Il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, ha fatto il suo ingresso nella scena politica internazionale come un elefante in un negozio di cristalleria. Il suo discorso alla conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, il 14 febbraio scorso, è stato il corrispondente in politica estera dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio di quattro anni fa: se questo rappresentò l’incredibile tentativo di sovvertire il processo democratico in corso, ciò che Vance ha promosso a Monaco è stato il sovvertimento di un’alleanza storica, fondata sulla condivisione di valori che precedono di gran lunga il trattato istitutivo della Nato, e che rimandano alla nascita stessa della nazione americana.
La minaccia alla sicurezza che la sua amministrazione percepisce non verrebbe più dalla Russia o dalla Cina, ma dall’Europa stessa. Secondo il raffinato pensiero dell’autore di Hillbilly Elegy (che errore madornale tradurre quel titolo con Elegia Americana! Come se il ceto sociale cantato da Vance rappresentasse l’intera nazione!) i partiti di estrema destra europei (apertamente o subdolamente sostenuti dal Cremlino) verrebbero ostacolati con metodi non democratici. E per sottolineare il suo punto di vista, con un plateale atto d’ingerenza negli affari interni di un paese sovrano, nello stesso giorno ha incontrato la candidata del partito nazionalista tedesco AfD (Alternative für Deutschland) alle imminenti elezioni politiche, esprimendole (come aveva già fatto Elon Musk) il suo apprezzamento. Trump gli ha fatto eco da Washington ribadendo che i divieti d’apologia del fascismo e del nazismo vigenti in Europa rappresentano un attentato alla libertà d’opinione, e definendo “molto brillante” il discorso del suo vice.
Come prevedibile, le parole e le azioni di Vance hanno suscitato l’indignazione di quasi tutti i leader politici tedeschi, ma è stato un parlamentare della CSU bavarese, Thomas Silberhorn, a stigmatizzarle nel modo più eloquente: “La mia risposta all’amministrazione americana è questa: gli estremisti tedeschi che si richiamano in modo esplicito al Nazional Socialismo, come i membri dell’AfD, sono chiaramente nemici degli USA, il paese che ci ha liberato dal Nazional Socialismo”. Implicitamente accusando l’attuale inquilino della Casa Bianca di rinnegare la storia e la vocazione democratiche del proprio paese.
Chi gioisce e trae maggiore vantaggio da questo sovvertimento storico-politico è naturalmente Vladimir Putin, che vede così realizzato il suo disegno di separare le due sponde dell’alleanza euro-atlantica, secondo l’antica formula divide et impera. Se fino a poche settimane fa l’uomo forte del Cremlino (chiamiamolo così per non alimentare un’irrilevante polemica semantica) contava sui sovranisti europei per realizzare tale frattura, un aiuto insperato, per lo meno nelle dimensioni svelatesi negli ultimi giorni, gli è venuto dalla nuova amministrazione americana.
Il voltafaccia di Trump sull’Ucraina va ben al di là delle più rosee aspettative di Putin. Con il suo recente attacco frontale a Zelensky – definito “dittatore senza elezioni”, “comico mediocre responsabile di aver iniziato la guerra con la Russia e oggi sprofondato al 4% di approvazione” – il neopresidente americano ha ottenuto quello che Putin stesso non era riuscito a ottenere dopo aver brutalmente orchestrato la propria rielezione nel marzo dell’anno scorso: la delegittimazione del premier ucraino nel contesto di un’eventuale trattativa di pace.
Che il presidente ucraino sia stato eletto nel 2019 con circa il 73% dei voti, che un sondaggio condotto dall’Istituto Internazionale di Sociologia di Kyiv all’inizio di febbraio indichi che oltre il 50% degli ucraini continua ad avere fiducia in lui, che il tasso di approvazione dello stesso Trump tra i cittadini americani, a un mese dal suo insediamento, si aggiri secondo vari sondaggi intorno al 45%, contro il 51% per cento di quelli che hanno invece espresso disapprovazione, sono tutti dettagli che non inficiano la sua personale rappresentazione della realtà.
Ma è oltremodo significativo il commento dell’ex presidente Dmitrij Medvedev, oggi a capo del Consiglio per la Sicurezza di Putin: dopo essersi detto d’accordo con Trump “al 200%”, ha confessato di non poter ancora credere a ciò che la svolta di Washington rappresenti per loro in termini di nuove opportunità: “Se tre mesi fa mi avessero detto che il presidente degli Stati Uniti aveva pronunciato quelle parole avrei risposto con una sonora risata” ha concluso.
La tornata elettorale in Germania sarà il primo banco di prova del nuovo scenario geopolitico creato dal viaggio di Vance in Europa. Il suo esito potrebbe condizionare anche la posizione del governo italiano lunedì prossimo, quando importanti leader europei si recheranno a Kiev per il terzo anniversario dell’inizio della cosiddetta operazione speciale di Putin. Mentre è tutto da vedere se la retorica elettorale di Trump, la sua sconvolgente politica estera, il sistematico smantellamento dell’apparato statale perseguito dalla sua amministrazione, si tradurranno in benefici reali per l’economia americana e per quella parte di americani che continua ad approvare il suo operato. Quello che è certo è che, per ora, egli è riuscito a rendere più grande e influente la Russia e più debole l’ex alleato europeo.