Le recenti dichiarazioni di Putin, secondo cui la pace sarebbe a portata di mano, se “solo” l’Ucraina rinunciasse ai territori occupati dai russi e assumesse lo status di paese non allineato, sono un ulteriore conferma dell’autoritarismo del capo del Cremlino, convinto che la nazione Ucraina non esista e che russi e ucraini siano un unico popolo. Da assogettare alle volontà di un unico leader: guarda caso, lo stesso Putin.
Nei giorni precedenti l’invasione russa dell’Ucraina, analisti e commentatori occidentali erano profondamente divisi: c’era chi prendeva sul serio i rapporti dell’intelligence americana, che annunciavano l’imminenza dell’attacco, e chi li considerava una fantasia frutto di isterismo. Molti, anche in Italia, erano sostanzialmente disposti a prendere per buone le dichiarazioni del potente ministro degli esteri (e della disinformazione) Sergej Lavrov, in gioventù mastino della diplomazia sovietica, dal 2004 fedelissimo servitore di Putin. Il 20 febbraio 2022 il settimanale l’Espresso pubblicava un articolo con questo titolo: Ma l’invasione russa è un’invenzione dell’Occidente. Studioso di storia bizantina e di storia militare, l’autore, Gastone Breccia, è un collaboratore della rivista di geopolitica Limes, il cui direttore, Lucio Caracciolo, sosteneva in quei giorni una posizione simile (il 16 febbraio, nel corso di una trasmissione radiofonica, ironizzava sulla previsione di Biden, secondo cui l’Ucraina sarebbe stata attaccata proprio quel giorno).
Eppure, la tattica della Casa Bianca di rendere pubblici i piani del Cremlino, non potendo preparare una risposta militare, era l’unica in grado di ritardare l’invasione russa e di dare ulteriore spazio alla diplomazia. Anche se Putin, avendo una grande macchina bellica dislocata da mesi intorno all’Ucraina, aveva ormai fretta di lanciare la sua blitzkrieg.
Ad invasione cominciata chiesi a Breccia se non pensava che lui e il direttore di Limes avessero confidato troppo nella razionalità di Putin, e troppo poco nell’intelligence occidentale. Mi rispose che sì, che avevo ragione riguardo l’aver confidato troppo nella razionalità di Putin, mentre la sottovalutazione dell’intelligence occidentale dipendeva dal fatto che essa non aveva dato grande prova di sé in Iraq e Afghanistan. Era purtroppo vero, ma si trattava di altre amministrazioni (anche nel caso della fuga da Kabul, Biden aveva dovuto pagare il prezzo delle decisioni prese dal suo predecessore) e quindi di un pregiudizio.
In Italia erano molti, e in modo trasversale, a nutrire una dichiarata o intima ammirazione per il leader russo: dalla destra sovranista di Meloni (“Putin difende i valori europei e l’identità cristiana”) e Salvini (“Uno dei migliori uomini politici della nostra epoca”, “Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!”), a Beppe Grillo (“Putin è quello che dice le cose più sensate sulla politica estera”), a certi settori della sinistra radicale che vedevano in Putin un baluardo contro lo strapotere USA. Tutti ammiravano di Putin il decisionismo, la capacità di influenza internazionale, le sue doti personali.
Il 24 febbraio del 2022 Putin ha gettato la maschera, svelando al mondo il suo avventurismo paranoico e la sua ferocia (di cui si erano già avuti segnali con le sue azioni in Cecenia, in Georgia, in Crimea, in Siria, in Bielorussia, in Kazakistan), e dichiarando quello che pensa veramente del grande stato confinante: che la nazione Ucraina non esiste, e che russi e ucraini sono un unico popolo. Anche senza l’improvvida domanda di adesione alla Nato da parte dell’Ucraina, diviene difficile credere che Putin avrebbe rispettato l’indipendenza di una nazione, se per lui essa non esiste. Come succede ai dittatori, la lunga permanenza al potere, e il delirio di onnipotenza che ne deriva (nel suo caso nutrito anche dal possesso di un arsenale nucleare), ha fatto perdere a Putin il senso della realtà: avendo descritto per anni il governo di Kiev come un governo fantoccio creato dalla Cia e odiato dalla popolazione, ha finito col convincersi che, al primo apparire delle soverchianti forze russe, l’intero paese si sarebbe sgretolato senza opporre resistenza.
Come ha notato il settimanale britannico The Economist, Putin è divenuto vittima della sua stessa propaganda, commettendo molteplici errori di valutazione, quali la sopravvalutazione delle sue forze, la sottovalutazione del nemico e della reazione dell’Europa (a cui si può aggiungere anche la malriposta fiducia nell’appoggio della Cina: a differenza della Russia, una superpotenza economica che ha tutto l’interesse a mantenere il confronto con l’occidente sul terreno economico).
Esercitando un ferreo controllo sui media, Putin ha cercato di rassicurare la sua gente dicendo che la Russia non è in guerra, che si tratta solamente di un’operazione speciale per “denazificare” un paese fratello. Ma con il protrarsi della resistenza ucraina, delle sempre più sanguinose operazioni militari, e di un numero crescente di vittime civili, sarà per lui difficile mantenere il consenso di un popolo educato a venerare i propri soldati come eroi.
Gli eroi di oggi sono i difensori delle città ucraine sotto assedio, insieme ai tanti volontari che cercano di portare aiuto alla popolazione civile in fuga. E anche la Russia ha i suoi eroi: non le povere reclute ignare che stanno cadendo a centinaia, secondo le stesse fonti ufficiali russe, o a migliaia secondo quelle ucraine, ma tutti quei cittadini russi che continuano a protestare pacificamente contro la guerra sfidando ogni divieto. Proteste sempre più diffuse e numerose che, unite al malcontento dei boiardi e delle stesse truppe in Ucraina, ai severi effetti delle sanzioni economiche, potrebbero provocare le prime incrinature nel regime instaurato da Putin nel corso degli ultimi vent’anni: una tragica involuzione autoritaria che alcuni brillanti osservatori avevano previsto.
Ancora una volta appare opportuno citare le “profezie” di Anna Politkovskaja, che nel suo ultimo libro, quasi un testamento, cercò di spiegare al mondo chi fosse veramente Putin e che cosa rappresentava nella storia russa. “Figlio del più nefasto tra i servizi segreti del paese – scriveva in La Russia di Putin, pubblicato nel 2004 – una volta diventato presidente, non ha saputo estirpare il tenente colonnello del KGB che vive in lui, e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà. E la soffoca, ogni forma di libertà, come ha sempre fatto nel corso della sua precedente professione”.
Il libro non pretendeva di fornire un’analisi della politica di Putin nei primi anni della sua presidenza, piuttosto una serie di “appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia”. Parlava dell’esercito, uno dei pilastri istituzionali dello stato russo, come di un mondo chiuso, che continuava ad essere “un campo di concentramento per i giovani che finiscono dietro il suo filo spinato”; parlava della casta degli ufficiali, “perfettamente a loro agio nel ruolo di fuorilegge impuniti”, e delle diserzioni di massa avvenute durante la seconda guerra cecena, scatenata da Putin non appena divenne primo ministro nel 1999; parlava delle madri di quei soldati, e dei crimini di guerra commessi in Cecenia. Era già implicito, in quei coraggiosi reportages, il germe della tragedia che sta vivendo oggi il popolo ucraino e l’Europa intera.
Anna Politkovskaja venne assassinata a Mosca, mentre rientrava a casa, la sera del 7 ottobre 2006, lo stesso giorno del compleanno di Putin.
In alto, Anna Politkovskaja in una foto tratta dal sito della FNSI