Il lavoro è la terra promessa

Il comune di Bisceglie con la Caritas e altre associazioni mira, grazie all'agricoltura, al reinserimento in società di quanti abbiano scontato una pena detentiva

Combattere la marginalità e l’isolamento sociale di chi sta scontando un debito con la giustizia è un obiettivo che riguarda tutti: se le nostre città avranno meno sacche di marginalità, tutti noi potremo viverci meglio e più sicuri, grazie alle potenzialità che ogni persona può mettere a disposizione della comunità.

“Sono diverse le persone che, appena terminato di scontare una pena detentiva, utilizzano le ore di ricevimento che l’assessorato dedica ai cittadini per chiedere un aiuto nel trovare una nuova occupazione. Quando una di queste persone è giunta a dirmi che se non avesse trovato lavoro sarebbe tornata a delinquere, ho provato un dolore al quale sarebbe stato impossibile rimanere indifferente”. Così Roberta Rigante, assessore all’inclusione sociale del comune di Bisceglie, spiega la spinta che ha fatto nascere il progetto Un’altra terra (qui il video) destinato ai soggetti in esecuzione di pena o che l’abbiano già conclusa, con l’obiettivo di insegnare loro un nuovo mestiere: la coltivazione della terra, in grado di offrire maggiori possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro, riducendo il rischio di reiterazione del reato. I prodotti, una volta raccolti, saranno donati alle mense della Caritas diocesana per sostenere altre famiglie in difficoltà.

Emilio Molinari (UiEPE) e l’assessora Roberta Rigante

Il progetto, coordinato da Elsheikh Ibrahim, è stato promosso dall’UiEPE (l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna) di Puglia e Basilicata e da Terre Solidali, impresa sociale costituitasi nel 2011 dopo il successo dell’iniziativa, avviata nel 2009, su idea della Caritas diocesana di Trani-Barletta-Bisceglie. I soci fondatori di Il Traghetto e di Etnie, associazioni di promozione sociale, e la cooperativa sociale Prometeo hanno quindi unito le differenti competenze per dar vita a nuove strategie di occupazione, di economia sociale e di educazione alla legalità. Nei percorsi avviati da Terre Solidali, i soggetti in esecuzione penale s’impegnano nella coltivazione di ortaggi (fave, cavolfiori, piselli, pomodori) e funghi, e in colture etniche (ocra, coriandolo) su terreni in agro di Bisceglie (due ettari) e di altre città del barese e nord-barese, per un totale di oltre 10mila piante.

“Da cappellano mi rendo conto che il vero problema per le persone detenute è quello di avere prospettive lavorative dopo”, spiega il direttore della Caritas diocesana, don Raffaele Sarno. E prosegue: “La domanda che i detenuti si pongono é la seguente: quando finisce la detenzione, potrò avere la possibilità reale di reinserirmi a testa alta nella società o dovrò rientrare nei circuiti criminali? Questa è l’interrogativo che ci poniamo anche noi operatori ma che dovrebbe porsi la società nella sua interezza. Se la società continuamente chiede sicurezza sociale, questa non può arrivare da un’ulteriore carcerazione ma da una possibilità lavorativa che viene creata dove prima non c’era”.

Don Raffaele Sarno

Il lavoro cosiddetto “produttivo” in carcere si è progressivamente impoverito, a tutto vantaggio del lavoro “domestico”, che possiede minore valenza ai fini del trattamento rieducativo del detenuto e della qualificazione professionale necessaria al successivo reinserimento nella società. Un progetto come quello di Un’altra terra rimette al centro del dibattito il principio “risarcitorio” della pena: il soggetto che è stato giudicato per un reato, in fase di espiazione della pena, risarcisce la società con il valore aggiunto di un corretto recupero ambientale, di una tutela di una specie protetta, di un’attività ecologicamente compatibile e solidale con le fasce economicamente più deboli della società (rispettando il principio della reciprocità). Oltre al rispetto etico della funzione della pena, tale ambito di lavoro permette alla persona che sta per terminare (o ha terminato da poco) di scontare il suo debito, di sfruttare nel mercato esterno il bagaglio di competenze acquisite.

Un sistema penitenziario efficiente dovrebbe ridurre il numero di quanti una volta liberati tornano a delinquere, richiamando il principio costituzionale secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Le carceri, invece, producono un tasso di recidiva molto alto: oltre il 68% come dicono i dati relativi al 2016 del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. Uno studio svolto nel 2003, ma ancora utilissimo, considerati i pochi progressi fatti, da Giuseppe Mosconi e Laura Baccaro, con il titolo Il girone dei dannati, è stato uno dei primi ad analizzare il fenomeno del recidivismo, somministrando un questionario ai detenuti delle carceri di Padova riguardo ai bisogni da loro ritenuti primari al momento della scarcerazione.

Elsheikh Ibrahim

Dai risultati emerge innanzitutto una condizione di doppia marginalità dei detenuti, avvertita tanto dagli italiani quanto dagli stranieri: se da un lato vengono messi al bando dalla società, dall’altro loro stessi hanno una percezione “di esclusione dalla vita”. Emblematico è lo scarso numero di coloro che non considerano utile affidarsi alle strutture assistenziali sul territorio dopo la scarcerazione. Il risultato è una sfiducia sostanziale nei confronti delle istituzioni preposte al reinserimento, tanto che, di fatto, si preferisce poi arrangiarsi da soli, rischiando di rientrare nei circuiti criminali. A riprova del fatto che il lavoro può rappresentare un valido strumento di risocializzazione, si segnala che il 35.3% degli intervistati sostiene che il primo provvedimento che le autorità dovrebbero adottare in favore degli ex detenuti riguarda proprio la possibilità di accedere a un’attività lavorativa (e così il 38% di loro, alla domanda rispetto ai propri desideri per il futuro, dichiara di pensare ad un progetto lavorativo).

Per queste ragioni il progetto Un’altra terra (e, più complessivamente, quello di Terre Solidali) ha una doppia valenza: personale e collettiva. Da un lato, “l’educazione alla sconfitta”, per usare le parole di Pasolini; alla costruzione di una identità che ammette il fallimento e che indica il percorso per ricominciare senza che il valore e la dignità siano intaccati. Dall’altro, l’idea di strappare “fazzoletti di terra” al degrado e all’incuria (o al cemento), per coltivare in maniera sostenibile. Idea che oggi più che mai, dopo la pandemia, può emanciparsi dalla categorizzazione univoca di “industria alimentare” che tutto ha inghiottito, annullando e soffocando al suo interno le realtà di micro-piccola scala, che necessitano di misure apposite e differenti.

Un’altra terra è promosso dal Comune di Bisceglie e organizzato in partnership con Caritas diocesana di Trani-Barletta-Bisceglie, Terre Solidali Impresa Sociale, UiEPE (l’ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna) di Puglia e Basilicata, col contributo del Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Puglia. Il percorso prevede anche azioni di formazione e accompagnamento al lavoro autonomo, che saranno curate da I.for Pmi Prometeo, organismo formativo accreditato. L’iniziativa è realizzata congiuntamente ai progetti Apprendimento on the Job in agricoltura, promossi dall’Ufficio del Garante Regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, e Start, sostenuto dalla Caritas diocesana attraverso il fondo 8xmille Cei.

Foto Davide Sette