Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese. Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, il regista spagnolo ha vinto il suo primo premio assoluto in uno dei più grandi festival cinematografici. Per quanto abbia realizzato tanti film eccellenti e capolavori come Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore.

Il fatto poi che il Leone d’Oro sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui rallegrarsi. Al di là dell’indiscutibile valore del film, in realtà tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro candidato alla vittoria: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo. Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in concorso, ma probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere anche un pubblico straniero.
Luca Guadagnino, tornato a casa a mani vuote nonostante l’audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore. Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli della rassegna a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione nel festival.

Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione). Eppure la sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblico è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti di questa edizione, capaci di entusiasmare molto più dei film in gara. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur a un livello inferiore, sono risultate più seguite, apprezzate e commentate di tanti altri lungometraggi. Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema di Venezia.
Tra i prodotti televisivi quest’anno c’è stato anche un po’ di Puglia, con la proiezione in anteprima mondiale della miniserie Rai Leopardi. Il poeta dell’infinito di Sergio Rubini, sostenuta da Apulia Film Commission e Regione Puglia, in programmazione in prima serata su Rai 1 in due puntate il 16 e 17 dicembre di quest’anno. Si tratta del racconto della vita del poeta attraverso i tanti temi che ha attraversato con sguardo disincantato e forza utopica. In Puglia sono state ricostruite alcune delle sequenze ambientate a Napoli (Taranto vecchia e Martina Franca), la residenza dell’amico di Leopardi, Antonio Ranieri, (Museo Civico Romanazzi Carducci di Putignano), e sono state utilizzate la spiaggia di Vignanotica (Foggia) e la Tipografia Portoghese di Altamura come location.
I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni. Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni. Persino autori spesso di casa a Venezia, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.

Decisamente più facile e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e sola rappresentante della categoria, insieme all‘attrice cinese Zhang Ziyi tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto più controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).

Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà delle proposte, specialmente se si ripensa al concorso, davvero eccezionale, dell’ultimo Festival di Cannes. La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa comunque avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata impegnativa (3 ore e mezza).
Nella foto in alto, il giovane Leonardo Maltese intrerprete del Leopardi di Sergio Rubini (le foto sono tratte dal sito della Biennale di Venezia)