Ma quanto conta la volontà dei popoli nel conflitto in Palestina?

La retorica sull’impossibilità di una soluzione pacifica favorisce il consolidamento delle leadership nei gruppi di potere su entrambi i fronti, a scapito degli interessi reali delle rispettive comunità

La storia è una roba strana. Pensi di sapere molto o tutto e, invece, non sai niente. Leggi la storia ufficiale, la storia che si legge sui libri di storia e ti dimentichi che esiste anche un’altra storia, quella della memoria, che si legge nell’animo umano, che appartiene alle esperienze dirette dei protagonisti, piccoli e grandi, spesso, soprattutto piccoli.

La storia delle persone che hanno vissuto sulla propria pelle gli eventi e che contribuiscono, con le loro testimonianze, a formare il tutto: tanti piccoli tasselli di un ipotetico stesso puzzle. Anche i loro racconti fanno la storia. O meglio, danno credito a una loro storia che, non necessariamente, si sovrappone o si concilia con la storia che si legge sui libri. La loro è un’altra storia. Talvolta, forse quasi sempre, pure tutta un’altra storia.

In un recente intervento sempre su questo stesso giornale, riportavo gli in terrogativi dello storico del nazismo Ian Kershaw (L’uomo forte): Quanto incidono gli individui sulla formazione della storia? Gli individui sono in grado di cambiarne il corso in maniera sostanziale? La storia è sempre e comunque la storia dei grandi uomini? E se sì, come e perché questi leader furono in grado di agire nel modo in cui agirono? Quali i vincoli, quali le pressioni, quali le forme di sostegno o di opposizione? Dentro quali specifici contesti? E la loro personalità quanto ha contato? Domande che è possibile riproporre senza colpo ferire con riferimento a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. Domande che non trovano di certo una risposta definitiva, pur tuttavia sempre valide e che, a maggior ragione, non è possibile non farsi quando si affrontano tematiche delicate, complesse come quella evocata. Argomentazioni che rischiano di trascinarci fino al collo dentro implacabili sabbie mobili. Pur tuttavia, è lecito dire la nostra, seppure tra mille esitazioni. Ecco dunque che dico la mia sul conflitto tra Israele e Palestina, sul quale, proprio in queste ultime ore, sembra aprirsi lo spiraglio di una possibile tregua.

Parto da una domanda che ormai da giorni corre veloce sulla bocca di tanti: il conflitto israelo-palestinese riguarda sul serio il futuro delle popolazioni coinvolte, o è soprattutto un conflitto tra élite, sia politiche che militari che religiose? Il conflitto quanto interessa realmente le due popolazioni e quanto è mantenuto e alimentato da quelle rispettive élite, e non solo? Cosa farebbero i due popoli se fossero loro a decidere le sorti del conflitto? La mia risposta immediata è che, seppure col cuore a pezzi, i palestinesi firmerebbero una qualche forma di pace definitiva anche oggi stesso; diversamente per Israele, dove la questione si pone in modo meno convincente.

La questione, d’altro canto, è dolorosa, quanto ingarbugliata, e altalenante, almeno stando ad alcuni sondaggi recenti dell’Institute for National Security Studies (prestigioso centro di ricerca israeliano con sede a Tel Aviv, collegato all’università, famoso per le sue analisi sulla sicurezza nazionale, le relazioni internazionali e la politica estera), del Pew Research Center, think tank indipendente con sede a Washington D.C. (che si occupa di indagini sociali e democrafiche a livello globale) e del Palestinian Center for Policy and Survey Research (eccellente istituto di ricerca indipendente con sede a Ramallah). 

Il sondaggio del Pew Research Center (marzo-aprile 2024) evidenzia che un 39% degli istraeliani ritiene la risposta militare contro Hamas “giusta”, un 34% la considera “insufficiente” e solo un 19% la giudica “eccessiva”. Ciò significa che 3 istraeliani su 4 sono d’accordo con le politiche del governo. Un’altra indagine più recente sempre del Pew (febbraio-marzo 2025) mostra che la grande maggioranza dei cittadini israeliani (il 75%) non crede che potrà esserci una pace duratura con i palestinesi, stante la totale mancanza di fiducia reciproca e il nodo centrale del futuro da assegnare alla città di Gerusalemme; anche se a gennaio di quest’anno il 49% degli istraeliani riteneva che fosse arrivato il momento di porre fine al conflitto, percentuale salita al 60% a giugno. Lo Swords of Iron Survey 2025 dell’Institute for National Security Studies (documento che fotografa lo stato d’animo del Paese) mostra un crescente disincanto rispetto alla politica del governo (oltre il 70%), e soltanto il 42% crede nelle possibilità di successo degli obiettivi militari, mentre un 47% esprime una netta opposizione al perpetuarsi delle ostilità, e ciò (due ultimi dati) nonostante che l’80% degli israeliani ha fiducia nelle forze di difesa del Paese. Da queste risultanze sembra potersi dire, in estrema sintesi, che la popolazione istraeliana vive immersa in un clima di fiducia, ma anche di stanchezza.

Lo stesso istituto segnala poi, sull’altro versante, che una parte non maggioritaria ma rilevante (42%) dei palestinesi preferisce un’amministrazione tecnocratica, però senza Hamas (favorevole ad Hamas uno strettissimo 1%), magari appoggiata da forze internazionali, mentre soltanto il 10% propende per il ritorno in auge dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Sul fronte opposto, la situazione appare ancora più complessa. Secondo un sondaggio condotto tra maggio e giugno 2024 dal Palestinian Center for Policy and Survey Research, il 49% dei residenti di Gaza emigrerebbe se ne avesse la possibilità. Tuttavia, circa due terzi continuano a sostenere l’attacco del 7 ottobre 2023, ritenendo che abbia contribuito a dare maggiore visibilità internazionale alla causa palestinese.

Tuttavia, già nell’aprile 2025 il sostegno ad Hamas è in sensibile declino: siamo sotto il 40%. Il 48%, poi, non ne condivide i metodi di azione, come peraltro si è visto nelle proteste anti-Hamas del marzo del 2025, con la richiesta di porre fine alla guerra e di assicurare pace e governabilità, anche se da mesi (un’inchiesta del dicembre 2024) si assiste al crollo di fiducia nell’azione dell’Autorità Nazionale Palestinese: solo un 15% di soddisfatti, contro un 57% a favore di Hamas. Forse perché privi di una reale alternativa, e non fidandosi delle parole del governo istraeliano, la maggioranza dei palestinesi rimane in ogni caso contraria allo smantellamento di Hamas come condizione per la fine del conflitto. Peraltro, una parte significativa della popolazione palestinese, nonostante le evidenti difficoltà, continua a considerare la soluzione dei due stati come soluzione possibile e auspicabile. Non altrettanto sembra riscontrarsi in Israele, che parrebbe nettamente contraria alla soluzione dei due stati.

Insomma, e in estrema sintesi: in Israele qualche voce contraria c’è, ma non per questo si dice che bisognerebbe trovare quanto prima una soluzione, magari rinunciando ad alcune rivendicazioni; si dice soltanto che la risposta militare è eccessiva, non che non debba esserci. Tuttavia, le voci in direzione della necessità di una soluzione a breve sembrano aumentare. In Palestina, la situazione  sembra portare sempre più le genti verso un generale sentimento di rassegnazione rispetto a una possibile fine del conflitto, quanto meno a breve: molti andrebbero volentieri via, ma non si sentono per questo di condannare l’azione di Hamas. Non vedono, di fatto, cos’altro sia possibile fare per ottenere giustizia. In un sondaggio del luglio 2024, condotto in collaborazione tra il Palestinian Center for Policy and Survey Research e l’Internazional Program in Conflict Resolution and Mediation avviato dall’Università di Tel Aviv, si scopre che sia gli israeliani che i palestinesi tendono a vedersi reciprocamente come vittime del conflitto e pensano entrambi che dall’altro lato si stiano commettendo gravi violazioni dei diritti umani e crimini efferati. Questo aumenta la polarizzazione e il reciproco sospetto sulle reali intenzioni dell’uno e dell’altro, e diviene, per entrambe le popolazioni, una concreta giustificazione delle atrocità commesse.

La situazione, come si vede, è quanto mai complicata. Tornando alla domanda iniziale, se è una guerra a uso e consumo delle élite, è innegabile che le spinte di quest’ultime esistono, eccome: per il governo israeliano, il conflitto diventa spesso terreno di scontro elettorale e di coesione nazionale, con la sicurezza come tema dominante; per Hamas, il conflitto è strumento di legittimazione politica e identitaria, necessario per rafforzare la sua presa sulla Striscia di Gaza. Tuttavia, sarebbe riduttivo asserire che le due popolazioni non ne siano consapevoli o che rimangano indifferenti, giacché sono profondamente segnate dalla sofferenza e desiderose di pace e di una vita migliore. Naturalmente, la narrazione, come sempre succede, ruota soprattutto attorno ai leader e alle figure carismatiche, mentre la gente resta sullo sfondo, ma come in Israele larga parte della società desidera, sì, sicurezza ma pure normalità, così molti palestinesi manifestano una crescente frustrazione per la mancanza di prospettive economiche e libertà civili.

Le élite parlano di vittoria, mentre la gente comune sogna lavoro, istruzione, futuro. Il desiderio di normalità fa breccia dentro il muro innalzato da vertici intransigenti. Per questo, entrambe le popolazioni mostrano evidenti segni di rifiuto della retorica élitaria e vorrebbero meno discorsi ideali e più risposte pratiche a un quotidiano sempre più drammatico. Questo porterebbe a dire che la speranza della fine del conflitto non risiede tanto nella volontà dei vertici, quanto nelle proteste e nelle iniziative di chi sta in basso, sotto, in nome di una vita più dignitosa. O, nel caso, dei palestinesi, semplicemente di una vita. Ma non c’è nulla di scontato: la distanza tra élite e popolazioni è alimentata dalla paura, dalla propaganda e, per certi versi, dalla stessa assenza di alternative politiche, senza contare il ruolo che giocano le potenze regionali e internazionali, nell’influenzare le scelte delle élite locali. È difficile, se non impossibile, dire, quindi, quando tutto questo finirà: ci vorrebbe un indovino, ma non è questo il mio caso.

Ciò mi porta a dire che è ora di lasciare andare verso il suo destino la domanda che mi sono posto all’inizio, se le due popolazioni, istraeliana e palestinese, sono coinvolte emotivamente e politicamente nel conflitto, oppure sono ridotte a due spettatrici inconsapevoli, giacché – a dirla tutta – oramai conta poco o nulla, se mai qualcosa ha contato. Dico solo che a me pare che entrambe le popolazioni – e non solo loro, anche le élite e forse tutti quanti noi – sono al momento ostaggio di una sorta di narrazione dell’inevitabile: una narrazione ricorrente che rende ciechi rispetto alla possibilità di immaginare scenari alternativi, soluzioni diverse da quelle prospettate, che appaiono, al momento, del tutto inadeguate.

C’è da dire che la questione israelo-palestinese non è cosa recente, parte da lontano, quanto meno dalla fine dell’Ottocento (Ilan Pappé, Brevissima storia del conflitto tra Istraele e Palestina), e anche per questo la matassa è ingrovigliata come non mai. Probabilmente, una qualche soluzione potrebbe arrivare proprio se e quando si riuscirà ad abbandonare questa retorica dell’inevitabile, perché molto, se non tutto potrebbe essere evitato se guardassimo con maggiore onestà e lucidità a quanto sta accadendo. Ma non si vuole farlo, perché la storia – come si dice – la fanno i vincitori.

La storia la fanno i vincitori, ma la storia, in definitiva, è anch’essa – come tutte le cose di questo mondo – una questione di punti di vista. La storia la fanno i vincitori, il che però assicura automaticamente qualcosa di buono? Non mi sembra che stia scritto sulle tavole di Mosè. “Dipende” direbbe Pau Donés dei Jarabe De Palo. La nostra percezione della realtà dipende dal punto di vista che assumiamo, non c’è una verità assoluta uguale per tutti; la verità è complessa, sfaccettata, ha molte sfumature e la comprensione delle cose cambia in base all’angolo da cui le guardiamo. Lo stesso uso della parola “oggettivo” è fuorviante, quale sinonimo di verità inoppugnabile. L’oggettività sta nel metodo che si segue nell’arrivare alle cose, giammai nel punto di vista da cui si parte, chioserebbe Max Weber. E allora mi si permetterà nel prosieguo di prospettare quanto accaduto in modo tale che in qualche misura mi porterà a esprimere, spero, il mio punto di vista, di prendere in qualche modo posizione, perché – dal mio punto di vista, appunto – alcune cose saltano agli occhi. Sempre pronto a ricredermi.

Una prima questione è forse la domanda delle domande: come è possibile costruire una patria in un territorio abitato da un altro popolo? Sin dalla prima fase dell’appropriazione della Palestina (1882-1918) gli ideologi sionisti già immaginavano una Palestina senza i palestinesi e discutevano sul come poterla realizzare. Peraltro senza troppo porsi il problema della legittimità internazionale, confidando nella realtà che si costruisce sulla base dei fatti. Dei fatti compiuti, stabiliti sul campo. Evidenza tuttora valida. Israele ha sferrato, nei giorni passati, l’attacco più micidiale mai sinora ancora visto, nell’intento di occupare militarmente e definitivamente Gaza City. Un territorio non loro. Va tuttavia ricordato che al tempo di Gesù, buona parte degli ebrei vivevano nella terra che sarà poi chiamata Palestina, allora sotto il controllo dei romani. Gli ebrei diedero vita a diverse rivolte, perché non sopportavano il dominio dei romani, al che l’Imperatore Adriano trasformò Gerusalemme in colonia romana, distruggendo persino il tempio. A quel punto, gli ebrei ribelli furono cacciati dalla città. Il divieto degli ebrei di entrare a Gerusalemme durò sino a Costantino (306-337), allorché permise loro di rientrare per pregare e piangere sul luogo del loro santuario.

In secondo luogo, l’appropriazione dei territori palestinesi ha tutte le caratteristiche di una forma di colonizzazione, una particolare forma, quella che Ilan Pappé definisce come insediativa. Nel colonialismo classico lo scopo è trasformare la popolazione nativa in fedeli sudditi coloniali, non certo quello che i colonizzatori debbano diventare la popolazione maggioritaria, dominante nella colonia; nel colonialismo insidiativo, invece, chi colonizza punta a sostituire completamente la società nativa insediando, appunto, la propria. Di conseguenza la popolazione indigena rappresenta gioco forza un ostacolo da rimuovere. I territori non sono vuoti. Sono i coloni che vogliono svuotarli. Qualcuno, per questo, ha parlato di logica dell’eliminazione e di pulizia etnica. Tenuto, tuttavia, conto di quanto sopra riportato, è molto probabile che gli israeliani non si sentano dei colonizzatori, né classici né di tipo insediativo, allorché considerano quelle terre come proprie, quanto meno anche come proprie, giacché un tempo – come s’è detto – anch’essi l’abitavano e sono stati costretti a emigrare.

In terzo luogo. I popoli che un tempo abitavano la Palestina non erano primitivi. L’annotazione non è peregrina, giacché i coloni tipicamente ricorrono  spesso – per giustificare il loro comportamento nei confronti delle popolazioni autoctone – alla messa in scena di rappresentare i nativi come selvaggi o primitivi, ovvero d’essere guidati da nobili scopi, come il portare i vantaggi della modernizzazione, quand’anche un vero e proprio afflato di civiltà, in luoghi arretrati. Nel caso del colonialismo insediativo, soprattutto sul versante della terra: non è un caso che ancora oggi molti israeliani credono alla fantasia secondo la quale la Palestina – prima del loro arrivo (o, se si vuole, del loro ritorno) – era sostanzialmente un grande deserto, che grazie a loro è rifiorito. Ebbene: quando alla fine della seconda guerra mondiale fu istituita la Striscia di Gaza per accogliere le centinaia di migliaia di palestinesi espulsi da Istraele, questa, di fatto, divenne il campo profughi più grande del mondo, quando storicamente Gaza era una città socialmente e culturalmente cosmopolita sulla via Maris, la vecchia rotta commerciale che andava dal Cairo a Damasco; un territorio che è sempre stato abitato da una pluralità di popoli e culture (comprese  alcune delle più antiche comunità cristiane).

In quarto luogo, cosa è successo in questi ultimi venticinque anni? Gli israeliani potranno anche non sentirsi dei colonizzatori, magari anche a ragione dal loro punto di vista, ma in concreto abbiamo assistito a un progressivo processo di conquista territoriale e di costruzione di insediamenti che vanno dal fiume Giordano sino alle sponde del Mediterraneo. In quel territorio, nel duemila, i palestinesi costituivano grosso modo la metà della popolazione. Da allora sino a oggi, sono stati allontanati, ghettizzati, privati di alcuni diritti fondamentali. Il che fa supporre che Israele – non si sentirà paese colonizzatore – ma a me pare altresì evidente che quanto è successo dal duemila in poi è frutto di un’idea portante che, nella sostanza, è sempre stata la stessa sin – come abbiamo detto – dalla fine dell’Ottocento: una Palestina senza i palestinesi. E ammesso e non concesso che i palestinesi in qualche misura alla fine dovranno pur esserci, l’idea di scorta di Israele mi pare si fondi sulla subordinazione perenne del popolo palestinese.

Quinto punto. Hamas. Certo c’è, e non è composto da angioletti approdati sulla terra per indicare a noi poveri umani la via maestra verso la fede, modello il Dudley-Washington di Uno sguardo dal cielo. Ma Hamas è nato nel 1967, non nel 1882, o nel 1918, o nel 1948. Qualche motivo ci dovrà pur essere se una piccola frangia della popolazione ha deciso di percorrere la strada del terrorismo, perché di questo stiamo parlando, e non – a mio modo di vedere – di una vera e propria lotta di liberazione nazionale. Verso la fine degli anni Sessanta, Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza erano occupate militarmente. Questo è un fatto. Intendiamoci: il massacro del 7 ottobre 2023 è imperdonabile dal punto di vista umano e strategicamente sbagliato dal punto di vista politico. Personalmente, poi, non ho mai sopportato la logica del tanto peggio tanto meglio, che mai capirò. Quell’unico atto di così straordinaria ferocia, ha totalmente azzerato e messo sotto silenzio i tanti morti in campo palestinese che pure ci sono stati negli ultimi cento anni. Inoltre, ha avvalorato la tesi di chi sosteneva che è letteralmente impossibile trovare un punto di incontro, giacché da un lato abbiamo uno stato con tutte le carte in regola e dall’altro un popolo, neppure un’entità statuale, per di più, se non proprio ostaggio, quanto meno preda del gioco di un pugno di assassini.

Sesto punto. L’annosa questione dei due stati, quale possibile soluzione, secondo molti l’unica percorribile. Ma non più agli occhi dei due contendenti in campo, se mai lo è veramente stata. È d’altro canto evidente che con l’attacco a Gaza City, Istraele ha chiuso ogni strada per una possibile soluzione seppure lontana a quella del pieno riconoscimento di uno stato palestinese. Riconoscimento a cui Israele, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, almeno formalmente, aveva acconsentito, seppure con non poche riserve. Il Piano di Partizione dell’ONU (Risoluzione 181 del novembre 1947) prevedeva, infatti, la creazione di uno stato ebraico e uno stato arabo-palestinese, con Gerusalemme sotto amministrazione internazionale. La leadership palestinese e gli stati arabi, invece, lo respinsero nettamente. Le riserve di Istraele riguardavano il territorio assegnato, a suo giudizio troppo spezzettato e ridotto. La reazione negativa arabo-palestinese nasceva dall’ingiustizia di assegnare circa il 55% della Palestina agli ebrei, che allora non superavano il 35% della popolazione e possedevano non più del 7-8% delle terre. Tutto spiegabile, tuttavia per molti analisti il rifiuto palestinese è stato un errore.

Se non altro dal punto di vista pragmatico: non è da escludere che se avessero accettato la ripartizione, oggi esisterebbero due stati. Naturalmente, il rifiuto aveva un suo respiro umano e psicologico: l’ingiustizia insopportabile del vedere assegnata, per decisione altrui e senza alcuna garanzia di consenso popolare, più della metà della propria terra a un popolo in gran parte immigrato soltanto negli ultimi decenni, s’univa alla paura di diventare una minoranza nel proprio paese, di perdere il controllo della propria vita, oltre che delle proprie terre. Insomma: il rifiuto non atteneva soltanto strettamente ad una logica politica, ma s’inseriva in un particolare contesto emotivo e sociale. Certo, il risultato è stato che i palestinesi sono rimasti senza stato e hanno perso più territori rispetto a quelli previsti dalla Risoluzione ONU. Anche se la storia insegna che la storia non si fa con i se e con i ma. Tenendo conto di quell’idea dominante di Istraele risalente all’Ottocento, di una Palestina senza palestinesi, chissà cosa sarebbe davvero successo.

Settimo punto. Genocidio: sì o no? La domanda forse si potrebbe proprio non porre, considerato che è di questi giorni il rapporto di una commissione internazionale indipendente dell’ONU dove si legge che le autorità israeliane stanno commettendo genocidio nei confronti della popolazione palestinese della Striscia di Gaza. Non è una decisione definitiva e universalmente accettata, e neppure di una qualche vera e propria dichiarazione ufficiale, ma è una risultanza che non può essere sottaciuta né ridimensionata appellandosi a qualche metodica considerazione (sembra che manchi all’appello un criterio, per una piena soddisfazione dei cinque previsti dalla Convezione ONU del 1948: il criterio della deportazione dei bambini, che non risulta sostenuto nel rapporto della commissione). Dal mio punto di vista, mi fido di chi ha l’abitudine di dare alle parole il peso che meritano. Parlo di David Grossman e dell’intervista rilasciata a La Repubblica, uscita on-line il 31 luglio e il 1° agosto, nell’edizione cartacea, di quest’anno. Grossman ricorda che per anni si è rifiutato di usare la parola genocidio per descrivere la situazione a Gaza, ma che ora – dopo ciò che ha letto, visto e ascoltato da persone che sono state in quei territori – non può più trattenersi dal dire che stiamo assistendo a un genocidio. Lo manifesta con immenso dolore, per quanto sta accadendo, e dolore anche nel dover ricorrere a parole così forti, che mai avrebbe voluto pronunciare. Per quanto riguarda poi una possibile soluzione, anche lui è convinto – pur valutando la complessità della situazione – che l’opzione dei due stati sembra quella più credibile. Purtroppo, con ogni probabilità, quella più lontana, dopo l’attacco a Gaza City.

Ottavo e ultimo punto. Il ruolo delle potenze europee e mondiali, in particolare della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Affermare che senza di loro tutto quello a cui stiamo assistendo non sarebbe successo sarebbe sin troppo facile. Il che non significa dire che responsabilità non ce ne sono. Il fatto è che nel corso del Novecento, specialmente dalla metà del secolo in poi, siamo passati a vivere da un mondo complicato (è sempre stato complicato) a un mondo complesso. Sempre più complesso. E vivere in un mondo complesso è un poco come scrivere un romanzo giallo, dove c’è un morto e c’è un assassino che, tuttavia, mai si scoprirà.

Le foto si riferiscono allo sciopero svoltosi lungo le strade di Bari, indetto dalla CGIL Puglia il 3 ottobre scorso per la Palestina e la flottilla (dalla pagina Fb del sindacato)