Di quale ascolto ha bisogno il disagio giovanile?

La violenza dei ragazzi contro donne della stessa età è la punta dell'iceberg di un malessere generazionale, a cui nè la società nè la politica offrono soluzioni

A fine agosto, due ragazzine di 10 e 12 anni sono state violentate da un gruppo di adolescenti nel Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli. Pochi giorni prima una ragazza di 19 anni aveva subito violenza al Foro Italico di Palermo. Vicende desolanti che hanno scosso particolarmente l’opinione pubblica e sollecitato l’intervento della politica.

Ma cosa ci dicono della società in cui viviamo? Della cultura che permea gli strati più profondi del nostro paese? Vicende che segnano irrimediabilmente la crisi degli epistemi, di un mondo valoriale capace di significare i comportamenti di ciascuno orientandoli al comune senso del vivere. Ma tali episodi di aggressività, perpetrata ad opera di giovani vite, impongono altresì riflessioni sulle periferie degradate di molti territori, sul concetto di maschilismo e sul ruolo dei social media. Urge una risposta comunitaria e collaborativa al disagio psicologico, sia in termini di agenzie educative, investite nell’ultimo periodo da una crisi di senso, sia politica con finanziamenti che vadano nella direzione di interventi calibrati sulla prevenzione.

   

È innegabile come l’assenza di adeguate politiche sociali abbia accresciuto il disagio psicologico dei giovani e acuito le situazioni pregresse, rendendo esponenziale un problema fin troppo disatteso mentre invece necessita di urgenti interventi in termini di prevenzione e sostegno per frenarne l’esplosione. Occorre meglio destreggiarsi sulle onde del caos originato da una stasi istituzionale e da un vuoto programmatico, ai vari livelli di responsabilità e competenza, in riferimento alle politiche di contrasto al disagio giovanile.

Al di là di ogni rappresentazione originata da una cultura sociale che ripropone uno storico dualismo mente e corpo, è del tutto evidente che la crisi sanitaria degli ultimi anni si stia trasformando in crisi psicologica. Mistificare la realtà è un errore marchiano. Assistiamo nella fascia adolescenziale ad un incremento delle attività autolesive decisamente prodotte da crisi di agitazione psicomotoria e ansia. Le diagnosi che prevalgono sono quelle del tentativo di suicidio. Si registrano disturbi come l’ansia, l’irritabilità, lo stress, i disturbi del sonno, direttamente connessi alla condizione di isolamento del passato lockdown. Un quadro in sostanza che conferma come la pandemia sia stata solo la spia o il detonatore del disagio dei nostri ragazzi.

Nel diffuso disagio si inseriscono tematiche sociali inevase che si sono particolarmente accentuate col processo di trasformazione dell’interazione sociale causato anche dalle misure di contenimento, determinando nelle diverse forme di dipendenza la facile illusione di una riduzione dei pensieri negativi o sfociando in forme di autolesionismo e violenza estrema. Il facile consumo di alcol e di diverse sostanze da parte dei minorenni non accenna a diminuire anche in ragione della diffusione dei servizi di home delivery. Di contro, nessuna esperienza di luoghi consistenti e forme di socialità rassicuranti, ovverosia capaci di ascolto e mediazione in grado di superare una concezione privatistica del disagio a vantaggio della socializzazione di angosce e fragilità così da poter accogliere a braccia aperte ombre e domande di senso.

Questo stato di crisi – che annega ogni visione del futuro – sospinge i nostri ragazzi verso viaggi di allucinazione alla ricerca di uno stato ingannevole di beatitudine, quel che Davide Rondoni definisce un “finto pieno di una vita vuota”, nel mentre noi restiamo incredibilmente statici, senza provare ad immaginare progettualità a forte impatto in grado di riaprire una partita educativa complessa, che non può non essere “pubblica” ovvero di tutta la comunità.

Penso alla triste storia del giovane Giacomo Sartori che a Milano nella notte tra il 17 e il 18 settembre 2021 è spinto al gesto estremo del suicidio dopo il furto subito del suo zaino contenente il suo computer: sconsolato e turbato lascia il gruppo degli amici con cui si trovava, mosso da un infinito sconforto che lo rende inquieto, facendolo precipitare in uno straniante senso di vuoto e di smarrimento, e decide di mettere fine alla sua vita. La sua morte si fa simbolo del disagio giovanile nelle nostre città, un disagio che assai spesso porta ad una resa di fronte alla vita e alle circostanze avverse che l’attraversano.

Come Giacomo molti giovani si ritrovano troppo spesso come ingabbiati nei mortiferi meccanismi della società d’oggi e come occlusi dagli asfissianti ingranaggi della omologazione che finiscono per ingenerare una scarsa fiducia in sé, nella famiglia e negli altri. In dissidio con la realtà circostante si precipita nel buio del disturbo depressivo e delle frustrazioni più esasperate. Viviamo in un tempo in cui tutti aspirano a mostrare il lato più performante di sé, alla certezza di una coscienza di un sé perfetto, che si rivela sempre più un grande bluff. L’omologazione culturale e la crescente difficoltà di reperire precisi modelli identitari di riferimento comportano inevitabili fattori di rischio, che finiscono per accrescere la condizione di disagio giovanile. Oggi i giovani sono sottoposti dalla società a continue spinte di accelerazione che non riescono a contenere e spronano a forme di individualismo e di sfrenata competizione che si insediano nell’inconscio dei giovani e in modo più o meno consapevole portano a quella sindrome di dipendenza qual sono le droghe, internet, videogames, preferenze alimentari, una vera piaga sociale dei nostri giorni.

La possibilità di nuove risorse drenate dal programma “Next Generation Eu” rappresentavano una oculata occasione per agire in prevenzione e cura con riferimento al malessere giovanile, meglio investendo in tema di salute mentale, sui programmi di contrasto alle dipendenze e non certo ultimo per importanza, sul sistema scuola. Ma nulla si muove, tutto sembra irrimediabilmente perso. Ecco allora l’urgenza di un piano di investimenti che si accompagni ad una chiara strategia di cambiamento e di una valutazione di impatto “ex-ante” atta ad evitare una dissipazione di risorse e una replicazione di interventi irrazionali perché non coerenti con i reali bisogni di benessere della popolazione giovanile. Il disegno di ogni intervento o di ogni programma di prevenzione, assistenza e cura non potrà non partire da questi assiomi metodologici.

Innanzitutto, non è più rinviabile l’attuazione di una programmazione delle risorse economiche e professionali con una chiara visione condivisa da tutti i portatori di interesse al fine di orientare al meglio la destinazione degli interventi (equità) e di favorire l’intento cooperativo/collaborativo tra i diversi stakeholders. A tale scopo, è indispensabile la messa in campo di un coordinamento tra servizi che si occupano di prevenzione e assistenza, nonché tra operatori, utenti, familiari, associazioni, Enti del Terzo Settore. Tutti i soggetti chiamati in causa si devono sentire impegnati a ridurre l’impatto di fattori di rischio e ad aumentare l’incidenza di fattori protettivi.

Risulterà essenziale l’approccio comunitario che andrà a focalizzarsi sulla promozione della salute e degli stili di vita sani, in una fascia di età in cui si preannuncia la prevalenza di disturbi psichici, e sulla necessità di progettare servizi integrati. Paradigmatica è l’esperienza attuata in alcuni territori del servizio di educativa di strada come progetto di contenimento del disagio giovanile in sinergia con i servizi sociali. Ad oggi l’educativa risulta smantellata in molte regioni per mancanza di fondi. Da ultimo, vanno ridefinite le politiche educative; sappiamo come la scuola favorisca le relazioni tra coetanei e dunque costituisca un efficace ammortizzatore dei conflitti adolescenziali.

Ormai va raccolta la sfida di paradigmi culturali, organizzativi ed educativi sinora indebitamente tenuti a distanza. È tempo di ridare forza alla speranza e nuova dignità alla partecipazione politica per il bene dei nostri figli. Nel nostro tempo è senza senso aspettare che qualcuno venga dal mare per riportare la Legge sull’isola devastata dall’egotismo dei Proci. E’ altrettanto vero, però, che nell’epoca dell’evaporazione del padre, bisogna sapersi liberare dall’ossessione del passato: sono proprio i figli che ci indicano la nuova direzione verso cui guardare, perché i figli sono i giusti eredi e reclamano il bisogno di nuove forme di socializzazione, nuovo dialogo, nuove relazioni, nuovi sguardi. Hanno bisogno di essere ascoltati, di essere rafforzati nella propria dignità identitaria.

La foto in alto è di Margherita Vitagliano

Angelo Palmieri, bitontino, è un sociologo. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Economia e Gestione delle aziende sanitarie presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. I suoi interessi di ricerca si concentrano sul management sanitario, politica sociale e programmazione dei servizi alla persona. Per conto della casa editrice Franco Angeli ha curato il volume “Assistenza Sociosanitaria in Molise. Rapporto 2009” (2010) in collaborazione con Americo Cicchetti. Svolge attività di consulenza come progettista sociale per diversi Enti del Terzo Settore. Collabora con diverse comunità di minori in qualità di educatore, dedicandosi in particolare alle dipendenze.