Sono trascorsi quarant’anni dalla morte del commissario Alfredo Albanese, vittima il 12 maggio 1980 a Venezia dell’agguato compiuto da un gruppo di brigatisti. L’allora trentatreenne poliziotto, nato a Trani nel ’47, era il responsabile della sezione antiterrorismo di Pubblica Sicurezza nel capoluogo veneto con l’incarico di vicequestore aggiunto. Un ruolo delicato, svolto durante i cosiddetti “anni di piombo”, stagione tra le più drammatiche e violente della storia della Repubblica.
Fu, infatti, nella seconda metà degli anni Settanta che la strategia eversiva delle Brigate Rosse raggiunse la massima efferatezza, con una serie di attentati che falciarono decine di vite, tra comuni cittadini, professionisti e servitori dello stato, come il giovanissimo Albanese, e che toccò il punto più alto con l’assassinio dell’on. Aldo Moro.
Dopo la laurea in giurisprudenza, conseguita all’Università di Bari, Albanese entra nella Pubblica Sicurezza nel 1975, dopo una breve esperienza come segretario comunale a Candia Canavese, piccolo comune dell’hinterland torinese. Nel ‘77 viene nominato direttore del terzo distretto di Polizia a Mestre, per poi passare nel ‘79 alla DIGOS veneziana col ruolo di capo della sezione antiterrorismo.
In quegli anni, si occupa prima dell’assassinio di Lino Sabbadin, militante del Movimento Sociale Italiano e, poco dopo, viene destinato alle indagini sul caso Sergio Gori, vicepresidente della Montedison, gruppo industriale e finanziario tra i più importanti d’talia. A stretto contatto con il giudice Pietro Calogero e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il giovane commissario scopre significativi particolari sui traffici d’armi e sul coinvolgimento di gruppi della sinistra militante: dalle Brigate Rosse ad Autonomia Operaia.
Un lavoro minuzioso, complesso ma anche molto rischioso, tanto che le prime minacce non tardano ad arrivare. E nonostante ciò, Albanese rifiuta sia la scorta sia il trasferimento. Il 12 maggio 1980, un commando di otto persone fa fuoco contro di lui, in via Comelico, non lontano dalla sua dimora. Il commissario non muore sul colpo, ma durante il tragitto verso l’ospedale Umberto I di Venezia. Lascerà a casa la moglie Teresa incinta di quel figlio che non conobbe mai e che, ora quarantenne, porta il suo stesso nome: Alfredo.
Per il suo omicidio, la corte d’assise di Venezia condannò quattro brigatisti all’ergastolo e altri otto a pene variabili tra i quattro e i sedici anni di reclusione.
Alla sua memoria è dedicato il parco pubblico “della Bissuola”, vicino al luogo dell’agguato, mentre nel 1981 e nel 2013 gli vengono dedicate due medaglie d’oro al valore civile e come vittima del terrorismo per “gli alti valori morali espressi nell’attività prestata presso l’Amministrazione di appartenenza e per i quali, a Mestre, il 12 maggio 1980, venne ucciso in un agguato tesogli dalle Brigate Rosse”.
“Eroi come Albanese sono testimonianza di valori che tra noi non moriranno mai. Sono dei simboli che non possono essere dimenticati, perché saldamente fermi nel nostro cuore”, ha dichiarato il questore di Venezia Maurizio Masciopinto, durante la cerimonia di commemorazione svoltasi la scorsa settimana nella caserma veneziana a lui intitolata. Una cerimonia ristretta, come l’omaggio dell’amministrazione tranese alla lapide in piazza Albanese, a causa delle limitazioni dovute all’emergenza sanitaria ma ugualmente emozionante: a quarant’anni di distanza, il ricordo di questo giovane servitore dello Stato è ancora integro e palpitante tra quanti lo conobbero ed ebbero modo di apprezzarne il grande valore e l’immenso coraggio.