Berlusconi, l’inventore del “partito-chiesa” che parlava ai “fedeli” dalla tv

Nell'anniversario della scomparsa, ecco l'intervista dello scorso settembre a Carlo Spagnolo, docente all'ateneo barese, sul lascito del leader di Forza Italia

Se “tutti i paesi sono storicamente peculiari, ma alcuni sono più peculiari degli altri”, come scrive Giovanni Orsina in Il berlusconismo, l’Italia va ascritta di “diritto” alla lista dei secondi. E’ quanto suggerito da una serie di riflessioni, tra cui quella del prof. Carlo Spagnolo, docente di Storia contemporanea all’università di Bari ed esperto di berlusconismo: la peculiarità del nostro paese sarebbe quella di essere incastonato in una politica della fede. Ciò che costituirebbe il vero lascito politico di Berlusconi.

A distanza di qualche tempo dalla scomparsa del cavaliere, lontano dal clamore mediatico suscitato dall’evento, proviamo a fare una riflessione più profonda e analitica sul ruolo esercitato nella politica e nella società italiana dal leader di Forza Italia, in questa intervista al prof. Spagnolo.

Politica della fede e non dello scetticismo: l’età contemporanea, come scrive Orsina riprendendo Oakeshott, è segnata dagli effetti del cattolicesimo in primis. Quanto e come Berlusconi ha sfruttato e politicizzato questa caratteristica della società italiana?

Una domanda non difficile, difficilissima. Berlusconi ha saputo cogliere la mancanza di riferimenti politici dovuti alla fine della Democrazia cristiana proponendo di quello stesso partito una versione laica, moderata e aconfessionale. Una proposta politica che ha guardato alla chiesa non come istituzione morale ma come istituzione sociale, capace di garantire la tenuta sociale del paese. Non ispirandosi alla sua dottrina, come era per la Dc pur essendo un partito laico, ma facendo del cattolicesimo una forma di difesa di una supposta identità nazionale in cui la religione cattolica diventava il baluardo di Forza Italia. Berlusconi resta coerente al suo latente nazionalismo che viene dichiarato come patriottismo: “L’Italia è il paese che amo”, ebbe a dire al suo esordio sulla scena politica. E, dunque, “ama” anche la chiesa cattolica perché gli serve. C’è un rapporto di reciproco interesse, in realtà: Forza Italia si impegnava a salvaguardare la tenuta istituzionale della chiesa nel paese, gli spazi di agibilità dei vescovi, dei parroci, il loro ruolo politico, e la chiesa a garantirgli il necessario supporto politico. Il cavaliere, inoltre, investe la Conferenza episcopale italiana di un ruolo istituzionale più forte. Abitualmente il papa dà indicazioni dirette alla conferenza: con Ruini e Wojtyla soprattutto, il pontefice affidò spazio autonomo alla Cei. Forza Italia cerca forme di legittimazione e soprattutto di moderazione della propria immagine individualista, imprenditoriale, del tutto sprovvista di attenzioni alle esigenze della società. Berlusconi resuscita l’anticomunismo quando il Partito comunista è ormai morto, ma lo fa proprio per instaurare un dialogo con tutte le forze che erano state anticomuniste e che si ispiravano alla Democrazia cristiana. Il partito di Berlusconi vuole essere non solo il partito dell’impresa ma anche l’erede della Dc.

La nostra sembra ancora una società incastonata nella politica della fede: “dopo Berlusconi c’è Dio”, così una cittadina pugliese ai microfoni di un giornalista ad Arcore, dopo dieci ore di viaggio per rendere omaggio alla salma del leader di Forza Italia. Come si spiega questo fenomeno antropologico?

Potrebbe esserci una sorta di involontaria autoironia. Cioè figlia dell’esaurimento dei valori della fede. Un che di disperato, addirittura. La ricerca di punti di approdo, di qualcuno in cui credere. Evidentemente anche una perdita, dolorosissima, a mio avviso, di punti di riferimento come la parrocchia e l’identità locale che genera la ricerca di simboli che le sostituiscano. Credo che tutto questo transfer sia avvenuto attorno alla tv. Questo, a mio avviso, è un passaggio importante. Berlusconi, ancor prima del suo esordio politico, è riuscito in un’operazione corsara: diventare il monopolista del mercato privato televisivo che, invece, era pluralista. Le sue tre tv private diventarono le uniche a trasmettere a livello nazionale, costituendo un polo alternativo non solo ai partiti, ma soprattutto, direi, alla funzione simbolica che stava dietro quei partiti. È, ovviamente, un’alternativa alla Rai, ossia all’informazione pubblica. Il transfer avviene nel corso degli anni ‘80, quando ai circuiti di socialità locale si sostituisce la tv. La tv diventa la nuova piazza. Mentre prima c’era la piazza del paese, quella in cui si “facevano le vasche”, le passeggiate dal mero scopo del riconoscimento sociale, con Berlusconi c’è la tv. Un vero e proprio modo di essere, di vivere, scompare. Una umanità che si conosce direttamente, viene sostituita dalla piazza televisiva. Basti pensare a Gianfranco Funari, un presentatore televisivo che negli ’80 vendeva prodotti in tv. Faceva degli show contro la politica. Piazzava i suoi prodotti con un messaggio antipolitico, anticipando in gran parte il berlusconismo.

Ma se questo è un aspetto molto probabilmente inedito per gli studi sul berlusconismo, considerare il “cavaliere” l’artefice dell’espansione distruttiva di un certo consumismo luccicante, invece, è concetto ricorrente. Com’è riuscito il cavaliere a trasmettere a milioni di italiani l’idea che la società capitalistica sia l’unica possibile?

Credo non sia stato Berlusconi a trasmettere agli italiani questa idea. Questo risultato è il frutto di una complessa lotta all’inflazione degli anni ‘70 che gli italiani hanno ancora bene in mente. Quella fu anche una lotta politica fra i sostenitori dell’intervento pubblico a favore, appunto, dell’economia pubblica – c’era ancora un Partito Comunista molto forte e un Psi che, per quanto avesse fatto un compromesso col mercato, si dichiarava socialista – e i sostenitori di una politica del privato. In quegli anni, inoltre, c’era una generale presa di distanza dall’Unione Sovietica e il capitalismo si rivelò ideologicamente vincente. Berlusconi raccoglie un consenso che già esisteva intorno all’idea che il mercato fosse l’unica scelta giusta. Idea che trionfa definitivamente negli anni ‘80 con Craxi che legò il socialismo al mercato. La novità craxiana fu proprio questa. Ma di qui all’idea fatta propria da buona parte degli italiani che l’imprenditore di successo sia il prototipo a cui ambire per raggiungere non solo, appunto, il successo economico ma anche quello umano, ce ne vuole. L’impresa aveva vinto prima di Berlusconi. Ma con Berlusconi vince l’imprenditore. Questa è la grande novità. E la rivoluzione che noi definiamo digitale ha reso possibile questo passaggio. Si annunciò, negli anni ‘80, un mondo nuovo di cui non si conoscevano i confini. Si aprirono forme nuove di comunicazione. La televisione diventa il simbolo, il veicolo di circolazione di queste nuove opportunità. Berlusconi emerge come imprenditore di successo – e la specifica “di successo” è fondamentale – mentre gli altri gruppi privati pubblici tra l’89 e il ’92, entrano in crisi. Pensiamo alla Fiat. Ed è per questo che il successo di Berlusconi non si deve misurare in assoluto, ma in termini relativi. Berlusconi un po’ puntando sul mattone, un po’ sul mercato televisivo, coniuga la tradizione con l’innovazione. Incontra il settore terziario avanzato. Oggi il gruppo di Berlusconi si basa su un mercato tradizionale: la Fininvest continua a poggiare sul mercato televisivo. Fino a che ci sarà la generazione di quelli che dicono che dopo Berlusconi c’è Dio, la Fininvest guadagnerà. Dopo sarà marginale.

Le reti private di Berlusconi hanno avuto, dunque, più influenza di quanto generalmente si ritiene?

Nel corso degli anni ‘80 la Fininvest aveva trasmesso delle soap opera di cui la più nota era Beautiful. Ma la serie Dallas, che narrava le vicende di una famiglia americana petroliera in Texas, era, in questo senso, la più importante di tutte. Era la storia di una scalata verso il successo di una famiglia; diffondeva i valori dell’impresa familiare. Una serie televisiva amatissima e seguitissima. La cosa da tenere bene a mente è che la trasmissione andava in onda tutti i giorni. Una grandissima parte di italiani nella pausa pranzo guardava Dallas, commentando le vicende dei protagonisti per ben dieci anni. Berlusconi, quando scenderà in politica, non rappresenterà solo Berlusconi ma anche Dallas. Ho dei dubbi sulla consapevolezza della manovra politica della Fininvest che, con la messa in onda di Dallas, ha preparato il terreno politico a Berlusconi, ma sono invece certo della consapevolezza di Berlusconi nel rappresentare poi il protagonista di Dallas.

Questo è un aspetto estremamente interessante, forse non sufficientemente considerato da chi si occupa di berlusconismo…

Gli aspetti culturali che stanno dietro la trasformazione della società italiana sono trascurati. La letteratura è quasi tutta di tipo politologico. Eppure gli aspetti culturali che stanno alle spalle di Berlusconi sono importantissimi per capirne il successo e soprattutto i limiti. Il lascito del berlusconismo ha bruciato i ponti con il passato, ha disabituato alla lettura, ha spinto fortemente all’abbandono della carta per la televisione e soprattutto, e questo è un altro passaggio cruciale, ha portato allo sradicamento della discussione politica che attraverso la carta passava. Ha disabituato il paese a ragionare di valori collettivi. Ha concentrato le aspettative non tanto sul successo individuale, quanto su quello familiare.

Può spiegare meglio questo passaggio?

Credo che l’Italia sia un paese piuttosto anomalo da questo punto di vista. Pensare che Berlusconi abbia alimentato una logica individualista, come spesso si dice, è uno degli errori di interpretazione più gravi che si possano fare. Berlusconi non ha alle spalle un partito liberale ma un movimento reazionario. I valori berlusconiani sono quelli di un familismo degenerativo, in cui tutto è lecito in nome dell’interesse della famiglia. La famiglia è lo strumento, a mio avviso, utilizzato da Berlusconi, per legittimare una nuova leva di comando legata all’ascesa del piccolo imprenditore. Il successo materiale economico diventa surrogato della crescita culturale: si diffonde l’idea che chi cresce economicamente cresce anche culturalmente. Questo è il risultato più disastroso che Berlusconi ha determinato attraverso le sue tv.

La sua è decisamente una lettura controcorrente: il culto della meritocrazia, il self- made manager, allora, hanno poco a che vedere con Berlusconi?

La politica berlusconiana ha trasmesso l’idea che i figli andavano tenuti sotto controllo. Una paura profondissima di perdere il controllo sui figli di una parte del paese, che ha perso i riferimenti culturali più profondi. La politica di Berlusconi prevedeva che si scaricasse sulla famiglia tutto. Ha reso la famiglia l’unica responsabile di sé stessa. I piccoli imprenditori hanno visto nel berlusconismo la loro stessa centralità all’interno della società ma anche all’interno della famiglia. L’imprenditore era visto sia come tale sia nel ruolo fondamentale di capo famiglia. E dunque il merito, al massimo, sta nello stare nella famiglia giusta. È per questo che i giovani hanno continuato ad andarsene, a lasciare il Paese. A rompere con le famiglie. Un segno dell’arretratezza del Paese. Noi docenti universitari formiamo ragazzi bravissimi che non trovano spazio. Una realtà frustrante. Se vi fosse una reale meritocrazia le cose andrebbero diversamente.

A proposito di disagio giovanile, Annalisa Merelli su Quartz ci ricorda che Berlusconi ha tagliato sistematicamente gli investimenti alla ricerca. Si può dire che studenti e docenti paghino ancora le conseguenze di tali scelte politiche?

La ricerca non si fa solo nelle università ma anche nelle imprese. Le aziende italiane hanno drasticamente tagliato i fondi per la ricerca e questo ha privato il paese di un motore di sviluppo importante. Un tempo, i grandi gruppi industriali avevano quasi tutti un reparto dedicato alla ricerca e allo sviluppo. Tra gli anni ‘80 e ‘90 la ricerca ha subito grossi tagli, per effetto del clima di crisi di cui parlavamo prima. Berlusconi ha poi tagliato i fondi per l’università. La critica ai baroni, al modo di svolgere lezioni riservate a pochi eletti senza disponibilità al dialogo con chi non ha strumenti idonei aveva e ha un fondamento. Ma non può e non deve portare alla distruzione dell’università. L’università ha diversi problemi ed è giusto pensare a delle riforme. Ma con la scusa di correggere disfunzionalità si son voluti tagliare i fondi alla ricerca. La legge Gelmini del 2010, varata dal governo Berlusconi, ha adeguato le università al modello delle aziende sanitarie, svuotandola della funzione principale della libera ricerca e orientandola verso quella applicata. I tagli riguardarono soprattutto la scuola e si risparmiò notevolmente sulla spesa pubblica in generale. Tutte scelte politiche a danno dei giovani e della loro possibilità di ascesa sociale attraverso la formazione. Berlusconi che è partito dalla promessa di un grande dinamismo, ha finito col proteggere in primis i suoi interessi per pensare solo secondariamente alla tenuta dell’esistente, delle piccole e medie imprese soprattutto. Per di più, in un paese perennemente in cerca di santi, Berlusconi ha finito per essere considerato il santo protettore dei piccoli e medi imprenditori. Santo Berlusconi come poi santo Salvini e oggi santa Giorgia Meloni. In cerca di una protezione siamo finiti in mano alla destra estrema.

Il disagio giovanile intanto è cresciuto a livelli esponenziali, manifestandosi nell’università barese. Com’è noto, all’ingresso dell’ateneo, sono stati affissi alcuni manifesti in cui si legge: “Il transfemminismo è nelle strade, quello dell’Università di Bari, non vale! (Un caro saluto ai/alle baron* dell’università)”. John Foot, in un articolo pubblicato sulla London Review of Books ha scritto che “Il contrasto tra le regole ufficiali e la loro applicazione è una caratteristica tipica dell’Italia” soffermandosi sul caso dell’Università di Bari e sulle sue reti di potere e clientelismo…

Le confesso che non ho capito a quale tipo di discriminazione il manifesto si riferisca. A mio parere l’università è il luogo della cultura: la si frequenta prescindendo dalla propria identità separata. Università è comunità, dove tutti possono stare, a prescindere dalla propria identità sessuale o religiosa. Chi frequenta l’università solo per il titolo è un cercatore di servizi, un cliente. Ha perfettamente assimilato il mantra berlusconiano. Poi, John Foot, a mio avviso, parla facinorosamente. È vero che nelle università italiane e soprattutto nel paese c’è una tendenza ad utilizzare discrezionalmente le regole, ma l’università italiana è sottoposta a talmente tanti controlli – che molto probabilmente Foot nemmeno immagina – che il discorso va tarato diversamente. Nel senso che ci sono pezzi di università, singoli dipartimenti, dove succedono cose che non dovrebbero succedere. Scelte di cooptazione troppo discrezionali. Ma anche le università in Inghilterra scelgono per cooptazione i docenti. In Italia, formalmente, questo è vietato. Il problema non è tanto la cooptazione quanto la trasparenza del meccanismo, che toglie le responsabilità a chi sceglie e permette di scegliere senza responsabilità, con tutti gli abusi che possono verificarsi. Bisogna responsabilizzare chi fa le scelte; incrementare i controlli non serve a molto, perché chi è particolarmente cinico potrebbe saper forzare la legge.

Ma qual è lo stato dell’università barese?

Esiste un problema che non manca negli altri paesi, e nel nostro caso, più che parlare di un problema barese, parlerei di un problema regionale. I meccanismi finanziari dell’università spingono verso la cooptazione di filiere interne per motivi di convenienza economica. Al sud il problema è più sentito perché c’è meno circolazione: abbiamo meno studenti che vengono da altre regioni. E, d’altronde, i baroni non esistono quasi più, tranne qualcuno che ormai è in pensione. Ma i baroni veri di un tempo, quelli che decidevano il futuro di una materia, di una disciplina, non esistono quasi più perché sono cambiate le condizioni.

Come ha valutato la scelta del rettore dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari di non esporre le bandiere a mezz’asta, come deciso dal governo Meloni, nelle giornate delle esequie di Berlusconi?

Capisco la motivazione etica che lo ha spinto a farlo. In genere condivido quasi tutto ciò che dice e scrive. Ma il suo dovere di rettore era quello di rispettare la legge, sempre esprimendo il suo dissenso: avrebbe potuto fare entrambe le cose. Si è esposto al rischio di essere perseguito legalmente…

In realtà pare non esista una vera e propria normativa e dovremmo anche considerare il valore politico della trasgressione…

Ci sono dei doveri d’ufficio. Montinari avrebbe potuto esporre le bandiere a mezz’asta un giorno solo, ad esempio. Ma nel merito, intendiamoci, ha ragione. Ha il mio personalissimo sostegno da questo punto di vista. Poi io sono cresciuto con l’idea che la legge è legge e va rispettata. Se si è in dissenso con le indicazioni del governo, allora bisogna appellarsi alla magistratura.

Questa la lunga e interessante intervista al prof. Spagnolo. In realtà, i manifesti all’università sono la spia di un deplorevole ordine gerarchico che condiziona una delle istituzioni più importanti della società meridionale. Se con Berlusconi il merito è rimasto, amplificandosi, nel nascere nella famiglia giusta, allora c’è ancora molto che necessita di essere decostruito. C’è da ripensare l’accademia, ridotta, come la scuola, ad azienda da Berlusconi, con la disastrosa conseguenza dei tagli alla ricerca e, in definitiva, dell’indipendenza e dell’autorevolezza di queste agenzie educative che appaiono minate profondamente se non definitivamente.