Grazia e bellezza, compostezza e sacralità: gli ampi corridoi della biblioteca Giovanni Panunzio di Molfetta rifulgono della luce celestiale profusa dalle tele di Corrado Giaquinto, figura di rilievo nel panorama artistico del settecento italiano e pugliese. Ventitré i quadri dell’artista molfettese proposti per la mostra (a cura di Gaetano Mongelli e dell’associazione Parthenope), cui vanno aggiunti – oltre ad un’opera grafica – cinque dipinti di Francesco Solimena. Le opere sono parte della collezione di un noto antiquario bitontino, il dott. Michele Bonasia, acquisite da varie raccolte private sparse per l’Italia.
Non è un rapporto qualsiasi quello che lega Solimena a Giaquinto; e anzi, è uno tra i più fascinosi della storia dell’arte. Sì, il binomio maestro-allievo non resta, come nella letteratura, un sodalizio volto all’apprendimento di un sapere meramente teorico, ma si esplica in vari campi di applicazione pratica, unendo lo studio delle proporzioni e dei canoni figurativi al disegno e al colore. Che Giaquinto sia stato o no apprendista del pittore serinese, attivo in area napoletana nella seconda metà del ‘600, rimane un dato biografico controverso che, tuttavia, non si può escludere in maniera categorica.
Pur nella sua dubbia veridicità, legare l’esperienza del molfettese ad una personalità di spicco del XVII secolo come il Solimena, o tutt’al più alla sua bottega, resta una pista percorribile anche a fronte delle molteplici influenze che la pittura di Giaquinto subisce. L’eco del maestro nelle sue opere risuona chiara: la delicatezza del panneggio, il chiarore dei corpi a contrasto con uno sfondo scuro, attraversato solo parzialmente da un bagliore, da uno spiraglio, da una luce che fende l’oscurità da varie angolazioni.
La predilezione per svariati personaggi tratti dal patrimonio biblico o dal repertorio agiografico non costituisce un limite per il pittore molfettese. Egli indaga ripetutamente sui significati di pietas, caritas, giustizia e alterità non solo dal punto di vista cristiano, ma anche in chiave letteraria e allegorica. Ne sono prova le splendide tele, disposte lungo il percorso espositivo: Allegoria della Temperanza affiancata da un bozzetto preparatorio, Carità Romana, Allegoria della giustizia, Medea, Baccanale. Gli oli su tela sembrano instaurare un dialogo senza tempo con le rappresentazioni a soggetto sacro, sulle quali aleggiano il candore virginale nelle figure femminili e l’anelito di ascesa mistica al cospetto di Dio, che accomuna il decoro muliebre all’integrità maschile.
A documentare la resa espressiva dell’elemento sacrale, dove la presenza divina si manifesta con un bagliore soffuso su un paesaggio timidamente accennato, sono le tele ritraenti Sant’Agnese, L’educazione della Vergine, la Gloria di san Giovanni di Dio, il Buon Pastore, I Santi Ippolito, Taurino ed Ercolano, Mosè che scaturisce l’acqua dalla roccia. Si potrebbe pensare, tuttavia, che il fulcro della mostra ruoti intorno a due principali opere che scandiscono l’inizio dell’itinerario espositivo, quasi ad invitare l’osservatore ad alienarsi dall’attuale contesto per introdursi nella raffinata compagine artistica a cavallo tra ‘600 e ‘700.
Qui il valore cristiano della pudicitia si dispiega nella figura della Madonna, protagonista dei quadri Riposo dalla fuga in Egitto e Assunta in cielo e Angeli. Se nella prima opera Maria conserva ancora connotati terreni mentre, seduta, stringe al petto suo figlio Gesù, nella seconda la donna si eleva a Dio ed è cinta da una corona di stelle. L’ascesi al cielo della madre di Cristo trova un’efficace resa nell’eleganza dei drappi dai quali è avvolta. Uno stuolo di putti incornicia la scena, favorendo l’assunzione celestiale di Maria: alcuni reggono i lembi di un panno rosseggiante, altri ispezionano la fattura del suo manto azzurro, contemplando la bellezza di costei.
La potenza angelica non rimane un motivo marginale nella produzione dei due autori, in particolare nella pittura del Solimena, in cui, dal Martirio di San Lorenzo dove i putti – relegati al bordo della tela – assolvono una funzione irrilevante in uno scenario intriso di pathos, si passa alla magnificenza evocativa de La caduta degli angeli ribelli, nel quale l’Arcangelo Michele, garante di giustizia e di equità, caccia dal regno dei cieli gli spiriti riottosi.
E proprio sul concetto di probità insiste il pittore campano quando effigia intorno al 1690 Allegoria della giustizia che trionfa sulla guerra e sulla ricchezza, in un tripudio di figure femminili dall’inequivocabile eloquenza gestuale: la Giustizia saggia il peso delle azioni degli uomini mediante una bilancia, con occhi rivolti al cielo in attesa del sole divino; ai suoi piedi la Ricchezza le offre un piatto colmo di ori e la Guerra che giace inerme calpestata dalla stessa. Sullo sfondo, alle colonne di un tempio si poggia un gruppo di uomini, probabilmente alle prese con un dibattito intorno al tema.
Si conclude così il ciclo figurativo dei due pittori, senz’altro avvalorato da un edificio che ben si presta al connubio tra arte e letteratura. Negli ambienti adiacenti alla mostra è possibile infatti visitare la biblioteca, oggetto di un recente lavoro di riqualificazione che l’ha dotata di un ampio salone di lettura e di consultazione dei libri. Dunque, oltre al suo mare che indora le acque ai riflessi del tramonto, Molfetta racconta l’epopea umana di un pittore cui ha dato i natali, che lo ha visto partire in cerca di fortuna alla volta dell’Italia e dell’Europa per misurarsi con le richieste di committenze prestigiose, ma non ha mai dimenticato la sua grandezza.
In questo romantico “ritorno al paese” la pittura di Giaquinto vive grazie alle collezioni private di chi ha desiderato riavvicinare, pur in un arco di tempo limitato, l’artista alla terra natìa.
Nella foto in alto, “Riposo dalla fuga in Egitto” di Corrado Giaquinto