Tra propaganda e falsa modernità, ecco il liceo Made in Italy

Il disegno di legge del governo Meloni punta a forgiare i futuri tecnici, senza considerare che compito della scuola è formare gli uomini e i cittadini di domani

Ricordo ancora quando nel 2007, neo vincitore del concorso per presidi, dovendo scegliere la sede ed avendo molte opzioni, più semplici e scontate per la continuità suggerita dalla mia esperienza precedente di insegnamento, scelsi di fare il preside a Molfetta, non nella mia città, Bitonto, in un istituto tecnico, il Salvemini, con corsi per periti turistici, geometri e ragionieri.

Mi guidavano, allora, la curiosità e un’intuizione. La curiosità per percorsi formativi mai prima frequentati e/o conosciuti, seppure superficialmente. E l’intuizione che questa scelta rientrasse in uno stile e un’idea dell’insegnamento, quindi con una valenza universale. Io rifiutavo, prima di tutto, il “Si dice…” ed il “Si fa…” che la mia esperienza nella formazione, nei licei in Italia ed all’estero, aveva costituito e consolidato. Ed accettavo di imparare discipline nuove, i loro linguaggi, le loro implicazioni ed i loro rapporti con l’educazione che contribuivano, e contribuiscono, a costituire.

Sempre con l’idea dell’unità della cultura e con la consapevolezza della sua utilità, proprio per “l’inutilità” che la caratterizza. Abbiamo costruito l’alternanza prima dell’alternanza, abbiamo assicurato ai nostri alunni stage veramente formativi, in Italia ed all’estero.

Ma le esperienze formative più importanti, quelle che ricordo più volentieri, sono state la partecipazione dei nostri futuri geometri agli scavi di Egnazia, in collaborazione con il locale museo e con il Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Bari: in diverse campagne di scavo, i nostri studenti hanno lavorato sull’agorà, sull’Acropoli e sulle Terme, hanno insegnato agli studenti universitari ad usare Autocad per riprodurre i reperti, hanno imparato a riconoscere la storia della terra. Oppure il premio speciale per la creatività filosofica conquistato da un gruppo di alunni, ragionieri e geometri, particolarmente curiosi nei confronti della filosofia e della consulenza filosofica.

Non si è trattato, e non si tratta, ovviamente, di liceizzare l’istruzione tecnica: non erano archeologi, quelli che intendevamo formare, anche se abbiamo instillato il germe di una passione che ancora dura per molti di quegli studenti, ma geometri conoscitori e consapevoli del proprio territorio e della sua storia. Così come gli studenti che hanno guadagnato, unico caso in Italia, un premio che non sembrava costruito per loro, non sono diventati filosofi, ma sicuramente cittadini più consapevoli di sé e più creativi.

La scuola, però, non è cresciuta, in questi anni, nella consapevolezza dell’unità della cultura e nella proposizione di curricula non più semplici o aggiornati ma più densi ed interessanti. Si sono moltiplicate le discipline che “arricchivano” il curriculum degli studenti, senza avere il peso specifico e l’influenza formativa delle vere esperienze educative. La rincorsa della modernità, o, per meglio dire, dell’idea che oggi abbiamo della modernità, e che prima di dopodomani sarà obsoleta, è stata l’alibi, per il legislatore, per non innovare seriamente.

E’ questo il contesto culturale di proposte estemporanee quali il liceo del Made in Italy, così com’è indicato dal disegno di legge 497. Questo nuovo indirizzo liceale, il settimo specialistico, prevede 27 ore medie settimanali, con corsi di lingua e letteratura italiana, storia dell’arte, matematica, informatica, scienze e cultura straniera, fisica, storia e geografia, diritto ed economia politica; nel secondo biennio si aggiungerebbero economia e gestione delle imprese del Made in Italy e modelli di business nelle industrie dei settori della moda, dell’arte e dell’alimentare, per 31 ore medie settimanali.

Prima di tutto, pare per lo meno contraddittorio che questo nuovo indirizzo di studi venga coniugato sin dal titolo in inglese, visto che delle nostre eccellenze nazionali, nel campo dell’accoglienza, della ristorazione e dell’arte, si dovrebbe trattare. Ma Rampelli lo sa?

In secondo luogo abbiamo già, in Puglia, per esempio, delle esperienze positive di formazione professionale, organizzata anche in rete tra istituti secondari e università, quale quella organizzata dall’Istituto Volta-De Gemmis di Bitonto-Terlizzi, oppure dal Basile Caramia-Gigante, di Locorotondo ed Alberobello, i cui studenti hanno presentato i vini da loro prodotti all’ultima edizione di Vinitaly.

Sono cambiati anche gli studenti: i corsi serali di questi Istituti stanno crescendo, anche grazie ad adulti che fanno la scelta della propria riqualificazione, con qualche speranza di poter utilizzare il proprio titolo di studio. Non è quindi di una nuova sigla che queste scuole si possono accontentare, non è di questo che la scuola ha bisogno. Anzi, l’istituzione di un corso liceale rischia di far retrocedere, nel nome di una presunta modernizzazione, le esperienze positive appena citate, nell’ambito della formazione professionale.

Ma esiste, infine, una motivazione più seria, diciamo così di lungo periodo, per denunciare ed opporsi a questo modo di affrontare i problemi della scuola. Noi non sappiamo, ora, quale mestiere faranno i nostri figli e, soprattutto, i nostri nipoti. La capacità previsionale, la concretezza della speranza che la nostra generazione ha nutrito, e realizzato, oggi non funzionano più. Non possiamo coprire questo buco nero con slogan o aggiustamenti superficiali.

Occorre ripensare sul serio i modelli di cittadinanza cui vogliamo ispirare la nostra attività educativa. Quale cassetta degli attrezzi utilizzare? Come fare in modo che i nostri nipoti vivano gli inevitabili cambiamenti, mantenendo dritta la barra della loro consapevolezza? Quale ruolo la scuola oggi può e deve giocare nella formazione di futuri tecnici, ma anche e soprattutto di uomini e cittadini?

In alto e nelle altre foto, l’affresco e alcuni particolari de “La scuola di Atene” di Raffaello