Don Chisciotte della Mancia e lo speciale patto con se stesso

Una "rilettura" del suo capolavoro, il primo romanzo moderno della storia della letteratura, è l'omaggio a Miguel de Cervantes nell'anniversario della nascita

Spesso gli studiosi si sono chiesti quando sia nato il romanzo moderno, grazie a quale opera e in quale fermento culturale. Ed è quantomeno incredibile che il primo romanzo italiano risalga all’Ottocento – I Promessi Sposi del nostro Alessandro Manzoni – quando invece il “primo” romanzo della modernità è stato scritto a cavallo tra 1500 e 1600. Gli italiani sono saliti sul podio per tanti secoli e in tante forme d’arte, ma stavolta hanno dovuto cedere il passo alla Spagna, in un periodo proficuo e prolifico, in cui è nato un personaggio quasi epico, che poteva avere i natali solo nella penisola iberica e nel suo Siglo de oro.

Si parla, naturalmente, del Don Chisciotte della Mancia (El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha) il capolavoro di Miguel de Cervantes, di cui ieri si è celebrato l’anniversario della nascita, avvenuta nel 1547 a Alcalá de Henares. Per l’occasione il governo spagnolo ha rimesso in circolazione le monete da uno e due euro, raffiguranti la statua del Don col suo fedele scudiero, eretta a Plaza de España a Madrid.

 

Miguel de Cervantes Saavedra, per citare il nome completo, si era ritrovato, a causa di circostanze avverse, in prigione e privo della mano sinistra. Fortunatamente non della destra, altrimenti il romanzo non avrebbe fatto il suo trionfale ingresso nella storia della letteratura mondiale. Nelle angustie del carcere, seppur nel pieno sconforto, sentendosi un suddito tradito dal suo re, rivoluzionò la letteratura moderna, come stava già facendo per il teatro quel “tale” William Shakespeare nella sua Londra.

Eppure, Cervantes non scrisse il suo capolavoro tutto in una volta, ma ne redasse una prima parte (poi diffusa) nel 1605 e, poi, un secondo volume solo un anno prima della sua morte, nel 1615. È un romanzo che potremmo considerare della vecchiaia perché, quando questo grande scrittore spagnolo iniziò a scriverlo, aveva già cinquantotto anni. E non poteva essere altrimenti, perché la vita aveva dato a Cervantes alcune, “fenomenali” lezioni di realismo (non di pessimismo) che difficilmente avrebbe potuto dimenticare e che sono incarnate e ben riposte nell’indimenticabile personaggio nato dalla sua penna.

Ma come nasce questo suo Don? Dalla letteratura stessa, e non poteva essere diversamente. In un borgo della Mancia, vive un signorotto di campagna. Certamente, non un don, perché non si parla di un nobile che riceve in eredità una ricchezza tale da non aver bisogno di lavorare, ma di un piccolo proprietario terriero con una piccola ricchezza, sufficiente a permettergli di mettere su una bella biblioteca, piena di titoli della migliore letteratura cavalleresca. Possiede solo poche terre che gli fruttano modesti guadagni e il suo futuro Ronzinante, in verità, è un cavallo per arare i campi, anziano e malconcio. Vive con una nipote di vent’anni e una vecchia domestica, conducendo una vita modesta e certo senzan lussi. Una vita come quella che vivono in molti, senza nulla di interessante.

Il nostro piccolo signorotto viene chiamato Chisciada o Chesada dagli altri abitanti del borgo. Un soprannome malizioso, che significa formaggio, a riprova del fatto che sia ritenuto, poi, una grande intelligenza. Eppure, Alonzo Chisciano (questo il suo vero nome) è un uomo di cultura e legge. Legge tanto, ma solo romanzi di cavalleria. Ama così tanto la lettura da passare l’intera giornata nella sua biblioteca, dove, come scrive lo stesso Cervantes, gli si “secca il cervello a tal punto che arrivò a perdere il giudizio“.

E allora decide di diventare cavaliere. Le sue fantasie divengono realtà al punto che non riesce più a distinguere il vero dal falso. O almeno così sembra ad una lettura superficiale, perché a ben vedere il nostro Don ricorda benissimo eventi realmente accaduti e sa bene cosa sia successo per davvero. Ma confonde le acque, si concentra così tanto sulla sua fantasia da non desiderare altro se non questa immersione. Una follia, la sua, contagiosissima, in grado di coinvolgere chiunque sia intorno a lui, specie il suo amabile scudiero Sancho.

Don Chisciotte ricerca i valori della cavalleria, li vuole riportare in vita, vuole che non muoiano perché, a suo parere, sono il solo modo per rendere migliore il suo mondo. E, chissà, magari per renderlo anche più interessante. Quando vi sarà il doloroso risveglio, il ritorno alla realtà, Don Chisciotte non potrà che morire. Avrà fallito la sua missione, strappato via il velo di Maia. Sarà giunto all’amara conclusione che il mondo che tanto insegue probabilmente non è mai esistito, se non nei suoi libri.

Ma torniamo a questo anziano signorotto e alla sua trasformazione in cavaliere. Prima di tutto, abbandona il proprio nome e si battezza Don Chisciotte. Segue tutti i rituali che ha appreso dalle sue letture: indossa una vecchia armatura arrugginita, impugna la sua vecchia lancia, prende lo scudo, calza sulla testa una vecchia bacinella del barbiere, come fosse un vero elmo da cavaliere. Fa la preghiera e il giuramento dei cavalieri, come il codice cavalleresco recitava, e parte per le sue avventure. Quando decide di uscire, sale sul suo ronzino, si cala la celata sull’elmo, prende tutto l’occorrente e si avvia verso la campagna. Nel mentre, con la massima allegria, si compiace di quanto sia stato facile entrare nelle sue fantasie. E qui, esattamente a questo punto, Don Chisciotte fa un patto con se stesso.

Cos’è questo patto? Perché dovrebbe riguardarci? Un noto critico letterario, Philippe Lejeune, ha scritto un libro molto interessante in tal senso, intitolato Il patto autobiografico. E qui dice che ogni lettore, mentre legge, stringe un patto implicito con l’autore. Sa bene che quello che trova nel libro non è vero, che è pura finzione, ma promette allo scrittore che, in quel lasso di tempo, fingerà che tutto ciò che trova scritto sia vero. Naturalmente, una verità altra, posta su un altro piano rispetto alla realtà. La rivoluzione di Cervantes è far fare questo patto al suo stesso personaggio e Don Chisciotte sceglie di non uscire più da questo gioco, dal ruolo che si è scelto. Si impegna affinché le sue fantasie non siano solo fantasie. Non è, quindi, solo un personaggio: è una creatura vivente, libera di essere chi vuole e di credere quello che vuole.

E non è casuale che sia proprio questo straordinario cavaliere a pronunciare l’elogio più bello che esista sulla libertà. Un vero e proprio manifesto per chiunque sia libero e voglia esserlo: “La libertà, Sancio, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano mai dato agli uomini; né i tesori che racchiude la terra né che cuopre il mare sono da paragonare ad essa; per la libertà, come per l’onore, si può e si deve mettere a repentaglio la vita; la schiavitù invece è il peggiore dei mali che agli uomini possano toccare. Dico questo o Sancio, perché bene hai veduto il ristoro e l’abbondanza che s’è goduto in questo castello che ora lasciamo; ebbene, fra tanti squisiti banchetti, pur con tutte quelle bevande ghiacce come neve, a me pareva di trovarmi fra le strette della fame, perché non ne godevo con la libertà con cui ne avrei goduto se fossero state mie, in quanto che gli obblighi di avere a ripagare i benefici e i favori ricevuti sono vincoli che non lasciano risaltare l’animo indipendente. Beato colui al quale il cielo dette un tozzo di pane senza che resti l’obbligo di esserne grato ad altri che al cielo stesso!“. Un gran bel messaggio da consegnare ai lettori di Cervantes.

In alto, il Don Chisciotte di Gianni Pacinotti