Lorca: “Lasciate le mie ali al proprio posto e vi assicuro che volerò bene”