Finalmente Bar Giuseppe è disponibile su Ray Play (qui il trailer) e Bitonto, le sue strade, il suo centro storico, il suo forno di pietra a San Francesco la Scarpa, divengono motivo di narrazione, luoghi deputati al lento fluire di una poesia composita di immagini. E teatro, soprattutto, di una storia antichissima, ambientata nei tempi moderni, forte di tematiche attualissime. Il film nasce da un libro brevissimo di Gianfranco Ravasi, “Giuseppe”, che il regista Giulio Base ha reinterpretato in chiave laica e moderna.
Il regista cercava un luogo che potesse rendere questa dicotomia tra passato e presente e che potesse rappresentare in maniera iconica quello che la storia voleva significare. Non è casuale, quindi, che Base – autore semplice ma intuitivo, moderno ma conservatore, abile nello sfruttare il paesaggio che attornia i personaggi – abbia scelto proprio la città di Bitonto.

Non è semplicemente una questione estetica: “Bitonto rappresenta un ossimoro”, spiega. “Se da una parte sentiamo parlare di questioni negative, come la criminalità, dall’altra la città è stata ad un passo dal diventare capitale della cultura, perché ha una grande bellezza tutta da riscoprire. È piena di contraddittorietà, un po’ come la storia di Giuseppe e Bakira”.
E, infatti, Base racconta una storia contraddittoria. Giuseppe, splendidamente interpretato da Ivano Marescotti, perde prematuramente la moglie e si ritrova da solo a gestire il suo bar, denominato per l’appunto “Bar Giuseppe”. I figli vorrebbero che lui lasciasse l’attività e perfino Bitonto, specialmente uno dei due, gravemente indebitato e invischiato in affari loschi e imprecisati, probabilmente riguardanti furto e prostituzione.
Eppure, Giuseppe continua ad andare avanti. È straordinariamente bella la scena del corteo funebre, che si snoda per le strade della città. La telecamera scorre sul muro di pietra del borgo antico per poi svelare i volti addolorati dei parenti e dei conoscenti. Il volto di Ivano Marescotti è l’icona del dolore, solcato com’è dalle rughe e dalla sofferenza. Si può dire, senza esagerare, che sul suo volto si rifletta l’intera proiezione. E, infatti, tutto cambia non appena arriva Virginia Diop, nel ruolo di Bakira, attrice esordiente e già parecchio promettente, poiché quell’iconico volto di Marescotti si fa disteso, visibilmente felice.

Se Giuseppe è simbolo della vecchia generazione bitontina, della sua ruralità, Barika è l’essenza del nuovo. È africana, ha una religione e una cultura diverse, mangia anche diversamente. Appare sempre sullo sfondo, almeno all’inizio, contrapponendosi a Giuseppe, così introverso, chiuso e triste, con la sua allegria, la sua giovinezza e con una bellezza che non passa inosservata tra gli abitanti della città.
La vediamo per la prima volta in primo piano, mentre riempie le bottiglie dalla fontana nei pressi del liceo classico. Giuseppe sta rientrando in casa, dopo il funerale della moglie, e lei lo segue con gli occhi per tutto il tragitto. La telecamera, con un’oggettiva, ci mostra l’intera scena: in primo piano Barika, in lontananza Giuseppe.
I due s’incontrano per la prima volta, quando Giuseppe cerca qualcuno per il suo bar. Si ritrova ad assumere l’intera famiglia di Barika e, piano piano, i due si avvicinano, fino ad innamorarsi. Un amore puro, ideale, fatto della vicinanza dei due spiriti, attratti da una forza che non riescono bene a comprendere. Si sposano e, quando passano per le strade, tutti i bitontini parlano, vociano e ridacchiano di quella strana coppia. Il riferimento di Giulio Base è al film Malena di Tornatore, poiché ricorda molto gli sguardi dei cittadini, rapiti dalla donna, pronti a spettegolare e a mettere in giro voci infondate sul suo conto.
Il momento di massima tensione è quando la ragazza rimane incinta, senza che Giuseppe l’abbia mai toccata. Subito si pensa che l’abbia tradito, ma se vi fosse molto di più? Se quel nome tanto particolare, Barika, racchiudesse un significato ben più profondo? E se, per caso, la ragazza fosse un riflesso di Maria, della Madonna? Barika significa proprio “vergine”. Quella tra Giuseppe e Bakira è, infatti, una riproposizione in chiave moderna, laica e cristiana del mistero della sacra famiglia. La storia di un amore che trascende i confini stessi dell’uomo.

E, comunque, la vicenda non va letta solamente in chiave religiosa. Vi è qualcosa di incredibilmente moderno in una Maria nera, di origini africane, innocente, viva e bella al contempo. E, allo stesso modo, in questo novello eppure antico Giuseppe, che accetta il duro compito che gli è stato assegnato, come pure la maldicenza della gente. In questa verità, difficile da credere, si cela il sacro e il valore del sacro.
“Abbiamo perso il valore del sacro”, sembra dirci Giulio Base. E non si parla in termini religiosi. Abbiamo smesso di sorprenderci, di credere che vi sia qualcosa di speciale nelle piccole e grandi cose, che il divino stia lì dove tutto è profondamente inspiegabile. Che non tutto è davvero alla nostra diretta comprensione, qualunque cosa si celi dietro alla gravidanza di Bakira. Ma il film mostra anche l’immensa solitudine di chi si trova emarginato, totalmente estraneo ai meccanismi della città, incapace di rientrare nei canoni tradizionali e in ciò che comunemente è ritenuto giusto.

Giulio Base ha ritratto la solitudine di due anime, alla ricerca di conforto, e il simbolo di questa estraneità, di una vita confinata ai margini, è proprio quel bar, fuori mano, distante dal paese, quasi fosse un quadro di Edward Hopper: “Ci vedevo la perfetta mescolanza di umanità e dolore in quel bar desolato, ma anche il rispetto dei cittadini, la familiarità di chi frequentava il bar. Era tutto lì. E i paesani, i ragazzi, tutti erano già di per sé al posto giusto. Dovevo solo filmare e ritrarre un tempo e un luogo senza confini, un presepe moderno. Bitonto mi è sembrata la città ideale” conclude.
Nell’immagine in alto, Ivano Marrescotti in una scena di Bar Giuseppe