Alta. Elegante nel passo e nel gesto sicuro guidato dallo sguardo intenso e bellissimo, la professoressa di Latino e Greco del mio Liceo Ginnasio Carmine Sylos di Bitonto. Si chiamava Giovina Castro. E io ne ero innamorato.
Un amore innocentissimo da adolescente che, nella taciturna petulanza di un corruccio segreto, nascondeva l’individuazione di un modello perfetto di fascino femminile. Si, lo ammetto, nel segreto delle turbe ancora puerili, vedevo dilatarsi orizzonti favolosi che la maestà cerimoniale del pudore di lei spegneva con una ingenuità più infantile della mia, sicura nell’altera rocca della cattedra.
Fortilizio irraggiungibile, la cattedra, quanto lei, la mia professoressa che la usava con elegante discrezione, non esente da affabilità magistrali che a me sembravano ostentate per sottrarsi al sospetto che noi, ciurma di ragazzacci, potessimo profittare della sua giovane età per insolentire la sua fatica di docente.
La sua perfetta inclinazione all’insegnamento faceva di quell’aula, gravata da conventuali memorie architettoniche, un “peripato” immaginario ove molti di noi si sentivano inadeguati e io, in particolare, mi sentivo spaesato. La sua dottrina era impeccabile, il suo amore per quello che era stata chiamata ad insegnare era evidente e appassionato.
E la sua intransigenza didattica si dimostrava solo conseguenza della laboriosa passione per la missione magistrale. Mentre la sua intransigenza didattica nei mei confronti era solo ombreggiata da un infinitesimale ammicco che, qualche volta, annunciava, nella sua affascinante espressione di donna e non di professoressa, il rimprovero severo per quei sogni che decifrava nei miei sguardi innocenti, ma adoranti che non riuscivo a nascondere.
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Forse fu per questo che preferii essere somaro, e non reo confesso di turbamento per la mia professoressa. Sequestrai nel mio sciocco cuore di adolescente quell’innocente poema che andavo compitando e mi feci passare per discolo impenitente, arrogante e sfacciato. E asino nelle sue materie. Mi riuscì benissimo.
Il buon signor preside Cardone non si dava pace e non riuscì a spiegarsi come poteva un ragazzino essere così impudente da guadagnare i massimi voti in perfetti temi di Italiano, competentissimo in Storia e Filosofia ed essere così testardamente renitente nelle altre materie letterarie. Oggi confesso che io non studiavo neanche Italiano e Storia. Gli è che quelle materie le sapevo già perché avevo passato anni a leggere e, quindi, ad amarle.
Aggiungo che le concause dei miei scarsi successi scolastici in quell’anno furono anche dovute ad altri e diversi turbamenti e allo spaesamento in cui mi trovai ad annaspare per ragioni che, forse, Giovina Castro, la mia professoressa, aveva intuito.
Restò in me quel giacimento di cultura classica che, comunque avevo indagato, perlustrato, e cominciato ad amare con lei. Più tardi, molto più tardi, mi confidò che aveva capito la mia solitudine e la mia malinconia giovanile. E, finalmente, mi disse che ero proprio bravo. Non le chiesi perché non me lo avesse detto, allora, in classe. Perché ne sapevo la ragione: non lo meritavo. Brava, affascinante, colta. Ma, sempre, professoressa.
In alto, la prof.ssa Giovina Castro (foto Rosetta Ruggiero 1955)