Tra i grandi compositori del Novecento, Morton Feldman, esponente di spicco della New York School, è certamente quello che più ha concepito la musica in analogia alla componente visiva, considerata un fattore determinante nella strutturazione delle sue partiture (sia grafiche che non) e concettualizzata tramite la metafora dell’opera come “time canvas”. Concetto alla base della costruzione di rapporti di relazione sempre sorprendenti tra il parametro del tempo e la sua rappresentazione spaziale. La sua ispirazione, d’altronde, Feldman la trovò nel lavoro degli amici pittori legati all’espressionismo astratto (Rothko, Pollock, de Kooning) molto più che nei suoi colleghi compositori, da egli squisitamente descritti come «la più pedantesca, la più barbosa, la più ingenerosa congrega di esseri umani che si possa incontrare su un pianeta gremito di uomini che ci saltellano sopra e lo rimpiccioliscono sempre più».

Dalla sua musica e dalla monumentale opera String quartet n.2, il fotografo Pino Musi si è lasciato guidare per il progetto Polyphōnia, una riflessione sull’espansione della città, indagata al suo limite estremo, verso gli svincoli delle superstrade di Parigi, Anversa, Berlino e di alcune città italiane. Ma anche un tentativo di capire come la struttura seriale dei corpi architettonici delle aree da lui esplorate possa entrare in simbiosi con le sonorità di Feldman. Il risultato è magnificamente esposto nella mostra curata da Stefania Zuliani negli spazi della Fondazione Biscozzi | Rimbaud di Lecce, inaugurata alla presenza dello stesso Musi. Un ambizioso progetto espositivo composto da tre momenti distinti ed egualmente rilevanti: l’esposizione in sé (con le foto stampate in esatone a getto d’inchiostro e adesivizzate su lastrine di alluminio, a loro volta montate a squadro preciso su telai neri profondi 7 cm), un film di venticinque minuti e un libro, pubblicato da Dario Cimorelli Editore.

Tre modi di fruire Polyphōnia che restituiscono autonomia ai differenti linguaggi utilizzati – contro la sempre più diffusa idea dell’immagine come di un “codice debole” e contaminabile al punto di annullare qualsiasi specificità del mezzo utilizzato – e allo stesso tempo si oppongono alla concezione della fotografia come “objet trouvé”, che esaurisce la sua funzione nel momento in cui viene “trovata”. Se infatti l’objet trouvé si autorappresenta, diventa immagine di se stesso nel momento in cui viene scelto e indicato, ancora prima che collocato nello spazio espositivo, le fotografie devono rinegoziare costantemente la loro rappresentazione con il contesto spaziale che le ospita. Spazio che può essere quello di un museo, appunto, ma anche quello definito dai pieni e dai vuoti delle pagine, laddove anche un fondo bianco può rappresentare un “pieno”, un’immagine in dialogo con la fotografia stampata. Se l’idea della notazione musicale, ad esempio, viene richiamata “dal vivo” dalla profondità dei blocchi neri installati sulle pareti del nobile palazzo leccese, nello spazio della “macchina-libro”, come la chiama Musi, si riconfigura attraverso una labbratura nera delle pagine interne.
In qualche modo, di “grafismo musicale” Musi si era già occupato con Facecity, progetto realizzato su incarico della Biennale Architettura di Venezia: una scrittura musicale sperimentale in cui le immagini creavano una partitura con contrappunti e dissonanze, interagendo tra loro a partire dal ritmo geometrico interno ad esse. Se in quel caso però la scelta era quella di stare rigorosamente frontale rispetto ai soggetti architettonici e, dove possibile, mantenere una distanza fissa, stavolta lo sforzo è quello di cogliere le architetture da quelle angolazioni che le astraggono dal contesto, girandoci attorno per trovare le “pause” nel loro incessante dialogo con l’ambiente che le circonda. È così che Musi rinuncia all’apertura verso lo skyline, che inevitabilmente avrebbe ricondotto le immagini a una dimensione banalmente descrittiva, scegliendo consapevolmente di non rivelare tutti quegli elementi che avrebbero potuto connotare geograficamente i luoghi della città. La presenza “massiccia” del bocco fotografico utilizzato, inoltre, ne evidenzia lo spessore e quindi la sua natura oggettuale, l’essere emergenza tridimensionale della realtà a discapito della bidimensionalità illusoria data dalla “pasta” digitale sapientemente lavorata.

Se è vero che il suono, nella sua complessità e nelle sue varie articolazioni, non si può scrivere – la notazione tradizionale offre espedienti grafico/simbolici solo per le altezze, ritmi, tempi – è anche vero che già artisti come Sylvano Bussotti, ridiscutendo una semiologia della musica fondata su di una disposizione cartesiana delle note sul pentagramma, hanno utilizzato colori, linee, parole, sovrapposizioni per individuare una dimensione spaziale, tattile e visiva da poter percepire acusticamente. Le fotografie di Musi, in tal senso, sono dispositivi musicali paradossalmente più “sonanti” di quelli classici. Con la serie Projections (1950-51), fu proprio Feldman a introdurre un sistema di notazione rivoluzionario che riduceva la partitura a una griglia di pochi e semplici simboli grafici, intendendo comunicare agli esecutori i registri (acuto, medio o grave), ma non le altezze precise, le durate e le dinamiche. La volontà era quella di usare il suono come gli astrattisti puri usavano il colore e di trasformare il tempo in spazio, intendendolo quindi non come qualcosa che procede linearmente, ma come un paesaggio in cui far “cadere” l’ascoltatore.
È sicuramente nella sua declinazione espositiva che il progetto Polyphōnia rende plasticamente evidente la sua natura di scrittura elettronica che si articola sulle pareti, per trovare poi nuova risemantizzazione nel “flusso” cinematografico. “Momie du changement”, mummia del cambiamento, chiamava il cinema Bazin differenziandolo dalla fotografia. Se infatti quest’ultima opera un congelamento e una frammentazione infinita, sviluppando costanti interruzioni spazio-temporali, il film obbliga il tempo a “riprodursi” nel presente in un luogo preciso (dove avviene la proiezione; nella sala, sullo schermo). Il film di Musi, però, potrebbe anche apparire, per l’estetica delle sue fotografie, in costante tensione con quella del disegno, come un film “disegnato”, appunto: animato. Intendendo quel cinema d’animazione che, sosteneva Ghezzi, «ha il pregio di dividere il cinema internamente, alludere a processi multipli, spezzare l’univocità fotografica del senso, dando più senso alla fotografia stessa». Il movimento non è dato, ma si trasmette, come se qualcosa di preesistente (fisso, infatti) venisse “agganciato” a un treno, a un processo già in movimento, a un “motore”.

E questo movimento è dato dalle continue dissolvenze incrociate tra due assoluti: il gesto e l’anti-gesto, l’emergenza della rappresentazione e la sua successiva dissoluzione, l’evaporarsi del visibile e il residuo del “non visto”. L’immagine fissa misteriosamente si muove perché trema e vibra di un tempo interno con cui lotta e che gli è imposto. Le fotografie si sovrappongono secondo una logica combinatoria infinita che supera il passaggio-mutazione-trasformazione da una forma-stadio all’altra per alludere a una plasmabilità illimitata dell’inanimato da animare. Le immagini vanno e vengono, ma nella dissolvenza è possibile farsi ingannare, giocare con la memoria delle forme che sembrano ripetersi, tornare ogni volta con piccole variazioni, proprio come avviene nelle composizioni di Feldman. «Compongo spesso con l’obiettivo di alienare la memoria», spiegava. «Posso far tornare qualcosa, ma mai nella stessa maniera. Si crea così uno strano effetto di familiarità, come quando rivediamo qualcuno dopo tanti anni e ci sembra contemporaneamente di avere davanti la stessa persona e un’altra a noi sconosciuta».
Il libro, ultima delle tre espressioni di Polyphōnia, accoglie la fotografia ancora in un altro ed ennesimo spazio, differente dai due precedenti (schermo cinematografico e sala espositiva), ma in qualche modo legato all’esperimento cinematografico nel modo in cui, sfruttando la trasparenza che si crea girando le pagine, si ricrea anche l’effetto di dissolvenza e compenetrazione. Stavolta, però, la fotografia è dinamizzata insieme al bianco del fondo, che, senza timore reverenziale, la interrompe non per sacrificarla, ma per creare dei corto-circuiti che le diano slancio espressivo. Ancora una volta si chiede uno sforzo mnemonico a chi osserva (stavolta posto in una relazione di dimensione e distanza con l’immagine completamente differente dalla fruizione museale o cinematografica), per individuare risonanze, dare un senso all’isolamento della singola immagine o alla coesistenza di due immagini affiancate, trovando un ritmo negli spazi bianchi, nella “griglia” nuovamente mobile.

Due parole, in conclusione, sullo spazio che ospita la mostra. La Fondazione Biscozzi | Rimbaud si trova in un piccolo palazzo d’epoca situato in piazzetta Giorgio Baglivi nel centro storico di Lecce, a pochi metri da Porta Napoli. Il percorso all’interno dell’allestimento permanente si articola cronologicamente: dalle origini del contemporaneo alla sezione sull’Informale in Italia e in Europa, per passare poi al filone astratto-geometrico e cinetico-programmato, alla pittura analitica e, infine, alle ricerche che oltrepassano gli statuti tradizionali del quadro e della scultura. Nel corso di più di quarant’anni, la collezione “costruita”, con l’affinarsi del proprio gusto, dai due coniugi, appassionati d’arte, è andata a documentare – in maniera certo non esaustiva, ma anzi con uno sguardo volutamente personale e intimo – una parte importante dell’arte italiana e internazionale del Novecento, con speciale riferimento al periodo 1950-1980.

La mostra temporanea di Pino Musi è anche un’occasione imprescindibile, per chi non l’avesse ancora fatto, per scoprire uno spazio espositivo non ancora troppo conosciuto ma che, per molti aspetti, rappresenta un unicum in Puglia.
Nelle immagini, il pubblico che osserva le opere di Pino Musi (Foto tratte dalla pagina Fb della Fondazione Biscozzi | Rimbaud)





