L’eternità in uno scatto, attimi divenuti immortali. Giochi di sguardi, baci mai dati, sorrisi spontanei, lunghe passeggiate, rompicapi irrisolti, pose sinuose ed estatiche. Una galleria di memorabili ritratti che il cinema ha forgiato con l’apporto della fotografia, catturando istanti destinati ad imprimersi nella memoria collettiva. Un serbatoio inesauribile di idee in attesa del momento perfetto per trasformarsi in atto creativo. Il pensiero che evolve in materialità attraverso il miracolo di una lente, posta a mo’ di diaframma tra l’occhio dell’uomo e la realtà, e che si dispiega in codici espressivi universali contravvenendo al celebre assioma di Wittgenstein “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.
Proprio quel linguaggio, che il filosofo viennese esaltava come componente imprescindibile dell’essere, con la fotografia di Sergio Strizzi si sublima in un filantropico esperanto che, rompendo le tenaglie dell’autoreferenzialità, favorisce la costruzione di un patrimonio identitario e culturale in cui riconoscersi. Sì, parlare di cinema non significa indulgere nella retorica del ‘bello’, applicando per ogni pellicola – vecchia o nuova che sia – sterili criteri valutativi, bensì sentirsi parte integrante di una comunità e della sua storia, malgrado di quest’ultima si abbia una visione frammentata, quasi come tante piccole tessere di un puzzle che – ricomposte nella loro totalità – formano un quadro ampio e sfaccettato. Ma la storia non è tutto. La mostra allestita nell’ampio porticato interno del palazzo della Camera di Commercio, in occasione del festival internazionale del cinema e della cultura audiovisiva, il Bif&st in corso in questi giorni a Bari, racconta la grande stagione del cinema italiano e internazionale con gli occhi di chi ne ha colto l’eclettismo non solo nel suo carattere diegetico, ma anche nel gusto e nella moda dell’epoca.
L’attitudine sperimentale di Strizzi dimostra la propensione al raggiungimento di vette estetiche elevate, talvolta emancipandosi da scelte registiche non sempre condivisibili. La sua fotografia non può definirsi uno scialbo reportage storico scevro di personalità e di rielaborazione, quanto piuttosto uno studio sul corpo e sulla sua prossemica che contribuisce a fissare i tratti peculiari e fisiognomici degli attori. Strizzi ricerca e insegue la passione, quella stessa che vorrebbe trasudasse dalle sue opere. Ciascuna di esse è molto più di un resoconto tangibile dell’intima sfera percettiva del fotografo, poiché custodisce un groviglio di aneddoti e di romantiche visioni che egli intreccia abilmente con la maestria di un tessitore per generare ricordi comuni. La fotografia allora è il tumulto interiore dell’artista racchiuso negli istanti in cui si approccia empiricamente alla realtà.
I bianchi pannelli esplicativi che fanno da sfondo ai lavori del maestro, illustrandone brevemente le peculiarità, segnano un percorso espositivo che si snoda per tappe, nuclei tematici, incontri e sodalizi come quelli con Antonioni e Tornatore, lungo un asse cronologico esteso dal 1954 agli anni 2000. La consapevolezza sottesa ai lavori di Strizzi parte dal rifiuto di adeguarsi ad accorgimenti o testi di scena, come lui stesso rivendica orgogliosamente: “Quando mi preparo per un film, mi danno il copione ma non mi piace leggerlo. Ormai mi affido all’intuito e all’esperienza”. Libero da schemi e da sovrastrutture narrative, per Strizzi l’attesa diviene l’unico metronomo in grado di scandire la realtà e di riprodurla. Egli auspica di captare un gesto, una situazione, un momento da cui poter iniziare un silenzioso dialogo con i soggetti dei quali intende approfondire diversi aspetti. E se la luce manca occorrerà pazientare, perché l’immortalità si crea in un solo istante e la si ferma in un’immagine che non soccombe più alle logiche del tempo, ma fluttua in un orizzonte sospeso, a metà tra il reale e l’onirico.
La leggiadria del tocco fotografico si esplica nella serie di ritratti al femminile delle dive del cinema italiano, la cui sensualità vibra con le corde del chiaroscuro. Dall’esuberante sfrontatezza di Sophia Loren alla ieraticità di Monica Bellucci, passando per Silvana Mangano, Jeanne Moreau, Audrey Hepburn e Monica Vitti – cui è dedicata un’intera sezione -, divenuta l’icona dell’attuale rassegna cinematografica assieme ad Alain Delon, grazie ad una locandina che omaggia il film di Michelangelo Antonioni del 1962, L’eclisse. Parimenti variegata appare la compagine maschile, dal sardonico Totò all’azzimato De Sica, dall’elegante Mastroianni all’irriverente Benigni, arrivando poi ad Anthony Perkins, Sean Connery, Pelé, Al Pacino.
Che sia un mero esercizio di stile o un metodo innovativo di approccio al reale, la fotografia di Strizzi nobilita l’arte cinematografica divenendone la quintessenza. Se una pellicola si compone di una sequenza copiosa di frame, dare valore al singolo scatto resta un’operazione di fondamentale importanza, che oltre a premiare la prontezza di riflessi dell’artista allena lo sguardo dei fruitori a muoversi dal particolare all’universale e viceversa. Perché gli istanti, gli attimi, la condizione favorevole, il kairós – come i Greci avrebbero identificato il momento propizio per compiere un’azione – non viaggiano simultaneamente al ticchettìo degli orologi: conoscono i ritardi, il peso dei rinvii, il timore dell’oblio, ma tenacemente sfuggono da chi, nell’estenuante attesa, vaga alla loro disperata ricerca. Allora, l’anima potrà acquietarsi solo attraverso uno scatto, quando uno scampolo di contingente si sublimerà in eterno. Questa la magia dei capolavori di Strizzi, questa la cospicua eredità che il fotografo ha lasciato a tutti noi per consentirci l’affaccio diretto su un mondo che a volte non basta vedere ma serve scrutare.