Il ruolo sociale viene definito come un insieme di comportamenti che ci si attende che una persona metta in atto, in relazione al fatto che essa occupa una particolare posizione nella struttura sociale. Lo schema di ruolo è allora la struttura cognitiva che organizza le conoscenze circa i comportamenti previsti. Ci sono però dei ruoli che le persone incarnano sin dalla nascita e che li accompagnano per tutta la loro vita: si tratta dei ruoli ascritti, come il genere sessuale, la razza, l’età. A questi sistemi, qualche volta semplici e non di rado semplicistici, gli psicologi sociali hanno dato il nome di stereotipi. Rispetto a tali contenuti, la domanda che ci si pone è la seguente: come si realizza la trasmissione dei contenuti stereotipici, da generazione a generazione?
Il più importante veicolo è quello linguistico, o meglio, il vocabolario impiegato in una certa cultura per trasmettere informazioni o per denominare gruppi. Le opzioni linguistiche non conoscono confini e le concezioni stereotipiche riguardanti i generi sessuali emergono, in maniera curiosa, anche dagli annunci di morte che compaiono sui giornali. Gli studiosi hanno confrontato gli annunci comparsi sulla stampa tedesca negli ultimi vent’anni e nonostante l’esclusiva selezione di dirigenti aziendali, è emersa una forte diversità terminologica nel descrivere maschi e femmine. Dei primi si ricorda principalmente l’intelligenza e l’esperienza, delle seconde le qualità umane e la socievolezza.
Nella società occidentale, in aggiunta, il corpo femminile è spesso ridotto a oggetto sessuale, dove una parte è sufficiente a indicare l’intera persona, che perde così la sua integrità psicofisica. Analisi di annunci pubblicitari, film, programmi televisivi e giornali concordano nell’indicare che i corpi femminili sono i soggetti privilegiati dell’oggettivazione. Si parla di sessualizzazione quando il valore di una persona viene confinato alla sua capacità di attrazione sessuale, a esclusione di altre caratteristiche. Se ne deduce che la persona venga considerata come uno strumento del piacere altrui, piuttosto che come un essere capace di agire e decidere in modo responsabile e autonomo.
I dati nazionali, visionabili da chiunque sul sito dell’Istat evidenziano che più del 30% delle donne italiane ha subito violenza fisica e/o sessuale. Il campione riguarda donne tra 16 e 70 anni e nella maggior parte dei casi le violenze sono domestiche, avvengono cioè all’interno di relazioni significative e rimangono taciute; lo stupro, inoltre, è più probabile e frequente da parte di conoscenti che di sconosciuti. Questi dati allarmanti, mettono ancora una volta in primo piano la relazione, quella significativa, dove l’amore si mescola alla paura, al dolore, all’impotenza, alla colpa. Definirsi e schierarsi contro la violenza è dunque, il punto di partenza; spesso infatti ciò che danneggia è confuso e attenuato, irragionevolmente legittimato da chi subisce e da chi abusa, di frequente vittima, a sua volta, durante l’infanzia.
L’oggettivazione sessuale lascia pertanto, trasparire un grigiore di fondo: alle donne vengono richiesti pochi atteggiamenti stereotipati, ruoli limitati, corpi e visi identici ridotti a oggetti di consumo, interscambiabili e privi di singolarità. Ai corpi disponibili per l’uso, si accompagna lo sguardo oggettivante, che porta gli individui ad interiorizzare la visione dell’osservatore e a trattare se stesse come oggetti da valutare sulla base dell’aspetto fisico. A differenza di quanto accadeva nel passato, l’auto-oggettivazione risulta parecchio penalizzante nella società attuale, con impatti negativi sulle prospettive di carriera. I costi più alti sono però quelli che incidono sul benessere psicofisico, determinando la riduzione di esperienze motivazionali e la consapevolezza di stati interni, a causa dell’ostinata concentrazione sull’aspetto esteriore, a cui si associano disfunzioni sessuali, stati depressivi e disordini alimentari. L’esposizione costante a modelli femminili irraggiungibili provoca sentimenti di ansia, vergogna, inadeguatezza, analisi ossessiva del proprio aspetto, unita all’incapacità di pensare con chiarezza e al desiderio di nascondersi dallo sguardo altrui.
Alla luce di quanto sopra esposto, è possibile dedurre che il fenomeno dell’oggettivazione femminile contribuisce al mantenimento dell’ineguaglianza tra generi causando un’accentuata tolleranza rispetto al mito dello stupro (ritenere che le donne provochino lo stupro con il loro abbigliamento o comportamento), alle violenze interpersonali e molestie sessuali. Ancora oggi, sfogliando i giornali è possibile imbattersi in affermazioni legate agli ultimi femminicidi di Caccamo (Pa) e Carmagnola (To), secondo le quali, la gelosia, il troppo amore o il dolore per la fine di una relazione andrebbero a costituire il movente del reato di omicidio. A tal riguardo, risulta necessario “ri-umanizzare” le donne uccise dalla violenza maschile, dando loro un’identità, una storia, un volto. Molto spesso infatti, quando i media danno notizia di una donna uccisa dal partner, raccontano più dell’assassino che della vittima, ottenendo l’effetto di umanizzare lui e rendere invisibile lei, giustificandone quasi la violenza (unico vero movente).
La violenza si combatte con un cambiamento culturale sin dalla tenera età, insegnando il rispetto di genere e il diritto alla libertà di scegliere la vita che si vuole vivere. La violenza maschile nelle espressioni più drammatiche (percosse, stupri, omicidi) non è un fenomeno socialmente isolato, ma nasce in un sistema di relazioni molto ampio che riguarda l’organizzazione sociale dei rapporti tra i sessi, che giustifica forme di sessismo destinate a porre il maschio in una condizione dominante. Da questo deriva, anche nell’universo mentale femminile, quella introiezione inconscia delle strutture androcentriche su cui si è costruito nel tempo il potere maschile, secondo paradigmi culturali e schemi di valore con trasmissione intergenerazionale e che contribuiscono a consolidare l’impianto sociale dominante.
La battaglia culturale contro la violenza sessuale deve tradursi in educazione alla sessualità, per valorizzare l’incontro tra i sessi come un incontro tra differenze, per il quale, la libertà è considerata come forma più alta d’amore. “La donna uscì dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, non dalla testa per essere superiore ma dal lato, per essere uguale, sotto il braccio per essere protetta, accanto al cuore per essere amata”. (W. Shakespeare)