Telematiche, forti nei numeri, deboli nel fine

Il valore delle università sta, soprattutto, nel costituire comunità di apprendimento, in cui si sviluppa il pensiero critico e si formano i cittadini di domani

Il mondo dell’università, in questi ultimi dieci/quindici anni, è cambiato, come si è cercato di spiegare nel precedente intervento. Molto è cambiato, ma non tutto. Di sicuro non sono cambiate le differenze, le disparità, le particolarità delle singole università e, più in generale, dei sistemi universitari regionali, se guardiamo alla vecchia e annosa questione che divide, non da oggi, nord e sud.

LA PARTITA NORD – SUD DELL’UNIVERSITA’

Sì, la questione della divisione nord/sud è talmente trita e ritrita che rischia sul serio di provocare non pochi smisurati sbadigli. E, tuttavia, come non ribadire che la questione, sarà pure noiosa, ma è autentica, è ancora sul piatto e genera non poche difficoltà? Non solo alle singole università rispetto al loro posizionamento nello Stivale, ma all’intero sistema nazionale coordinato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR), a cui non resta che rincorrere un faticoso, forse disperato, sistematico tentativo di ri-equilibrio, per costruire e proporre soluzioni parziali. A cui, insomma, non resta che tappare buchi, in attesa di qualcosa di più definitivo e più performante. Non è solo una questione che riguarda il mondo dell’università, evidentemente, giacché la partita tra nord e sud del paese si gioca a tutto campo: dalla politica all’economia, dalle istituzioni pubbliche al mondo delle imprese, dal senso dello stato alla cittadinanza reale, dalla formazione privata alla formazione pubblica, alla scuola all’università, appunto.

PEGASO E’ LA SECONDA UNIVERSITA’ PER NUMERO DI ISCRITTI

Se guardiamo al mondo dell’università, una prima evidenza è emblematica, per taluni aspetti spiazzante, se non addirittura sconcertante. Qualche giorno addietro, infatti, un mio caro amico che d’università se ne intende, mi ha fatto notare che la seconda università del Paese per numeri di iscritti è privata, e opera esclusivamente online: Pegaso. Stiamo parlando di 100 mila studenti: un numero che la colloca non solo al secondo posto in Italia, ma tra le più grandi università d’Europa e del mondo occidentale. La prima in Italia è pubblica, ed è da sempre La Sapienza di Roma (anche prima università in Europa), che si attesta intorno ai 120 mila iscritti. Se a UniPegaso affianchiamo le altre due telematiche del gruppo, la Mercatorum e la San Raffaele di Roma, arriviamo a circa 150 mila iscritti. Un numero sorprendente. Se alla Sapienza uniamo le forze provenienti dalle due sorelle minori, Roma 2 e Roma 3, i numeri di Roma 1 aumentano di un buon 60 per cento, per un totale delle tre università che tocca i 190 mila iscritti. Anche qui, grandi numeri. Ma mentre a questi ultimi grandi numeri eravamo da tempo abituati, gli altri grandi numeri della Pegaso e sorelle sbalordiscono.

Anche perché La Sapienza è stata fondata da Papa Bonifacio VIII nel 1303, Roma 2 è nata più di quarant’anni fa (1982), e Roma 3 dopo appena dieci anni (1992). L’Università Pegaso e le sorelle, invece, sono da poco maggiorenni e non hanno ancora compiuto 20 anni (2006). Vorrei sgombrare subito il campo da possibili malintesi e dare ragione dell’espressione sopra utilizzata in relazione al successo dell’Università Pegaso (e delle due sorelle minori): “evidenza (…) per taluni aspetti spiazzante, se non addirittura sconcertante”.

UNA FORMIDABILE “MACCHINA DA GUERRA”

Ebbene, la Pegaso, nella sua tipologia, è un caso d’assoluta eccellenza, frutto di un lavoro di grandissimo impatto, gestito da intelligenze di assoluto rilievo, la maggioranza delle quali provenienti dal mondo delle università pubbliche, ma non solo, in quanto ha comunque nei propri ruoli un’ottima squadra accademica. E un’ottima squadra amministrativo-gestionale, giacché sul versante dei servizi è fortissima. Naturalmente, essendo privata, ha una capacità d’azione difficile da imitare per una istituzione pubblica, ma, evidentemente, vincoli e problemi non mancano mai e l’essere pienamente un gatto selvatico e non domestico (per usare la metafora utilizzata nel ricordato precedente intervento) non assicura certo il risultato, e men che mai, risultati della portata evidenziata. Dobbiamo ammetterlo: l’Università Pegaso è una formidabile macchina da guerra, e merita tutta la nostra stima e il nostro rispetto.

Prima di proseguire, però, vediamo qualche numero. Con qualche lieve approssimazione, giacché le fonti non sempre concordano, compreso il ricorso alla tanto decantata intelligenza artificiale che, onestamente, nulla al momento può se non utilizzare le informazioni ricevute. La questione dell’unicità dei dati e del loro costante aggiornamento nel nostro paese rimane ancora – nonostante gli indubbi passi avanti – un problema irrisolto. Un problema tuttaltro che banale, anche se – ai fini del nostro ragionamento – qualche sfumatura non inficia il quadro generale.

Dunque (tra parentesi le oscillazioni a seconda delle fonti): in Italia ci sono circa 100 università (96-99), di cui 67 (66-67) pubbliche, 20 (19-20) private tradizionali legalmente riconosciute e 11 private telematiche, anch’esse legalmente riconosciute (delle 100 complessive, un terzo sono state istituite dopo il 1945, e tra queste, il 70 per cento sono private, comprese per ovvie ragioni tutte le telematiche, dal 2004 in poi). Questo significa che fatto in via approssimativa 100 il numero totale delle università nel nostro paese, poco più del 30 per cento sono private. Un buon terzo. E il numero delle private tenderà ad aumentare, poiché possiamo serenamente escludere che il ministero autorizzerà l’istituzione di nuove università pubbliche, sia perché l’attuale governo guarda con favore al privato, sia perché – a dirla tutta – nessun governo degli ultimi 30 anni ha guardato con favore alla nascita di nuove istituzioni statali (le ultime autorizzazioni riguardano due istituti universitari a ordinamento speciale – una nel 2022 e l’altra nel 2024 – che si sono aggiunti agli altri sei già esistenti. Ma sono casi particolari).

La tendenza, semmai, era quella a ridurle, sulla scorta, essenzialmente, dell’argomentazione che non è utile, oltre che estremamente dispendioso, istituire università sotto casa. Non a caso, la legge di riforma della fine del 2010 prevedeva per la prima volta la possibilità che una università statale in default finanziario potesse chiudere i battenti dopo un adeguato periodo di commissariamento finalizzato alla possibile salvezza (norma sinora applicata in pochissimi casi – con esiti sempre positivi – anche perché la gestione finanziaria curata dalle singole università è oggi quanto mai particolarmente attenta).

È più o meno lo stesso discorso fatto per gli ospedali: è meglio pochi ma buoni. Soltanto che nel nostro paese il ragionamento – che di per sé, o comunque entro certi limiti, è dotato di senso – non sempre funziona. Per svariati motivi, sia logistici che culturali.

QUALE FUTURO PER L’UNIVERSITA’ PUBBLICA?

Tra quelle 100, tutte ugualmente valide, ci sono alcune università prestigiose, sia pubbliche che private. I nomi sono sulla bocca di tutti, è inutile riproporli. Ciò su cui forse vale la pena soffermarsi è quale potrebbe essere il futuro dell’università pubblica in Italia, considerato che il boom delle telematiche ha mostrato nettamente, al di là di ogni ragionevole diverso discorso, che si sta sempre più consolidando un trend che vede giovani e meno giovani affidarsi (e fidarsi) alla formazione a distanza. Le ragioni sono molte.

Intanto, dobbiamo riconoscere che le università telematiche hanno ampliato le possibilità di accesso (il diritto costituzionale) all’istruzione superiore. A questo proposito, un fil rouge corre nella nostra carta costituzionale, che riconosce il diritto alla cultura tra i diritti inviolabili di cui all’articolo 2 (Angelo Greco), giacché la cultura è un valore fondamentale per la crescita intellettuale di ciascuno di noi e per quella della società nel suo complesso. Anche per questo la carta costituzionale sancisce il diritto a raggiungere i livelli più alti negli studi (art. 34), prevedendo di rendere effettivo tale diritto con opportuni interventi in favore dei meno abbienti. E non a caso è compito della Repubblica rimuovere gli eventuali ostacoli di ordine economico e sociale, per non limitare o impedire del tutto il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti alle sorti del Paese (art. 3). Qui la parola chiave, in buona sostanza, sembra essere “cultura”, nella sua accezione, però, non solo e non tanto di conoscenza e istruzione, quanto di progresso, di civiltà. Su quest’ultima affermazione torneremo tra breve.

ATENEI PUBBLICI E PRIVATI HANNO GLI STESSI COSTI

Dal punto di vista economico, mi riferisco alle tasse di iscrizione, oramai non c’è più nessuna differenza tra un’università privata telematica e una pubblica tradizionale, specialmente se guardiamo agli atenei del nord. Senza contare che le private telematiche, in taluni casi, si presentano sul mercato con offerte sul taglio delle tasse o sulla possibilità di loro rateizzazione assai accattivanti.

E poi, l’aspetto forse più ovvio, ma sino a un certo punto: se io lavoro tutto il giorno, è evidente che faccio fatica a iscrivermi a un’università pubblica che prevede soltanto corsi tradizionali. Non solo corsi in presenza, ma erogati anche in orari difficili da gestire. Ai miei tempi si poteva lavorare e studiare, non era facile, ma possibile. Io – classico esempio di studente-lavoratore – andavo all’università dal lunedì al venerdì, dalle sei di pomeriggio fino alle nove di sera. E avevo la possibilità di seguire tutti i corsi riconosciuti fondamentali, quelle che una volta nei programmi venivano chiamate materie obbligatorie. Oggi la situazione non è più la stessa. Ci sono ancora, in talune istituzioni, corsi serali per studenti che lavorano, ma sono mosche bianche (a quanto mi risulta, sarei felice d’essere smentito); ma in quanto mosche bianche, non fanno parte di un progetto preciso e strutturato: sono reperti di archeologia culturale. E forse l’entrata in campo delle telematiche ha prima ridotto e poi definitivamente offuscato la spinta a venire incontro alle esigenze di chi lavora. Con ogni probabilità, oggi, quelle aule aperte dalle 18 alle 21 andrebbero deserte.

NELLE UNIVERSITA’ TELEMATICHE C’E’ UN FORTE TUTORAGGIO

Non va neppure dimenticato che le università telematiche offrono servizi di tutto rispetto: c’è grande attenzione al cliente, per usare una frase in voga nel mondo delle imprese di servizi, ma non solo, gli studenti non sono abbandonati a se stessi, il tutoraggio è forte, c’è un clima favorevole rispetto all’obiettivo finale, una gradevole e non opprimente tensione ai progressivi risultati, tutti elementi straordinariamente importanti nella carriera di uno studente, elementi che talvolta sono sottovalutati o mancano proprio nel mondo delle università pubbliche. Le telematiche, anche perché private, ma non solo, in questo sono più vicine alle università private tradizionali. Anche lì c’è grande attenzione al cliente.

Certo, mi si dirà, non ci vuole poi molto: le università telematiche sono delle imprese e come tali si muovono, non hanno, per così dire, tempo da perdere perché per loro il tempo è denaro. Sì e no. Sì, perché è evidente che le telematiche sono proprietà di persone e gruppi che non operano sul mercato dell’alta formazione per fare beneficienza. Il che mi pare ovvio per tutte le imprese che operano in qualsivoglia settore. No, perché se da un lato le università pubbliche si stanno – per riprendere ancora l’esempio precedente – sempre più trasformando in gatti selvatici, e dunque dovrebbero forse guardare al mercato dell’alta formazione, sia nazionale che internazionale, con maggiore attenzione alle evoluzioni in corso, dall’altro mi sento di poter dire che – anche in virtù di alcune personali conoscenze – gli uomini delle telematiche nutrono una genuina passione per il loro lavoro e per il valore del loro operato rispetto al significativo allargamento della platea di chi può accedere a un titolo di studio superiore (questione, peraltro, non da poco in un paese come il nostro che, in Europa e nel mondo, non ci vede certo ai primi posti per numero dei laureati).

Le università telematiche, in questo costituiscono un fattore di democrazia sostanziale, giacché la loro presenza rientra a pieno titolo nelle previsioni del citato articolo 3 della nostra Costituzione: contribuiscono a rimuovere ostacoli di ordine sociale e facilitano lo sviluppo delle persone, aprendo nuove possibilità in termini di partecipazione al bene comune.    

La questione, per le università telematiche, semmai riguarda l’efficacia dell’apprendimento, i risultati effettivi in termini di conoscenza, l’assenza di un clima di condivisione dei vissuti, la mancanza di scambi potenzialmente proficui, giacché uno studente telematico è uno studente-monade all’inteno di una costellazione di studenti-monadi. Ciascuno viaggia per proprio conto. Si dirà: è frutto dei tempi. Certo, è frutto dei tempi (oramai siamo spesso soli di fronte a schermi di plastica) ma tale presa d’atto non rassicura la coscienza su quanto questo significhi in termini di crescita professionale e personale, per non parlare di dove questo ci porterà come collettività. Quest’ultimo mi sembra il vero, l’unico, punto debole delle università telematiche. Preciso meglio.

LO STUDENTE TELEMATICO E’ UNO “STUDENTE-MONADE”

Ora, se uno è bravo, o ha veramente voglia di studiare, può farlo on-line, in un’aula, nella tavernetta, tra un prosciutto appeso al soffitto e una cassa di vino per terra, o penzoloni al lampadario della camera da pranzo, non fa differenza: quello bravo e quello che ha veramente voglia di studiare vanno comunque avanti; quindi non insisterei oltre misura sulle perplessità in merito all’efficacia della didattica a distanza – che pure per molti restano. La questione qui in gioco riguarda, invece, quanto ho già evidenziato qualche pagina fa, quando ho affermato che la parola chiave dovrebbe essere cultura nella sua accezione di progresso, di civiltà. È su questo che dobbiamo intenderci.

LE TELEMATICHE “SFORNANO” GIOVANI CAPACI DI INSERIRSI IN MODO AUTONOMO, CRITICO E CONSAPEVOLE NELLA SOCIETA’?

Cultura significa, prima di tutto, arricchimento, conquista, avanzamento nel processo di civilizzazione, il che necessita, implica indipendenza e libertà (Tommaso Montanari), elaborazione e difesa di un pensiero riflessivo, all’occorrenza anche critico, ed è per questo che nel nostro precedente intervento abbiamo insistito sul fatto che l’università non può essere vista come un’impresa tout court perché è una comunità di apprendimento, un’istituzione che ha il compito di assicurare la crescita del capitale sociale in termini di conoscenze, abilità e consapevolezze (Nicola da Neckir). È per questo che, parimenti, ci siamo permessi d’insistere sull’evidenza che, sì, è pur vero che tutti (studenti, famiglie, mondo delle imprese, governance, associazioni e ordini) legittimamente s’aspettano che dall’università escano dei buoni professionisti, pronti a inserirsi efficacemente e rapidamente nel mondo del lavoro, tuttavia come sottovalutare che noi tutti dovremmo pure auspicare che da quelle stesse istituzioni escano altresì dei giovani capaci di inserirsi in modo autonomo, critico e consapevole nella società? Il lavoro, per carità, è importante, ma così importante da far passare sotto silenzio tutto il resto?

Ribadiamo: la ricerca della conoscenza, la costruzione dei saperi, la formazione delle generazioni, non sono e, dunque, non possono essere considerate merci al servizio esclusivo del sistema economico. L’università non può appiattirsi sul mercato, e non per il bene dell’università, ma per quello degli stessi giovani, e soprattutto nell’interesse del paese. E allora che dire? Che futuro aspetta l’università pubblica tradizionale al tempo della corsa all’innovazione tecnologica, della società dominata dall’intelligenza artificiale? Che ruolo potranno o dovranno giocare? Aveva sul serio ragione quel mio amico che – come ho riferito nel precedente intervento – insisteva sul fatto che le università si trovano oggi davanti a un bivio: adattarsi e innovarsi o rischiare di perdere il proprio ruolo centrale nella società?

DA SECOLI GLI ATENEI CUSTODISCONO LA MEMORIA DELLE IDEE E DELLE AZIONI UMANE E COSTRUISCONO IL FUTURO DI QUELLE STESSE IDEE E AZIONI

Nello stesso precedente intervento abbiamo risposto che da secoli le istituzioni universitarie custodiscono la memoria delle idee e delle azioni umane e, nel contempo, da secoli costruiscono il futuro di quelle stesse idee e azioni; abbiamo replicato che il futuro passa dalle loro aule, dai loro laboratori e dalla loro capacità di ispirare e motivare i giovani di oggi a diventare i leader, gli scienziati, i pensatori, la classe dirigente di domani. E anche, si è detto, dei buoni cittadini di domani.

Ma forse non basta. Non basterà. Troppa è la legittima voglia dei tanti, giovani e meno giovani, di farsi chiamare dottore in ufficio o di presentarsi a un colloquio di lavoro ascoltando quell’appellativo con riguardo a se stessi. Troppa l’altrettanta legittima voglia di sapere e contare su modalità e tempi precisi, e su questo le università telematiche sono formidabili. Assolvono il loro compito con grande efficacia. Ma basta questo a metterle sullo stesso piano di quelle tradizionali? Non stiamo parlando, si badi bene, di un piano alto e uno basso, assolutamente no, quando mai. Stiamo parlando più semplicemente di piani differenti, di obiettivi differenti; stiamo parlando – con non poco imbarazzo – di finalità diverse. Che le università private telematiche continuino a operare per il mondo del lavoro, compito che svolgono in modo eccellente; che le università pubbliche lo facciano a tutto tondo, con altrettanta determinazione, a vantaggio dell’intera collettività.

Le università non sono soltanto luoghi di apprendimento finalizzati al mondo del lavoro, ma anche fucine di idee, innovazione e cultura, appunto. Da sempre, ma a maggior ragione, in un’epoca quale la nostra caratterizzata da profonde trasformazioni tecnologiche e sociali, tumulti psicologici, cambiamenti climatici e tensioni geopolitiche impensabili sino a poco tempo fa; conseguentemente la loro missione non è soltanto quella di preparare ottimi lavoratori, ma anche di formare una generazione capace di affrontare le sfide globali con coscienza, etica e visione. Perché ciò sia possibile, dobbiamo garantire che l’istruzione universitaria rimanga accessibile ai più, rilevante e orientata sia al lavoro che al bene comune.

Nelle foto alcuni ambienti della sede principale di Pegaso.